La forma è sostanzaLe virtù della democrazia rappresentativa e la mannaia del referendum
All’emotività referendaria è quasi impossibile rimediare: non a caso tornare indietro sulla Brexit si è rivelato impossibile. Si può, invece, trovare una soluzione a scelte sbagliate, come la vittoria di Donald Trump nel 2016, aumentando il numero dei partecipanti alle elezioni e contando fino all’ultimo voto
Chi si è svegliato come da un incubo, scoprendo con gioia che Trump non è più presidente degli Stati Uniti, è andato indietro col pensiero e incontentabile – si è chiesto cosa si può fare per l’altro guaio di quello stesso 2016, la Brexit.
Fu allora un colpo doppio da KO. Cominciava la stagione folle e inebriante dei populisti e dei nazionalisti, da noi italiani già nobilitata dal vasto programma grillino del vaffa. E a conferma del non c’è due senza tre, sarebbe arrivato prima della fine anno il referendum che spazzava via la riforma costituzionale in Italia, un agglomerato che insieme a furbesche concessioni demagogiche (Province, Senato) avrebbe preservato il Paese dal conflitto Stato-Regioni in piena pandemia.
Rimediare ai guai di quell’anno bisesto sembra oggi possibile. In fondo, l’ancor fortissimo trumpismo è stato battuto da milioni di voti in più, prima ancora che dai grandi elettori della Convenzione.
Ma c’è una differenza più profonda tra questi esiti elettorali, ed è la differenza tra la democrazia rappresentativa e quella diretta.
All’emotività referendaria è quasi impossibile rimediare, mentre all’irrazionalità della democrazia parlamentare sì.
Tornare indietro sulla Brexit si è rivelato impresa impossibile. Si è andati più volte vicini – nella lunga crisi britannica, in gran parte ancora in corso – all’idea di rifare il referendum, e forse il bis avrebbe rimediato l’errore del primo voto, ma non è stato possibile. La forza indiscutibile di un popolo che si esprime con un sì o un no è – anche giustamente – difficile da controbilanciare.
L’esito di tante contorsioni successive al Leave, che hanno messo quasi in ginocchio la più antica democrazia del mondo – è stato Boris Johnson, un mini-Trump, abbracciato a quello vero di oltreoceano, e in totale confusione istituzionale, ancora oggi sulla soglia di un no deal per chiudere la vicenda. Uno che ha dovuto affrontare il Covid a mani nude, prima da negazionista e poi senza i miliardi dell’Unione Europea. Uno che è diventato ingombrante anche per il suo partito.
La democrazia rappresentativa ha invece in sé gli strumenti per rimediare a scelte sbagliate. Si vota e si rifanno i conti. Magari, come in Usa, alzando il livello dei partecipanti alle elezioni, con milioni di munizioni in più.
Quando arriva la mannaia del referendum – strumento da maneggiare con molta cura e solo in casi estremi – difficilmente se ne esce. In Italia ricordiamo bene la sicumera dei D’Alema che promettevano di recuperare in pochi mesi la riforma di alcuni punti non controversi. Quattro anni dopo è ben chiaro quanto sia difficile rimettere in piedi una modifica costituzionale. Non tutti i giorni trovi un Pd distratto in tre votazioni che si sveglia alla quarta per paura di essere additato come difensore della casta e fa passare in un amen il taglio dei parlamentari (a proposito: a quando i provvedimenti conseguenti?).
Per contraddire la Brexit ci vorranno anni, ma alla fine chi vuole il Regno Unito in Europa dovrà passare tra le maglie intricate e complesse, ma salvifiche, della democrazia rappresentativa.
Biden ha interesse a ricucire gli Stati Uniti all’Europa e già questo spiazzerà il Johnson che vorrebbe andare alla rottura totale con Bruxelles, senza risolvere la questione irlandese, che in Usa reputano invece importante.
Insomma, se il referendum diventa un’arma populista anch’esso può fare solo guai, perché eclissa la politica.
È la politica il metodo a cui ci si può affidare per riformare e progredire. Può anche essere cattiva politica, beninteso, ma mai come un colpo di mannaia.
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