CHE COSA VI HANNO RACCONTATO? I 200 MILIARDI DI BALLE DI CONTE, DRAGHI & C.

 

Il Dipartimento del Tesoro

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Introduzione sezioneModello di stima del valore del patrimonio immobiliare pubblico

Modello di stima del valore del patrimonio immobiliare pubblico

Il modello di stima del valore del patrimonio immobiliare pubblico italiano è stato messo a punto dal Dipartimento del Tesoro nell’ambito del progetto Patrimonio della PA, avviato ai sensi della legge n.191/2009, art. 2, comma 222, per il censimento annuale dei beni immobili delle amministrazioni pubbliche. Tale modello consente di dare una maggiore valenza conoscitiva al censimento condotto dal Dipartimento del Tesoro, rendendo possibile una valutazione del patrimonio immobiliare pubblico basata, per la prima volta, su criteri tecnici condivisi dai soggetti istituzionali operanti nel settore.

 

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Quanto vale il patrimonio (non finanziario) dell’Italia (e degli italiani)? Quasi 9600 miliardi di euro

L’Istat ha pubblicato per la prima volta la stima del valore delle principali attività non finanziarie detenute dalle famiglie, dalle società e dalle amministrazioni pubbliche. Si misura il valore degli immobili (residenziali e non residenziali), degli altri beni di capitale fisso, sia materiali (impianti, macchinari, mobili, mezzi di trasporto, apparecchiature ICT, armamenti), sia immateriali (in prevalenza, software e ricerca e sviluppo) nonché dei terreni agricoli. Per completare la stima del patrimonio di attività reali del Paese, mancano alcune componenti sul cui valore non si hanno informazioni sufficienti, in particolare opere di ingegneria civile, monumenti, scorte delle imprese e oggetti di valore. In sostanza parliamo del patrimonio degli italiani

Quindi se sommiamo il valore di abitazioni, immobili non residenziali (pari al 55% del totale) ma anche macchinari, mezzi di trasporto, apparecchiature elettroniche (Ict), bestiame, animali, terreni agricoli, prodotti di proprietà intellettuale (software e banche dati) otteniamo la cifra di 9600 miliardi di euro. Circa l’88% di tale valore è costituito da immobili: quelli residenziali pesano per circa il 62% e quelli non residenziali per quasi il 26%. Gli altri beni di capitale fisso, materiali e immateriali, rappresentano poco più del 9% e i terreni agricoli pesano per circa il 3% del totale.

 

Chi detiene la ricchezza? Le famiglie detengono più del 90% del patrimonio residenziale complessivo. Il valore dello stock abitativo è quasi raddoppiato tra il 2001 e il 2011 o passando da 3.268 a 6.245 miliardi.  Il tasso di crescita è stato particolarmente sostenuto sino al 2008, con un incremento medio annuo del 9%. Tuttavia negli ultimi due anni (2011 e 2013) la discesa dei prezzi sul mercato immobiliare residenziale ha indotto una riduzione del valore medio delle abitazioni, con una conseguente contrazione del valore della ricchezza abitativa (-3,5% nei due anni).

Oltre il mattone e gli uffici. Lo stock degli altri beni di capitale fisso diversi dagli immobili include sia attività materiali (quali impianti, macchinari, mezzi di trasporto, apparecchiature ICT, mobili, armamenti), sia immateriali (in prevalenza software e ricerca e sviluppo). Il valore di tale stock è risultato in aumento fino al 2008 (con un incremento medio annuo del 4,3%) segnando poi una variazione nulla nel 2009, frutto della forte caduta degli investimenti registrata in corrispondenza della crisi economica. In tale anno il valore dello stock di altri beni di capitale fisso è diminuito in tutti i settori, con l’eccezione di quello delle Amministrazioni pubbliche, interessato da una crescita sostenuta delle spese per sistemi militari. Nel 2010 si è registrata una moderata risalita del valore dello stock, proseguita a ritmo via via più ridotto negli anni successivi. La caduta degli investimenti del 2012 e 2013 ha determinato, per quest’ultimo anno, una nuova riduzione del valore dello stock degli altri beni di capitale fisso (-1,2%).

