La CEDU in Italia vale meno di mezza cicca: TRASFERIRE L'ESECUZIONE DELLA CEDU ALL'ASSEMBLEA COSTITUENTE PERMANENTE DEL POPOLO ITALIANO
Knox c. Italia: la CEDU riconosce la violazione dei
diritti difensivi nel processo per l’omicidio di Meredith Kercher
04 Luglio 2019
“Fin
quando gli uomini sono costretti a ascoltare entrambe le parti, c’è
sempre una speranza; è quando si presta attenzione a una parte soltanto
che gli errori si cristallizzano in pregiudizi, e la stessa verità cessa di produrre i suoi effetti, perché il fatto di essere stata esasperata la rende falsa” John Stuart Mill, “On liberty”
Abstract: Lo scritto analizza la recente pronuncia della Corte EDU con cui l’Italia
è stata condannata per la violazione dei diritti fondamentali di Amanda
Knox, nel processo a suo carico per il delitto di calunnia. Da questa
sentenza è possibile trarre alcuni spunti di riflessione in merito all’incidenza della violazione dei diritti difensivi sulla giustizia processuale e sulla distanza tra la verità storica e quella giudiziaria.
Indice
1. Premessa sulla decisione della CEDU
2. La decisione della Corte
3. La decisione della Corte
3.1 Violazione dell’articolo 3 CEDU
3.2 Violazione dell’articolo 6 paragrafi 1 e 3 lett c) CEDU
Il 24 gennaio 2019 la prima
sezione della Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (di
seguito Corte EDU) ha definito il procedimento intentato dalla cittadina
statunitense Amanda Knox nei confronti dello Stato italiano
La pronuncia della Corte
EDU, connessa al processo che è costatato alla Knox una condanna per il
delitto di calunnia, impone una breve riflessione circa l’apparente antinomia tra l’efficacia del processo e l’efficacia dei diritti difensivi.
Innanzitutto, al centro del processo penale vi è l’indagato e l’indagato, in quanto tale, si presume innocente fino alla condanna definitiva.
Sul punto la giurisprudenza costituzionale è pacifica nel ritenere che la presunzione di non colpevolezza enucleata dall’articolo 27 c. 2 Costituzione debba intendersi nel senso – evidentemente più garantista – di presunzione di innocenza, secondo una lettura convenzionalmente orientata ai sensi dell’articolo 6 § 2 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e le libertà fondamentali (di seguito CEDU).
Di conseguenza, per
valutare la posizione di chiunque rimanga coinvolto in un processo
penale, si rende necessario abbandonare ogni distinzione tra soggetti
colpevoli e non colpevoli. A tale presunzione di innocenza, che, come
detto, tutela l’interessato
fino alla pronuncia irrevocabile, deve corrispondere un trattamento
processuale da non colpevole, configurando questa un generale obbligo di
civiltà ancora prima che un principio di diritto.
Non bisogna infatti mai scordare che il processo penale è finalizzato all’affermazione della Giustizia, quale esaltazione della libertà e della democrazia, senza piegarlo ad istanze punitive né separarlo dall’effettività delle garanzie difensive, le quali spettano indistintamente ad ogni individuo.
Se può dirsi vero che il Pubblico Ministero rappresenta la società nell’interesse della punizione della colpa e che il difensore rappresenta la società nell’interesse dell’innocenza, non è meno vero che entrambi fanno parte di un sistema volto a realizzare l’efficacia
del processo, che trova la propria ragione ed al contempo il proprio
limite nel rispetto delle c.d. garanzie difensive. Tali garanzie non
sono altro che l’espressione del grado di cultura del processo e della società e non riguardano soltanto l’imputato, bensì ogni
cittadino, perchè questi, anche se potrebbe non essere mai coinvolto in
un giudizio penale, ha diritto al rispetto di quanto la Costituzione
gli ha promesso. Il rispetto delle garanzie riconosciute ad
ogni individuo incide direttamente sulla giustizia del processo e
garantisce di conseguenza la giustizia dell’affermazione circa la sua colpevolezza o innocenza.
