Draghi presidente della Commissione europea avrebbe rappresentato un evidente vantaggio per l’Italia e per l’Europa. La notizia, riportata ieri da Repubblica, non rappresenta quindi un fulmine a ciel sereno. Ma è molto difficile, per non dire impossibile, che ciò accada. Le ragioni sono due. Il commento di Andrea Cangini

Fallita la scalata di Mario Draghi al Quirinale, due anni fa in molti ritenevano che il futuro dell’ex presidente del Consiglio italiano fosse in Europa. Draghi presidente della Commissione europea avrebbe rappresentato un evidente vantaggio per l’Italia, alle prese con un debito pubblico monstre e con la difficile negoziazione della riforma del Patto di stabilità e crescita da cui dipenderà il peso effettivo di debito e deficit sui nostri conti pubblici.

E avrebbe rappresentato un vantaggio altrettanto evidente per l’Europa, oggi più che mai bisognosa di un uomo forte e capace, grazie all’autorevolezza che gli viene riconosciuta dai governi degli Stati europei e dalla Casa Bianca, di svolgere il ruolo del federatore, dando un’anima politica e istituzioni efficaci ad un continente in stallo ormai da anni e di conseguenza incapace di affrontare le crisi globali cui ci obbliga l’epoca che viviamo: crisi militari, geopolitiche, energetiche, sanitarie e, forse, anche finanziarie.

La notizia, riportata ieri da Repubblica, di un asse tra il presidente francese Macron e quello americano Biden per portare Mario Draghi alla presidenza della Commissione europea non rappresenta dunque un fulmine a ciel sereno. Ma è molto difficile, per non dire impossibile, che ciò accada. Le ragioni sono due.

La prima. Il presidente della Commissione europea è scelto tra i commissari europei e i commissari europei sono scelti dai governi nazionali. Perché Draghi possa concorrere alla carica di presidente occorrerebbe, dunque, che il governo Meloni lo nominasse commissario e che di conseguenza Fratelli d’Italia rinunciasse a designare un proprio uomo nel governo dell’Europa. Per assurdo che possa apparire, è ragionevole immaginare che ciò non accadrà e che sull’interesse nazionale (indiscutibilmente coincidente con la nomina di Draghi alla presidenza della Commissione) prevalga l’interesse di partito. Anche perché il cavallo di battaglia per le elezioni europee scelto da Giorgia Meloni è il premierato, riforma che la presidente del Consiglio identifica con l’impossibilità che un non politico possa più ricoprire la funzione di premier: una narrazione che mal si concilierebbe con l’indicazione di un tecnico, Mario Draghi, alla guida non dell’Italia ma dell’Europa.

La seconda ragione è che il Partito popolare europeo (di cui Forza Italia è uno dei perni) ha già chiuso un accordo per la rielezione di Ursula von der Leyen e quell’accordo potrebbe essere ratificato anche dal gruppo dei Conservatori di cui fa parte Fratelli d’Italia. L’irruzione di Draghi sulla scena scompaginerebbe le carte e altererebbe gli equilibri: difficile che accada. Anche per questo è indicativa la dichiarazione di Antonio Tajani, nella duplice veste di leader di Forza Italia e di ministro degli Esteri del governo Meloni. Tajani non lo dice esplicitamente, ma dal suo ragionare si capisce che secondo lui il posto di Mario Draghi in Europa non sarà quello di presidente della Commissione, ma più realisticamente quello di presidente del Consiglio europeo.

Mario Draghi è una sfinge. Nel suo entourage si dice, secondo prassi, che “non è interessato” al ruolo di presidente della Commissione europea. Figurarsi se può essere interessato a quello, assai meno incisivo, di presidente del Consiglio.