I terreni agricoli.  La quasi totalità del valore dei terreni agricoli è di proprietà delle Famiglie Il valore dei terreni agricoli presenta una crescita contenuta dal 2005 al 2008 (+1,5% medio annuo), resta quasi invariato nei due anni successivi per poi diminuire a partire dal 2011; nel 2013 il calo è pari all’1,1%. L’andamento degli ultimi anni è influenzato sia dalla diminuzione della superficie coltivata, sia dalla riduzione dei prezzi registrati sul mercato fondiario, conseguente alla crisi economica. L’88% del valore totale dei terreni agricoli è detenuto dal settore delle Famiglie: si tratta essenzialmente dei terreni utilizzati dalle piccole aziende agricole per lo svolgimento della propria attività produttiva. La quota di proprietà delle Famiglie consumatrici (17% del totale nazionale) si riferisce a terreni dati in affitto ad altre unità istituzionali nonché agli orti familiari, ossia ai terreni coltivati dalle famiglie per autoconsumo.

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Il patrimonio dello Stato vale 1.800 mld, quasi come il debito dell'Italia

I 700 mld valorizzabili da subito riguardano 4 aree: crediti, immobili, concessioni e partecipazioni. Per quanto riguarda gli immobili che valgono 500 mld, la parte che si può vendere nei prossimi anni equivale al 5-10% (25-50 mld). Balza subito agli occhi come l'attivo dello Stato e il passivo siano complementari. Il Tesoro punta a realizzare un piano di valorizzazione degli immobili in tempi abbastanza ristretti. Su queste promesse per ridurre il debito dell'Italia e in scia ai dati macro Usa piazza Affari ha accelerato al rialzo

di Francesca Gerosa 29/09/2011 14:05


tempo di lettura 2 min



I 700 miliardi fruttiferi da subito riguardano sostanzialmente quattro aree: crediti, immobili, concessioni e partecipazioni. Per quanto riguarda, in particolare, gli immobili che valgono complessivamente circa 500 miliardi, la parte che si può vendere nei prossimi anni equivale al 5-10%, cioè 25-50 miliardi. Mentre dai diritti Co2 si possono ricavare 10 miliardi di euro.

"Non è che la restante parte del patrimonio pubblico non sia valorizzabile", ha puntualizzato Reviglio, "ma ora ci concentriamo su questi 700 miliardi". Balza però subito agli occhi come l'attivo dello Stato e il passivo siano "complementari", ha sottolineato il sottosegretario alla Difesa, Guido Crosetto.

Se l'Italia ha un debito per oltre 1.900 miliardi, ha una cifra quasi pari di attivo fatto di immobili, partecipazioni e crediti. E una parte consistente è vendibile. Sono, nel dettaglio, 13.111 le società partecipate, le partecipate dirette e le controllate dello Stato. Nel 2003 erano 10.620. Partecipazioni nelle società che valgono 44,868 miliardi di euro.

Per le tre società quotate ( Enel, Finmeccanica e Eni) il valore della quota è complessivamente di 17,342 miliardi di euro, mentre per le non quotate è di 27,526 miliardi di euro. In questo calcolo non sono incluse le partecipazioni in società quotate detenute indirettamente tramite Cassa Depositi e Prestiti.

Quello di oggi è stato comunque solo il primo di una serie di incontri, come ha sottolineato lo stesso ministro dell'Economia, Giulio Tremonti: "oggi facciamo l'inventario del patrimonio, gli altri saranno più operativi". Con oggi, ha aggiunto Tremonti, "prende avvio una grande riforma strutturale per la riduzione del debito e per la modernizzazione e la crescita del Paese".

Il Tesoro punta a realizzare un piano di valorizzazione degli immobili pubblici "in tempi abbastanza ristretti", ha annunciato successivamente il presidente di Hopa, Angelo Rovati. Su queste promesse per ridurre il debito dell'Italia e in scia ai dati macro Usa piazza Affari ha accelerato al rialzo, ora il Ftse Mib sale dell'1,44% a 14.953 punti.

L'economia Usa è cresciuta dell'1,3% annuale nel secondo trimestre. Il Pil nella terza e ultima lettura è stato rivisto al rialzo, oltre l'atteso +1,2%, dal +1% della seconda lettura. Mentre le nuove domande di sussidi settimanali di disoccupazione negli Usa sono scese di 37 mila unità, più delle mille unità attese. Nella media delle ultime 4 settimane le richieste sono arretrate da 422.250 a 417 mila unità. I futures sugli indici di Wall Street sono in rialzo di oltre un punto percentuale.