In tali termini, non
esiste una contrapposizione reale tra istanze punitive e difensive, ma
solo un interesse universale alla salvaguardia della nostra libertà di cittadini: dunque, non c’è nessuna reale alternativa né alcun conflitto tra efficienza del processo e garanzie del cittadino.
2. I fatti
Nella notte tra il 1 e il 2 novembre 2007 Meredith Kercher, una ragazza inglese di 20 anni, veniva assassinata a Perugia all’interno dell’appartamento in cui viveva insieme ad altre ragazze.
Il 5 novembre 2007 Raffaele
Sollecito, legato sentimentalmente ad Amanda Knox, coinquilina
statunitense della vittima, veniva convocato in questura per l’acquisizione
delle sue dichiarazioni. Egli si presentava accompagnato dalla Knox.
Secondo quanto emerso da loro precedenti dichiarazioni, i due avrebbero
trascorso la notte in cui Meredith è stata assassinata presso l’abitazione del Sollecito ed avrebbero scoperto il corpo della vittima solo la mattina seguente.
In questura Amanda veniva sentita come persona informata sui fatti, una prima volta all’1.45
alla presenza di tre agenti di polizia e di una funzionaria che fungeva
da interprete ed una seconda volta alle 5.45 alla presenza del Pubblico
Ministero. Nel corso di tali audizioni – qualificate come spontanee
dichiarazioni – la studentessa americana, precedentemente dichiaratasi
estranea ai fatti, indicava quale colpevole dell’omicidio Patrick Lumumba, gestore del locale ove la stessa lavorava occasionalmente.
Tuttavia, poco tempo dopo,
rendeva dichiarazioni diverse. In particolare, scriveva una
dichiarazione (del 6 novembre) ed altre due memorie (del 9 novembre)
rivolte agli avvocati in cui, da un lato, ritrattava il contenuto di
quanto dichiarato agli agenti in merito alle accuse nei confronti del
Lumumba e, dall’altro, sosteneva di avere reso tali dichiarazioni in uno stato di incapacità di intendere e di confusione mentale, stato causato della violenza verbale e fisica subita dagli agenti.
Secondo quanto affermato
dalla ragazza, durante le audizioni della notte del 6 novembre –
peraltro condotte in una lingua a lei sconosciuta e con l’aiuto
di un interprete improvvisato – la stessa sarebbe stata colpita due
volte alla testa da un agente, offesa ed accusata di mentire perché in
realtà a conoscenza dell’identità del colpevole nonché minacciata di finire in carcere per i successivi trent’anni qualora non avesse parlato. Inoltre, gli agenti avrebbero più volte sostenuto di aver accertato la sua presenza nell’abitazione
al momento del delitto ed avrebbero smesso di maltrattatala solo in
seguito alla sua indicazione del colpevole; momento in cui un poliziotto
l’avrebbe abbracciata e accarezzata.
La successiva attività investigativa conduceva ad accertare l’innocenza di Lumumba, mentre la Knox veniva arrestata per l’omicidio
della Kercher, ipoteticamente commesso in concorso col Sollecito e Rudy
Guede, che si presumeva avesse una relazione con la vittima.
Nel corso del processo, in ragione di quanto raccontato circa le modalità di
audizione nella notte del 5 e il 6 novembre, la Knox veniva denunciata
per aver prospettato in capo ai pubblici funzionari potenziali
responsabilità penali. Simmetricamente, la difesa dell’imputata richiedeva l’accertamento della responsabilità degli operanti in ragione delle modalità di conduzione dell’interrogatorio. La prima notizia di reato si concludeva con una pronuncia di innocenza dell’imputata
per il reato di calunnia, mentre la seconda non veniva mai qualificata
come notizia di reato ed iscritta nel relativo registro.
