di Alessandro Morelli
“Una commissione ad hoc eletta dal popolo con 75 membri non
parlamentari può dar vita a un sistema più efficiente e snello”. È
questa la proposta avanzata dall’ex presidente del Senato Marcello Pera,
illustrata in un’intervista a La Repubblica di qualche giorno fa.
“Nelle riforme da fare per ottenere i fondi del piano Recovery – ha
aggiunto Pera – si parla di velocizzare i processi, e certamente
l’ottima ministra Cartabia farà del suo meglio. Eppure la Costituzione
prevede che ‘contro le sentenze’, anche quelle su liti banali fra vicini
di casa, è sempre ammesso il ricorso in Cassazione, dunque tre gradi di
giudizio. Oppure, fra le stesse riforme, si parla di limitare l’appello
del pubblico ministero, che però in nome della Costituzione la Corte
costituzionale ha sentenziato impossibile”. Tale organo dovrebbe essere
eletto dal popolo tra persone che non facessero già parte del
Parlamento.
Una proposta subito accolta dalla capogruppo di Forza Italia al Senato Anna Maria Bernini,
secondo la quale “Sarebbe miope far cadere nel vuoto la proposta del
presidente Pera per far nascere una commissione dei 75 per riformare la
Costituzione, sulla falsariga di quella presieduta da Ruini nel secondo
dopoguerra”. Le riforme alle quali si fa riferimento non riguarderebbero
soltanto il settore della giustizia ma l’intera organizzazione
istituzionale (forma di governo, sistema delle autonomie ecc.).
La proposta di istituire una nuova assemblea costituente poggia sulla
convinzione che le riforme organiche del testo costituzionale finora
approvate dal Parlamento, che non hanno visto la luce (come quella
promossa dal Governo Renzi, bocciata dal referendum del 4 dicembre
2016), siano fallite per la mancanza di una sufficiente legittimazione
politica delle maggioranze parlamentari che le avevano votate.
Legittimazione di cui sarebbe, invece, dotato un organo collegiale
eletto a suffragio universale e diretto, specificamente incaricato di
approvare una nuova costituzione, similmente all’Assemblea che diede
vita all’attuale Carta repubblicana.
Il ragionamento, tuttavia, non convince e la soluzione prospettata appare altamente rischiosa e sostanzialmente illegittima.
Non si comprende innanzitutto perché tale assemblea dovrebbe essere
composta solo da 75 membri. L’Assemblea costituente eletta il 2 giugno
1946, infatti, annoverava 556 componenti e la Commissione presieduta da
Meuccio Ruini, evocata dal numero dell’organo prospettato da Pera, fu
istituita il 15 luglio 1946 tra tutti i Costituenti, con il compito di
redigere il testo da sottoporre, alla fine dei lavori, alla stessa
Assemblea. Non è chiaro, inoltre, perché di tale organo non potrebbero
far parte gli attuali parlamentari, che verrebbero dunque privati
dell’elettorato passivo.
Un organo del genere dovrebbe essere istituito, in ogni caso, con
un’apposita legge costituzionale approvata secondo la procedura
aggravata prevista dall’art. 138 Cost. (due deliberazioni da parte di
ciascuna camera a intervallo non minore di tre mesi, approvazione con
maggioranza assoluta dei componenti di ciascuna camera nella seconda
votazione, possibilità di chiedere l’indizione di un referendum, tranne
nell’ipotesi in cui la legge sia stata approvata nella seconda votazione
dai due terzi di ciascuna camera). La legge dovrebbe anche definire
poteri e limiti dell’assemblea costituente e i suoi rapporti con il
Parlamento. Ma qui sta il problema principale: cosa potrebbe fare tale
assemblea che non possa già fare il Parlamento?