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N. 559 - Un'introduzione ai conti patrimoniali dell'Italia: caratteristiche metodologiche e principali evidenze

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di Luigi Infante e Francesco Vercelliaprile 2020

I conti patrimoniali registrano le consistenze di attività finanziarie e non finanziarie, e delle passività dei settori istituzionali e permettono di identificare la parte di ricchezza investita in strumenti finanziari e quella accumulata in attività reali. Il lavoro descrive i principali aspetti metodologici relativi alla costruzione dei conti patrimoniali e completa il quadro della ricchezza dell'Italia per settori istituzionali dal 2005 al 2017.

In Italia, la quota delle attività non finanziarie sul totale della ricchezza è salita tra il 2005 e il 2008 dal 43 al 47 per cento per effetto della dinamica dei prezzi dei fabbricati, per poi ridursi lentamente dal 2012 e raggiungere il 41 per cento nel 2017. La ricchezza netta delle famiglie italiane in rapporto al reddito lordo disponibile risulta elevata nel confronto internazionale; il divario con gli altri paesi è andato riducendosi nel corso dell'ultimo decennio.

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N. 610 - L'under-reporting della ricchezza finanziaria nell'indagine sui bilanci delle famiglie

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di Leandro D'Aurizio, Ivan Faiella, Stefano Iezzi, Andrea Neridicembre 2006

Le principali fonti per la stima della ricchezza finanziaria delle famiglie italiane provengono dalla Banca d’Italia e sono costituite dai Conti Finanziari, pubblicati con cadenza trimestrale, e dall’Indagine sui bilanci delle famiglie (IBF), realizzata ogni due anni. Le stime delle attività finanziarie di natura campionaria hanno il pregio di poter essere disaggregate per numerose caratteristiche rilevate nell’indagine ma risultano a livello aggregato sistematicamente inferiori a quelle basate sui Conti Finanziari (anche dopo avere tenuto conto delle differenze nelle definizioni).

L’obiettivo del lavoro è quello di presentare una procedura per correggere la distorsione delle stime della ricchezza finanziaria delle famiglie italiane basate sui risultati dell’indagine sui bilanci, causata dalla reticenza dei partecipanti a indicare il possesso nonché l’ammontare effettivamente detenuto degli strumenti finanziari (under-reporting).

La procedura di correzione proposta si basa sulle informazioni ottenute da un’indagine su un campione di famiglie clienti del gruppo Unicredito (indagine UCI), raccordate ai dati sulle consistenze effettivamente detenute presso le banche del gruppo.

L’aggiustamento dei dati IBF avviene in due stadi successivi. Nel primo si misura la reticenza, confrontando le dichiarazioni degli intervistati nell’indagine UCI con i dati sulle consistenze effettivamente detenute, in funzione degli importi dichiarati e delle caratteristiche socio-economiche delle famiglie. Nel secondo stadio, le relazioni stimate allo stadio precedente sono estese al campione IBF, ottenendo valori aggiustati della ricchezza finanziaria per l’intera popolazione italiana di clienti bancari.

La media delle attività finanziarie corrette per l’under-reporting è pari a 59 mila euro (più del doppio rispetto ai dati non aggiustati), ovvero circa l’85 per cento della stima dei Conti Finanziari (a seconda dei parametri usati nel processo di aggiustamento, il valore è compreso tra l’81 e l’89 per cento). La maggiore correzione interessa le obbligazioni e i fondi comuni; anche a causa di ciò, la quota di famiglie con portafogli rischiosi aumenta sensibilmente.

L’intensità dell’aggiustamento risulta superiore per le famiglie con un solo componente e cresce con l’età del capofamiglia. Inoltre, essa aumenta per i capifamiglia con basso titolo di studio e per coloro che sono pensionati o disoccupati.

Nel complesso, dopo il processo di correzione, la concentrazione della ricchezza finanziaria mostra una lieve diminuzione.

Testo della pubblicazione

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 Ricchezza finanziaria procapite in Europa. Italia batte Germania

CHE COSA VI ANNO RACCONTATO? I 200 MILIARDI DI BALLE DI CONTE, DRAGHI & C.