Amanda veniva tuttavia
condannata per le dichiarazioni accusatorie nei confronti del Lumumba
con sentenza che diveniva definitiva nel 2013. Contro tale decisione
ricorreva alla Corte di Strasburgo denunciando diverse violazioni della
CEDU, tutte relative al modo in cui era stata condotta la sua audizione
la notte tra il 5 ed il 6 novembre 2007.
Nello specifico, la ricorrente lamentava la violazione dell’articolo 3 CEDU, sotto il profilo della violazione dell’articolo 8 CEDU per l’estrema pressione psicologia subita – in una situazione di ristrettezza di fisica – che l’avrebbe
indotta alle dichiarazioni etero accusatorie; la violazione degli artt.
6. e 3 lettera a) c) e) sotto il triplice profilo
della mancata comunicazione in lingua comprensibile della natura e dei motivi dell’accusa a suo carico,
della mancata assistenza di un difensore e
della mancata assistenza di un interprete professionista e indipendente: l’ufficiale di polizia infatti aveva a suo avviso svolto una funzione di mediatore suggerendole ipotesi sul corso degli eventi.
3. La decisione della Corte
3.1 Violazione dell’articolo 3 CEDU
A norma dell’articolo 3 CEDU “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.”
In primo luogo, la Corte di Strasburgo ha accertato la violazione dell’articolo 3 della Convenzione, norma che vieta i trattamenti disumani e degradanti.
Circa le denunce di torture
o trattamenti disumani perpetrate dalla polizia, la giurisprudenza
europea riconosce una particolare tutela alle vittime, prevedendo, in
generale, forti presunzioni di responsabilità in
capo al Governo (cfr. Salman c. Turchia, par. 100; Rivas c. Francia,
par. 38; Bouyid c. Belgio, par. 83, Turan Cakir c. Belgio, par. 54; Mete
e altri c. Turchia, par. 112, Gäfgen, par. 92, e El-Masri c. Macedonia,
par. 152).
È tuttavia necessario
precisare che, per un ormai consolidato orientamento della
giurisprudenza, le predette presunzioni trovano applicazione
esclusivamente con riferimento alle lesioni fisiche evidenti, mentre
esse vengono meno in relazione a violenze psicologiche, dove spetta
piuttosto al ricorrente dimostra l’effettività della lesione subita, secondo le ordinarie ripartizioni probatorie.
Nel caso di specie, la violazione dell’articolo 3 della Convenzione è stata affermata solo in ordine al profilo procedurale. In particolare, l’assenza
assoluta di indagini sul comportamento degli agenti in sede di
audizione – denunciato dalla ricorrente – avrebbe infatti impedito la
verifica concreta dei lamentati trattamenti disumani e degradanti.
Sul punto la giurisprudenza
europea (cfr. Bouyid c. Belgio, parr. 115-123; El-Masri c. Macedonia,
par.182-185; Mocanu e altri c. Romania, parr. 316-326) ritiene che un’“indagine” sia “effettiva” quando risulti:
1. indipendente ed imparziale, pertanto condotta da autorità prive di qualsiasi connessione gerarchica con gli indagati e dotate di un’effettiva indipendenza da essi;
2. tempestiva, caratteristicache
risulta essenziale non solo per la prova dei fatti, ma anche per non
dissolvere il legame di fiducia sociale riposto nelle istituzioni e non
dare adito a sospetti di collusione o di tolleranza di atti illeciti;
3. approfondita, poiché le autorità devono condurre un tentativo serio e scrupoloso di ricostruzione dei fatti;
4. efficace,
in quanto l’indagine deve essere in grado di condurre
all’identificazione ed alla punizione dei responsabili, considerando
però che tale obbligo non si configura come dovere di perseguire un
certo risultato ma di mezzi da impiegare.