La Corte costituzionale ha chiarito da tempo che la Costituzione
italiana contiene alcuni principi supremi che non possono essere
sovvertiti o modificati nel loro “contenuto essenziale” neppure da leggi
di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali (lo ha
detto soprattutto nella sentenza n. 1146 del 1988 ma anche in diverse
altre pronunce). Oltre alla forma repubblicana, di cui parla
espressamente l’articolo 139 della Costituzione, rientrano tra questi
principi quelli enunciati dai primi dodici articoli della Carta
repubblicana nonché dagli articoli della prima parte che riconoscono
diritti e doveri fondamentali.
A cosa servirebbe, dunque, una nuova assemblea costituente se non a
sovvertire o a modificare nel loro “contenuto essenziale” i principi
supremi dell’ordinamento?
Delle due l’una. Se l’organo che si pensa di istituire non è una vera
“assemblea costituente”, ma solo una commissione, pur a designazione
elettiva, incaricata di predisporre un testo di revisione costituzionale
che non tocchi nel loro “contenuto essenziale” i principi supremi, non
si comprende il motivo della sua creazione e la stessa denominazione
appare impropria. Tutte le revisioni indicate dal promotore
dell’iniziativa, riguardanti i settori della giustizia, della forma di
governo e delle autonomie, possono già essere approvate con la procedura
prevista dalla Costituzione, senza certo il bisogno di creare un organo
ad hoc. Se, invece, si vuole effettivamente dare vita a
un’assemblea costituente, totalmente libera di approvare una nuova
Costituzione (principi supremi compresi), si sta prospettando una
soluzione palesemente incostituzionale, anzi eversiva.
C’è però dell’altro. Un’assemblea costituente non è una soluzione
adottabile in qualsiasi frangente storico, non può essere usata per
superare un momento di stasi politica o una qualunque crisi, pur grave,
della dinamica istituzionale. È l’organo titolare del potere
costituente, legittimato a dare vita a un nuovo ordinamento. Le
particolari condizioni storiche in cui operò l’Assemblea che il 22
dicembre 1947 approvò in via definitiva la Costituzione vigente non sono
certo paragonabili all’attuale contesto politico-istituzionale. Si era
nell’immediato dopoguerra, in una situazione di grande incertezza anche
dal punto di vista politico. I nostri costituenti, come ha scritto Roberto Bin,
lavorarono dietro a quello che John Rawls ha chiamato il “velo
d’ignoranza”: redassero il testo della nostra legge fondamentale con il
peso dell’“umana ignoranza del futuro, aggravata dall’assenza di un
passato recente e significativo, capace di consentire previsioni sulle
sorti politiche delle parti poste a confronto”. Il che – continua ancora
Bin – fece prevalere un atteggiamento di prudenza “dettato dal timore
di soccombere politicamente e di veder travolte le proprie posizioni
politiche, i valori di cui ci si è eretti difensori”. Oggi tali
condizioni non esistono.
Che il Governo Draghi sia sostenuto da una maggioranza parlamentare
estremamente ampia non è una circostanza sufficiente a legittimare
l’istituzione di un’assemblea costituente. L’esperienza degli ultimi
decenni mostra come le decisioni sulle riforme siano prese da ogni
maggioranza parlamentare con le idee abbastanza chiare su come
avvantaggiarsi delle stesse (il succedersi di leggi elettorali
illegittime e difettose è, in tal senso, emblematico).
Che tipo di costituzione potrebbe scaturire allora da una nuova
assemblea costituente? Con tutta probabilità, si tratterebbe di una
costituzione inidonea ad assolvere la duplice funzione che è propria di
tale atto: assicurare la separazione dei poteri e la garanzia dei
diritti fondamentali. Principi, questi ultimi, la cui garanzia
richiederebbe oggi più che mai, dopo la riduzione del numero dei
parlamentari, interventi riformatori volti a rafforzare il sistema dei
contrappesi e delle garanzie costituzionali. E per fare questo gli
strumenti forniti dalla Costituzione vigente sono più che sufficienti.
Serve soltanto la volontà politica.