 Banca d'Italia - La ricchezza delle famiglie e delle società non finanziarie  italiane, Ultime pubblicazioni

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Munich Personal RePEc Archive

Italian Household Wealth: Background, Main Results, Outlook

Luigi, Cannari and Giovanni, D'Alessio and Grazia, Marchese (2008): Italian Household Wealth: Background, Main Results, Outlook. Published in: Household wealth in Italy, Banca d’Italia, 2008 (May 2008): pp. 13-29.

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Abstract

The paper offers a broad overview of the topics addressed during the Bank of Italy's conference on Household wealth in Italy held in Perugia (Italy) in 2007. It recalls the principal reasons for central bank involvement in the compilation of statistics on wealth, looks at the Bank of Italy's experience in this specific field, provides a brief synopsis of the research to date and compares the new estimates with those previously available. The final section provides some thoughts on the future direction of the research.

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Gli italiani e la ricchezza

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E’ stato pubblicato il secondo Rapporto AIPB-Censis «Gli italiani e la ricchezza.

Affidarsi al futuro, ripartire dalle infrastrutture». L’approfondimento  analizza in primo luogo come si è evoluta la ricchezza finanziaria delle famiglie nell’economia post crisi e di come il risparmio viene considerato e utilizzato, fino alla verifica del permanere nella cultura sociale collettiva di una percezione positiva della ricchezza, allorquando crea sviluppo, anche in un contesto economico e di sentiment sociale deteriorato rispetto allo scorso anno; la maggioranza degli italiani reputa la ricchezza un’opportunità per l’Italia, se si stimolano i detentori a investirla bene, creando nuova ricchezza da ridistribuire.

Un secondo tema è quello del rapporto tra ricchezza e Paese, concentrandosi sul posizionamento e sulla percezione dei benestanti rispetto al contesto socioeconomico nazionale e su come questo influisce sulla propensione agli investimenti nell’economia reale. In particolare, ci si è chiesto se i gruppi benestanti sono disposti a utilizzare il proprio patrimonio solo per sé stessi, con lo scopo di salvaguardare e accrescere il patrimonio personale, o hanno anche altri valori, aspettative e interessi, come la voglia di dare il proprio contributo anche a finalità di natura sociale, che possono andare a vantaggio di tutta la comunità.

Dall’indagine emerge nettamente la propensione dei clienti private a valutare le opportunità di investimento diretto nell’economia reale, ed in particolare in attività produttive, in quanto generatrici di occupazione e reddito; potente è la consapevolezza di poter giocare un ruolo importante nelle dinamiche di sviluppo del paese o anche nel sostegno alla comunità locale di appartenenza e trova, infine, ampi spazi anche la sensibilità sociale e ambientale.

L’investimento in infrastrutture, infine, costituisce il tema monografico del Rapporto di quest’anno. In un recente studio della McKinsey si stima che l’Italia, per colmare il gap infrastrutturale, dovrebbe investire, nel periodo 20172035 risorse aggiuntive pari uno 0,2% del PIL in più rispetto a quanto è stato speso nel 2010-2015 (2,3% del PIL).

Quali sono le principali evidenze ?  La ricchezza finanziaria complessiva delle famiglie italiane non è ancora tornata ai livelli pre-crisi. Alla fine del 2018 ammontava a 4.218 miliardi di euro: -0,4% in termini reali rispetto al 2008. Molta la ricchezza ereditata dal passato, poca la nuova aggiunta di recente. Nella composizione del portafoglio delle attività finanziarie degli italiani vince la voce contante e depositi bancari, con 1.390 miliardi di euro, pari al 33% del totale e una crescita del 13,7% rispetto a dieci anni fa.

Boom anche delle riserve assicurative, pari al 23,7% del portafoglio, con un aumento del 44,6% in dieci anni. Crollano invece titoli obbligazionari (pesano per il 6,9% del portafoglio, erano pari al 21% dieci anni fa) e azioni (-12,4% dal 2008). In questo quadro, sono 500.000 le famiglie italiane che detengono patrimoni finanziari superiori a mezzo milione di euro (circa il 2,5% delle famiglie). E ammonta a circa 850 miliardi di euro il portafoglio di risparmi per investimenti affidati al private banking.

Secondo il 76,8% degli italiani, contante, soldi tenuti fermi sui conti correnti bancari e investimenti finanziari non devono essere tassati in misura maggiore delle risorse che invece vengono investite nell’economia reale.