La Corte ha affermato che “si deve pertanto concludere che la ricorrente non ha beneficiato di un’indagine che potesse chiarire i fatti e le eventuali responsabilità nel suo caso” e che “per quanto riguarda l’aspetto
materiale della denuncia la Corte ritiene che non vi siano prove per
concludere che la ricorrente sia stata sottoposta al trattamento inumano
e degradante di cui si lamenta” (p. 138-139 sentenza).
In proposito, l’articolo 112 Costituzione, nel sancire l’obbligatorietà dell’azione
penale, integra senza dubbio una delle conquiste più qualificanti della
nostra Carta fondamentale, segnando il superamento della concezione
potestativa della giustizia.
Ed infatti la Corte
costituzionale, con la sentenza n. 88 del 1991, ha definito tale
principio come il “punto di convergenza di un complesso di principi
basilari del sistema costituzionale”, in quanto trova ragione nei
principi di uguaglianza, legalità ed indipendenza istituzionale della pubblica accusa.
L’introduzione dell’articolo 112 è da ricondursi alla volontà di
discostarsi da un passato autoritario, ove vigeva la soggezione dei
Pubblici Ministeri al Ministro della Giustizia e ha continuato a operare
in ragione dell’assetto vigente tra politica e magistratura.
L’indipendenza e l’obbligatorietà dell’azione
penale, considerate dai costituenti come facce della stessa medaglia,
costituiscono (o meglio, costituirebbero) il miglior baluardo dell’uguaglianza di tutti i cittadini. La violazione di tali principi nuocerebbe a tutti, in quanto, senza l’accertamento
della fondatezza di ogni notizia di reato, le norme incriminatrici
costituirebbero vuote e astratte previsioni di divieti e la tutela
penale sarebbe demandata a criteri di priorità discrezionali valutati di volta in volta da ogni soggetto inquirente.
Pertanto, la violazione dell’obbligatorietà dell’azione penale porta con sé – sempre – un vuoto di tutela che, nel caso specifico, si è concretizzato nell’impossibilità di accertare eventuali responsabilità in capo agli agenti.
Ciò, nonostante, da un
lato, nel giudizio di merito siano emersi interrogatori ripetuti per ore
nel corso della notte; atteggiamenti promiscui da parte di un agente
che aveva abbracciato la ragazza in ragione delle dichiarazioni
accusatorie, l’assenza
di un difensore e di un interprete qualificato e la verbalizzazione di
quanto avvenuto estremamente breve e incompleta e, dall’altro, il Tribunale di Firenze chiamato ad accertare la calunniosità delle accuse della Knox nei confronti degli agenti, nel negare la responsabilità dell’imputata,
abbia accertato che nel corso della testimonianza vi sono stati
“omissioni”, “verbali inaffidabili” oltre a “diritti negati”.
3.2 Violazione dell’articolo 6 paragrafi 1 e 3 lett c) CEDU
A norma dell’articolo 6 paragrafo 1 CEDU:“Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente...”e dell’articolo 6 paragrafo 3 lettera c) CEDU “difendersi personalmente o avere l’assistenza
di un difensore di sua scelta e, se non ha i mezzi per retribuire un
difensore, poter essere assistito gratuitamente da un avvocato d’ufficio, quando lo esigono gli interessi della giustizia”.
La seconda violazione accertata dalla Corte attiene all’articolo 6 § 3 della Convezione, cagionata dall’assenza dell’assistenza difensiva durante le audizioni.
Come visto, le dichiarazioni della Knox venivano verbalizzate come
“spontanee”, anche se tale qualifica sconta le conseguenze della mancata
verifica circa la condotta tenuta dagli agenti.
Èdi tutta evidenza che il mancato accertamento delle modalità di conduzione dell’interrogatorio
dovrebbe impedire di poter qualificare le dichiarazioni rese dalla
ricorrente come spontanee, nozione che presuppone l’assenza di coercizioni di sorta.
