Bergamo, l'Eden produttivo che è diventato la Wuhan italiana

 

Bergamo, l'Eden produttivo che è diventato la Wuhan italiana

In una settimana la città è diventata una trincea sanitaria e l’unica soluzione è l’invito al coprifuoco. A Nembro ed Alzano Lombardo, i due principali focolai, i sindaci si sono dati regole rigidissime

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BERGAMO — Nella Wuhan d’Italia la gente parla poco: si bada alla sostanza e il pragmatismo è una condizione dell’anima. Più esci dalla città e più è così. Anche Bergamo, come il capoluogo della provincia di Hubei, l’incubatore del coronavirus, nella Cina centrale, è un polo commerciale. Intorno ci sono laghi, fiumi, parchi, grappoli di industrie e capannoni. Ma è come se tutto adesso fosse sigillato in un incubo. Un mondo intermedio scandito dalla paura, dall’incertezza. Nemmeno una settimana e l’Eden produttivo bergamasco si è trasformato in una trincea sanitaria rovente: l’area più compromessa, e più in difficoltà, del Paese.

«La situazione è molto, molto grave — dice in un videomessaggio il sindaco, Giorgio Gori — . Entro fine mese il numero di persone che avranno bisogno degli ospedali crescerà esponenzialmente e non saremo in grado di soddisfare quel bisogno se non limitiamo drasticamente i contatti. Restate a casa. È l’unica soluzione possibile». L’invito al coprifuoco rende il clima. Di una provincia ricca e solida, che però in sette giorni si scopre fragilissima e vulnerabile. Se la curva non scende, la provincia, già in ginocchio, rischia di diventare un lazzaretto. Mentre stiamo scrivendo, sono le 19.30 di ieri, i casi di contagio da Covid-19 sono schizzati a 1245 (erano 997 venerdì sera, +248 in un giorno): primo territorio nel bollettino del Ministero della Salute.

I numeri gelano. Nella bergamasca i contagi galoppano a un ritmo impressionante, più che altrove. Gli ospedali sono al collasso e i medici ora, vedendo che la gente non percepisce il reale grado di pericolo, scelgono la terapia d’urto: riferiscono cosa succede nei reparti. In tempo reale. Daniele Macchini è chirurgo all’Humanitas Gavazzeni di Bergamo. «La situazione è drammatica. La guerra è esplosa e si combatte giorno e notte. Viaggiamo al ritmo di 15-20 ricoveri al giorno. Tutti per lo stesso motivo. I risultati dei tamponi arrivano uno dopo l’altro: positivo, positivo, positivo. Gli esami che escono dalla radiologia — riporta il medico — danno sempre lo stesso responso: polmonite interstiziale bilaterale. Tutti pazienti da ricoverare. Qualcuno già da intubare e va in terapia intensiva. Per altri invece è tardi… ». Il problema nel problema è la carenza di ventilatori. «Ogni ventilatore diventa come oro. Quelli delle sale operatorie che hanno sospeso la loro attività non urgente diventano posti da terapia intensiva che prima non esistevano». Ci si organizza così ovunque: dall’ospedale Giovanni XXIII di Bergamo, a quello di Treviglio, al Bolognini di Seriate. «Quando le terapie intensive diventano sature, se ne creano altre. Oppure si trasportano i pazienti in altre regioni». Tre da Bergamo sono stati portati a Trieste.

Il punto è che 1245 contagiati (contabilità in continua e finora inarrestabile crescita) su una popolazione di poco più di un milione di abitanti (tanti ne conta l’intera provincia, il capoluogo si ferma a 120mila) tracciano una media spaventosa: basti pensare che la città metropolitana di Milano (3,5 milioni di abitanti) di casi ne ha 400. Via Trucca, guard rail che costeggia l’ospedale Giovanni XXIII. Qualcuno ha appeso uno striscione di ringraziamento: “Medici e infermieri siete i nostri eroi. Bèrghem #molamìa” (“Bergamo non mollare”). Per fronteggiare l’emergenza Covid, da 48 ore, sono state coinvolte anche le case di cura private: i pazienti contagiati ma in via di guarigione vengono sistemati in queste strutture. Quanto durerà l’allarme? «Sarà una guerra lunga», dice il professor Walter Ricciardi, Oms e consigliere del ministro della Sanità. «Mancavano appena due giorni al collasso degli ospedali» lombardi, spiega commentando le misure restrittive che isolano la Lombardia.

Qui si è formato un nodo. La graticola mediatica (zona rossa si, zona rossa no) sulla quale per una settimana sono rimasti adagiati i comuni di Nembro e Alzano Lombardo — i due principali focolai della provincia, 27mila abitanti e 376 aziende — si è risolta così: i sindaci hanno messo in campo provvedimenti per “approfondire” il Dpcm governativo. Tradotto: da ieri polizia, carabinieri e polizia locale controllano con posti di blocco chi esce dalla valle Seriana. Verifiche anche nei locali e nei negozi (per scongiurare assembramenti). Ora: è vero che la chiusura dei due tra i paesi più produttivi della provincia avrebbe creato “danni economici enormi”, come dice il sindaco di Alzano, Camillo Bertocchi, ma adesso che lo stop è arrivato a maglie più larghe, i dubbi riguardano la messa in pratica delle limitazioni. Molti pensano che la chiusura doveva essere fatta prima. «Adesso il virus ha già preso il largo», dice Sergio Carminati del “Mo Caffè” di Alzano. Sulla vetrina campeggia quella che il commerciante definisce la sua massima. “Meglio essere pessimisti e avere ragione piuttosto che essere ottimisti e avere torto”.

C’è, in effetti, anche un dato. Ricostruendo il viaggio lombardo del Covid-19 i medici bergamaschi hanno il fondato sospetto che il virus abbia provocato contagi e decessi a Bergamo e in valle Seriana prima ancora che nel lodigiano. Non se ne ha avuta evidenza immediata è perché i tamponi sono stati fatti con qualche giorno di ritardo. La morte una settimana fa del geriatra 61enne Ivo Cilesi — che abitava a Cene, 7 km da Nembro (98 contagi compreso il sindaco) - è stata la piega dell’escalation. «Ci siamo mossi tardi — ammette Giorgio Gori — . È il momento di fermarsi, ognuno faccia la sua parte». Effetti: Ryanair ha tagliato i voli nazionali da e per l’aeroporto di Orio al Serio fino all’8 aprile. Tra ieri e oggi oltre 2mila tifosi dell’Atalanta sarebbero dovuti partire per Valencia per assistere alla partita di ritorno degli ottavi di Champions League (si giocherà a porte chiuse). All’arrivo all’aeroporto spagnolo il capitano dell’Atalanta Alejandro Gomez è stato circondato (senza la distanza di sicurezza di 1 metro) dai cronisti spagnoli che volevano intervistarlo. “Non potete fare un’intervista ora?”. All’insistenza di chi lo ha rincorso con le telecamere, Gomez ha replicato amaro: “Pagliacci!”.

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