Le idee degli italiani sul risparmio prevedono una difesa intransigente della libertà di scelta del risparmiatore e ancora una predilezione per il contante: amatissimo strumento contro l’insicurezza.

Se l’economia reale vuole attirare risparmio deve rendersi allettante, e non per effetto di una tassazione aggiuntiva sulla liquidità. Tra i risparmiatori vince poi una crescente diffidenza verso lo Stato: il 61,2% degli italiani non utilizzerebbe i propri risparmi per acquistare Bot, Btp o altri titoli del debito pubblico.

È la fine dei «Bot people», quando il risparmio privato alimentava una esplosiva spesa pubblica, che a sua volta foraggiava redditi privati e un sistema di welfare pubblico molto generoso.

Nella percezione delle persone più ricche esiste poi un rischio-Paese per l’Italia. Per il 53,4% di loro pensare al futuro del Paese desta preoccupazione, per il 23,4% curiosità e solo nell’8,3% suscita un senso di sfida. Sono stati d’animo che non incentivano a investire, soprattutto nel lungo periodo.

Tuttavia, il 68,2% dei ricchi non ha alcuna intenzione di andarsene dall’Italia: perché il 42,2% afferma che in Italia ha le proprie radici e il 26,0% ritiene che il nostro sia uno dei Paesi in cui si vive meglio al mondo. Le infrastrutture sono considerate poi per l’89,3% degli italiani investimenti strategici.

Per il 50,7% bisogna investire nella messa in sicurezza del territorio contro frane, inondazioni e terremoti, per il 39,3% nelle energie alternative, per il 33,2% nella ristrutturazione di monumenti, chiese, opere d’arte, siti archeologici, per il 22,5% nelle ferrovie e nei treni locali, per il 22% in collegamenti stradali e ferroviari tra il Tirreno e l’Adriatico, per il 20,8% nella connessione internet veloce ovunque e per il 20% nei trasporti pubblici delle grandi città.

Se in Italia le infrastrutture si annunciano e poi non si portano a termine, per il 57,9% degli italiani ciò dipende dalla corruzione, per il 54,1% da regole eccessive e burocrazia lenta, per il 33,7% da controlli insufficienti sulle imprese che realizzano i lavori, per il 31,7% dalla politica che cambia idea sulle opere da realizzare.

Proprio le ragioni che bloccano o rallentano i cantieri dissuadono gli italiani dall’obiettivo di investire i propri soldi negli strumenti di finanziamento delle infrastrutture. Anche tra i clienti del private banking (i ricchi) il 56,7% opta per altri investimenti dai rendimenti più sicuri e il 55,7% teme ritardi o blocchi delle opere. Nonostante tutto ciò, il 35,3% investirebbe in infrastrutture

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Il ritorno del Capitale: La distribuzione della ricchezza in Italia negli ultimi 50 anni

 “Capital is back” è la celebre affermazione di un gruppo di economisti, guidati da Thomas Piketty, su uno dei cambiamenti macroeconomici più legati alle politiche di riduzione della disuguaglianza. Stando agli studi più recenti, lo stock di ricchezza è tornato ai livelli osservati da Marx nell’Ottocento. In Italia, Paese a crescita zero in cui servirebbero sette anni di reddito per acquisire la ricchezza privata accumulata, la politica fiscale potrebbe staccarsi, almeno in parte, dai fattori produttivi.

Reddito vs Ricchezza: la wealth-to-income ratio

Quando parliamo di reddito abbiamo ben presente il flusso di utili in un dato periodo derivante dall’attività lavorativa e dai ritorni degli investimenti di capitale. Se il reddito è un flusso, la ricchezza è invece uno stock: il valore totale, in un dato momento, di asset fisici e finanziari.

Da un lato, la distribuzione del reddito e della ricchezza sono intrinsecamente legate: i capital gain sono redditi provenienti dalla ricchezza, dallo stock di capitale investito. Dunque la ricchezza genera reddito. Vale anche il contrario? Sicuramente maggiore è il flusso in entrata di reddito, maggiore è la possibilità di acquistare asset che generino ricchezza (che a sua volta genera reddito).

Questo “gioco per pochi” di ricchezza e reddito è uno dei punti cruciali del Capitale nel XXI secolo dell’economista Thomas Piketty, che si trova a studiare un’economia mondiale più simile oggi a quella osservata da Marx nell’Ottocento – dove la ricchezza aumenta di importanza e si polarizza inasprendo la disuguaglianza – che a quella dell’ultimo secolo, basata sul reddito.