Non è infatti un caso se la giurisprudenza interna consente l’utilizzo delle dichiarazioni rese dall’indagato in assenza di un difensore quando queste sono spontanee e costituiscono, come nel caso in esame, un reato in sé (ex multis Cass. Pen. n. 10089/2005, n. 26460/10 e n. 33583/15).
Nel caso de quo la
Corte, ribadendo che la qualifica di indagato attiene ad un profilo
sostanziale (cfr. Simeonovic c. Bulgaria p. 110-111) e che si connette
all’esistenza di ragionevoli motivi per sospettare che il soggetto sia coinvolto nel fatto di reato, ha osservato come “la ricorrente (fosse) già stata ascoltata dalla polizia il 2,3,4 novembre 2007 ed era stata intercettata” (pg. 151 sentenza).
“Tuttavia” ha aggiunto la Corte “anche
se tali elementi non fossero sufficienti per concludere che alle ore
1.45 del 6 novembre 2007 la ricorrente potesse essere considerata
sospetta ai sensi della giurisprudenza” – il che comunque
contrasterebbe con le denunciate dichiarazioni di polizia circa le prove
che avrebbero collocato la ricorrente sul luogo del fatto al momento
dell’assassinio – “va
notato che quando ha rilasciato le sue dichiarazioni alle ore 5.45
dinanzi al pubblico ministero, ha formalmente acquisito lo status di
persona incriminata”.
A tal punto la Corte si è soffermata sull’assenza,
nel caso di specie, di motivi imperativi che legittimassero la
limitazione al diritto di accesso ad un difensore e, infine, ha valutato
l’equità complessiva del procedimento a carico della ricorrente.
Nel farlo, ha considerato i
criteri elaborati dalla giurisprudenza europea e riassunti nella
sentenza Beuze c. Belgio (par. 150 sent.), ossia
(i) lo stato di vulnerabilità dell’accusato,
(ii) le circostanze in cui sono state ottenute le prove ammesse in giudizio,
(iii) il quadro normativo e la capacità dell’accusato di confutare le prove a suo carico,
(iv) la natura incriminatoria o meno delle dichiarazioni rese da Beuze in assenza del suo avvocato,
(v) le informazioni di cui la giuria si è servita per giungere al verdetto.
Come esposto, Amanda versava in una situazione di particolare vulnerabilità, considerato che all’epoca dei fatti aveva vent’anni
ed era da poco in Italia, non parlava né comprendeva fluentemente la
lingua, ed è stata ascoltata in assenza di un difensore e di un
interprete terzo.
In ragione di tali
argomenti, la Corte ha concluso che nel processo per calunnia sia stato
violato anche il diritto ad un processo equo.
Infine, la Corte ha accertato la violazione dell’articolo 6 § 1 e 3 lettera e), che sancisce il diritto di “farsi assistere gratuitamente da un interprete se non comprende o non parla la lingua usata in udienza”.
Nell’effettuare
una ricognizione del diritto applicabile al caso, la Corte si è
soffermata sulle previsioni della Direttiva 2010/64/UE del Parlamento
europeo e del Consiglio, sul diritto all’interpretazione e alla traduzione nei procedimenti penali, il cui obiettivo è quello di facilitare l’applicazione pratica del diritto all’interpretazione e alla traduzione per coloro che non parlano o non comprendono la lingua del procedimento, sancito dall’articolo
6 della CEDU come interpretato dalla giurisprudenza della Corte, al
fine di garantire il diritto ad un processo equo delle persone indagate o
imputate.
Sul punto la Corte ha rilevato che, il ruolo svolto dalla funzionaria di polizia di traduttrice “è andato oltre le funzioni di interprete che era tenuta a svolgere". La stessa infatti “aveva in effetti l’intenzione
di stabilire un rapporto umano e emotivo con la ricorrente, assumendo
il ruolo di mediatore e acquisendo un atteggiamento materno non
richiesto” (par. 185 sent).