D’altro canto, tra ricchezza e reddito ci sono delle differenze. Seguendo Piketty, se il ritorno sul capitale è maggiore della crescita dell’economia, il reddito perde importanza come fattore di accumulo della ricchezza, che cresce invece grazie ai trasferimenti intergenerazionali (eredità e donazioni). La distribuzione della ricchezza, per questa sua natura intergenerazionale, ha quindi conseguenze più profonde e durature di quella del reddito.

Se il reddito condiziona gli standard di vita correnti, la ricchezza fornisce uno sguardo sul futuro tramite maggiori opportunità, da trasmettere anche alle generazioni future, che costruiranno la loro ricchezza partendo da un gradino più alto.

Per capire l’importanza della ricchezza rispetto al reddito nel nostro Paese possiamo analizzare la wealth-to income ratio, il rapporto tra ricchezza accumulata e gli anni di reddito che servirebbero ad acquisirla.

Concentrandoci sulla ricchezza privata, il trend degli ultimi 50 anni vede un aumento del rapporto ricchezza-reddito dal 200-350% della maggior parte dei Paesi sviluppati negli anni ’70 a valori che puntano al 600% nel 2016 (Figura 1).

Figura 1

Nella scalata al rapporto più grande tra ricchezza privata e reddito l’Italia vince il primo posto (Figura 2), con valori triplicati in 50 anni e trend in crescita, davanti agli altri Paesi dell’Europa Occidentale, al Giappone e all’Australia (World Inequality Report 2018).

I motivi delle fluttuazioni sono vari. Nel caso della Spagna, ad esempio, il valore della ricchezza è cresciuto sproporzionatamente dagli ultimi anni 90 allo scoppio della bolla immobiliare, che ha ridotto notevolmente il costo di un asset, la casa, che molto influisce nella formazione della ricchezza, come si può vedere dal crollo del rapporto ricchezza-reddito per il paese iberico nel suo ultimo tratto. Anche dietro il calo del Giappone negli anni 90 c’è lo scoppio di una bolla speculativa che portò il paese asiatico dalle stelle al cosiddetto “decennio perso”[1].

Per il caso italiano, Acciari e Morelli (2020) hanno stabilito che il trend crescente nella wealth-to-income ratio è stato il risultato dell’accumulo di ricchezza privata, guidata dalla proprietà immobiliare, in linea con la decrescente importanza della ricchezza pubblica iniziata negli anni 80.

Figura 2

Source: WID.world (2016)

La distribuzione della ricchezza in Italia dal Boom Economico alla crisi finanziaria

La distribuzione della ricchezza è più asimmetrica rispetto a quella del reddito (Banca d’Italia 2018). Lo studio di Cannari e D’Alessio (2018) dimostra tale differenza calcolando l’indice di Gini del reddito e della ricchezza in Italia dagli anni ’60 al 2014. L’indice di Gini è la più diffusa misura della diseguaglianza di una distribuzione: è un numero compreso tra 0 (che rappresenta la più equa distribuzione del reddito o della ricchezza, i.e. tutti ricevono lo stesso reddito/accumulano la stessa ricchezza) e 1 (che rappresenta il caso di maggiore concentrazione, in cui è una sola persona a ricevere tutto mentre gli altri resta zero). Comparando due delle serie calcolate dagli autori (Figura 3), si può osservare come il reddito familiare (linea rossa, scala destra) sia più equamente concentrato (i.e. con un Gini più basso) della ricchezza familiare (linee blu e verde, scala sinistra).

Alla fine degli anni ’60 l’indice di Gini della ricchezza familiare si collocava tra 0,75 e 0,80 mentre quello del reddito non superava 0,40.

Questa maggiore polarizzazione della ricchezza si traduceva, tra gli anni ’60 e i ’70, nel seguente scenario: il 10% delle famiglie più facoltose possedeva il 60% circa della ricchezza e il segmento di famiglie tra il 20esimo e l’80esimo percentile ne possedeva il 25%, con i due decili più poveri che possedevano una ricchezza pressoché nulla.

Figura 3

Source: Cannari e D’Alessio (2018)

La disuguaglianza scese fino agli anni ’90, principalmente per merito della diffusione delle abitazioni di proprietà tra la classe media che ha caratterizzato l’ultimo quarto del XX secolo. Nel 1991 il 10% più ricco della popolazione possedeva “solo” il 41% della ricchezza, mentre le famiglie tra il 20esimo e l’80esimo percentile possedevano circa il 40% della ricchezza. Con le recessioni degli ultimi anni la disuguaglianza è tornata a salire, pur non tornando ai livelli degli anni ’60[2].

Altri recenti studi dimostrano come la nuova polarizzazione della ricchezza sia più marcata che in questo studio, con il solo 1% più ricco che detiene più del 25% della ricchezza privata italiana, grazie ai trasferimenti intergenerazionali[3]. Questo fa riflettere in tema di creazione delle policy fiscali.

Bassa crescita e alta ricchezza: le implicazioni di Policy

Riassumendo, la ricchezza privata accumulata è cresciuta di importanza rispetto al flow del reddito, tornando ai livelli del XIX secolo, soprattutto in Italia. Unendo questo dato con la natura più polarizzata della ricchezza rispetto al reddito, viene spontaneo guardare ad essa in modo critico in termini di policy. In base ai dati provenienti dal periodico monitoraggio da parte della Commissione Europea, gli effetti delle politiche di trasferimento sociale con obiettivo la riduzione della povertà e delle disuguaglianze sono stati in Italia tra i più ridotti dell’UE[4].

Con un rapporto tra ricchezza e reddito tra i più elevati al mondo e una stagnazione della crescita del PIL radicata nel Paese, la ricchezza privata accumulata può assumere un valore fondamentale. Si potrebbe pensare a un prelievo fiscale che si sposti, almeno in parte, dai fattori della produzione alla ricchezza, liberando potenziale produttivo, come tra l’altro suggeriscono le Country Specific Recommendations dell’Unione Europea.

Articolo scritto da Maria Errico, Data analyst, SDA Bocconi School of Management


[1] Il primo uso della locuzione “Lost decade” per descrivere il crollo dell’economia giapponese risale al 1998; essa compariva nell’articolo di Bill Powell, The Lost DecadeNewsweek.

[2] I valori sulla distribuzione della ricchezza provengono da: Cannari, L., D’Alessio G. (2018), La disuguaglianza della ricchezza in Italia: ricostruzione dei dati 1968-75 e confronto con quelli recenti, Banca d’Italia – Questioni di Economia e Finanza (Occasional Papers)

[3] Acciari, P., Morelli, S. (2020), Wealth transfers and net wealth at death: evidence from the Italian inheritance tax records 1995-2016, NBER Publications

[4] RACCOMANDAZIONE DEL CONSIGLIO DELL’UNIONE EUROPEA sul programma nazionale di riforma 2019 dell’Italia e formulazione di un parere del Consiglio sul programma di stabilità 2019 dell’Italia: https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52019DC0512&from=EN

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Perché l’Italia è un paese “Too Rich to Fail”?

Se le cose dovessero mettersi male, l'elevata ricchezza privata delle famiglie può fungere da salvagente per lo stato italiano. E il conto da pagare non sarebbe poi così elevato...

di Piero Cingari - 13 Maggio 2019 - 8'

L’Italia è un paese a due facce: da un lato mostra una ricchezza privata unica al mondo, dall’altro un debito pubblico tra i più elevati in rapporto al Pil.

Ma è proprio la composizione della ricchezza privata e del debito pubblico italiano a rendere questo paese “Too rich to fail”. E adesso lo scopriremo…

Quanto vale la ricchezza delle famiglie italiane?

Stando alle ultime rilevazioni dell’Istat e della Banca d’Italia, le famiglie italiane dispongono di una ricchezza netta pari a 9700 miliardi di euro, circa 8,4 volte il reddito disponibile.

Come si vede dal grafico in basso, tratto dall’indagine della Banca d’Italia “La ricchezza delle famiglie italiane“, nessun altro paese avanzato mostra un rapporto tra ricchezza e reddito più alto di quello dell’Italia.

 

Fonte: Banca d’Italia

Com’è composta la ricchezza delle famiglie italiane?

La ricchezza netta delle famiglie italiane comprende attività reali per 6300 mld di euro e attività finanziarie (4300 mld) al netto delle passività (900 mld). Negli ultimi 10 anni, la ricchezza totale è cresciuta di circa 400 miliardi, di cui 300 miliardi sono finiti sui conti correnti.