Nell’affermare tale concetto, la
Corte ha elevato lo standard di tutela previsto dalla precedente
giurisprudenza, inserendo, accanto al requisito della “professionalità dell’interprete”, quello dell’imparzialità.
In ordine al primo profilo, secondo la giurisprudenza europea, il diritto all’assistenza linguistica deve essere concreto ed effettivo per consentire all’imputato di conoscere ciò che gli viene addebitato e di difendersi e si concretizza non solo nell’obbligo per le autorità competenti di nominare un interprete, ma anche – qualora le circostanze lo richiedano – di effettuare un controllo a posteriori del valore dell’interpretariato
(cfr. Hermi c. Italia [GC], par. 70; Kamasinski c. Austria, par. 74;
Cuscani c. Regno Unito, par. 39; Protopapa c. Turchia, par. 80, Vizgirda
c. Slovenia, parr. 75-79).
In merito ad imparzialità e indipendenza del traduttore, sebbene la Corte non ne abbia chiaramente affermato la necessità, in concreto ha censurato l’atteggiamento
della funzionaria di polizia che ha inteso creare una relazione umana e
emotiva con la ricorrente, capace di influenzare le dichiarazioni della
stessa.
La configurazione del diritto all’assistenza linguistica come diritto soggettivo non rinunciabile da parte dell’imputato è un’acquisizione
risalente nel nostro ordinamento, sulla quale hanno inciso in maniera
significativa le norme internazionali ed europee in materia di giusto
processo.
Inizialmente, infatti, la funzione della traduzione era considerata in termini oggettivi, quale mera collaborazione con l’autorità giudiziaria rivolta alla rimozione dell’incomunicabilità linguistica
e legata al buon andamento dei processi; ora, invece, il nesso
lingua-diritto-processo ha assunto un valore fondamentale, oggetto di un
preciso diritto dell’imputato e direttamente derivante dal diritto di difesa.
Èdi tutta evidenza, infatti, che la sussistenza di barriere linguistiche di fatto vanifica i diritti umani dell’imputato ed elimina gli interessi difensivi senza i quali nessun processo può dirsi giusto.
Per questo motivo la giurisprudenza europea ha da tempo chiarito che la finalità dell’articolo 6 co. 3 lettera e) è quella di attenuare “gli svantaggi che l’imputato
che non comprende o si esprime nella lingua usata dalla Corte soffre
rispetto chi è familiare con tale lingua” (Luedicke, Belkacem e Koc.
contro Germania) e, analogamente, la Corte Costituzionale, già dal 1993, considera l’istituto della traduzione degli atti e della presenza dell’interprete per l’imputato
alla stregua di una “clausola generale di ampia applicazione che
assicura una garanzia essenziale al godimento di un diritto fondamentale
di difesa” (Corte Costituzione 10/93).
Eppure, a distanza di
diversi anni, si assiste ancora a violazioni di tale meta diritto che,
collocandosi a monte rispetto tutti i diritti processuali riconosciuti
all’imputato, ne integra la “capacità processuale”, consentendogli di partecipare coscientemente al procedimento.
4. Conclusioni
In conclusione, la Corte ha
accertato la violazione degli articoli 3, 6 parargafo 1, 3 lettera c) e
6 paragrafo 1, 3 lettera e) e ha condannato lo Stato italiano a
risarcire economicamente la ricorrente.
Se quanto esposto non fosse sufficiente ad illustrare l’incidenza del rispetto delle garanzie difensive del soggetto indagato-imputato sulla correttezza dell’esito processuale, basti considerare come si è concluso il procedimento per l’assassinio di Meredith: Amanda e Raffaele sono stati assolti all’esito
di 5 gradi di giudizio durati 8 anni, mentre Rudi Guede è stato
condannato a 16 anni di reclusione per un omicidio commesso in concorso
con nessuno.
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