Tra le attività reali, il caro e vecchio mattone la fa da padrone.

Le abitazioni residenziali delle famiglie italiane valgono 5,25 trilioni di euro. In termini pro-capite ogni italiano adulto mostra un patrimonio immobiliare in case pari a 110.000 euro, uno dei valori più elevati al mondo.

Tra le attività finanziarie, invece, sono i depositi bancari a mostrare la fetta più grande della torta.

La liquidità parcheggiata dalle famiglie italiane sui conti correnti e conti deposito ha raggiunto la cifra di 1,4 trilioni di euro, circa un terzo della ricchezza finanziaria totale.

Le famiglie italiane hanno poi passività finanziarie pari a circa il 41% del Pil,  la percentuale più bassa in assoluto tra i paesi avanzati. Anche le nostre imprese non finanziarie sono poco indebitate, il 69% rispetto Pil, contro una media dell’area euro pari al 106%.

Il settore privato del Belpaese gode dunque di un’ottima salute dal punto di vista finanziario.

Quanto vale il debito pubblico italiano e chi lo detiene?

La vulnerabilità più grande dell’Italia è nota a tutti e ha che fare con il settore pubblico.

Il debito pubblico dello stato italiano vale oltre 2.300 miliardi di euro e negli ultimi 20 anni, complice la stagnazione economica, è esploso in rapporto al Pil ed è oggi pari al 133%.

Il mercato dei titoli di stato italiani vale all’incirca 2.000 miliardi di euro, e una delle domande più frequenti è: “chi detiene i nostri titoli di stato?

I titoli di stato italiani sono detenuti principalmente da investitori domestici (circa il 20% da Banca d’Italia, il 20% da banche, il 15% da altre istituzioni finanziarie e l’8% dalle famiglie).

Gli investitori stranieri detengono invece il 31% del nostro debito. Questo è un dato molto importante, perché i “non-residenti” sono di solito i primi a darsela a gambe quando scoppia una crisi del debito sovrano.

La quota del 31% però comprende anche l’Eurosistema (ca.3%) e lo stock detenuto da filiali estere di fondi italiani (circa il 7%) e, quindi, si tratta di una sopravvalutazione del debito detenuto da investitori non italiani.

Ciò significa che la quota di debito italiano concretamente detenuta da investitori stranieri (nel senso stretto del termine) è di circa il 22%. A livello mondiale, solo Giappone e Canada, mostrano una percentuale più bassa di debito nazionale posseduta da investitori esteri.

 

Fonte: Banca d’Italia

La tabella sulla sostenibilità finanziaria dimostra che l’Italia è uno dei paesi con la quota più bassa di debito in mano ai non-residenti e con un indebitamento privato trai i più bassi del mondo (Fonte: Banca d’Italia)

Allora, perché l’Italia è troppo ricca per fallire?

Abbiamo tutti gli ingredienti a disposizione per affermare che l’Italia è troppo ricca per fallire.

  • Elevata ricchezza privata ed elevata liquidità disponibile sui conti correnti
  • Livello di indebitamento privato tra i più bassi al mondo
  • Percentuale di titoli di stato in mano agli investitori non residenti molto contenuta

 

Immaginando ora una nuova crisi per i nostri Btp, con esplosione dello spread come nel 2011 o anche peggio, le famiglie italiane avrebbero le risorse sufficienti per correre in soccorso del proprio Paese.

Tra l’altro, i risparmiatori italiani si sono già mostrati particolarmente disposti ad investire nei titoli di stato tricolore quando le cose si sono messe male.

Come si vede da questo grafico, tratto da una ricerca di Unicredit, i flussi di investimento in titoli di stato italiani da parte delle famiglie seguono il tasso di interesse.

Più alto è il rendimento dei titoli di stato, quindi più alto è lo spread, maggiore è la voglia di investire da parte dei risparmiatori italiani.

Nonostante l’esplosione dei rendimenti sui nostri Btp a 5 anni (linea rossa) durante la crisi del 2011-2012, i flussi di acquisto da parte delle famiglie non sono scesi.

Fonte: Unicredit

Conclusioni

Nella seconda parte del 2019 scadranno circa 190 miliardi di debito pubblico italiano.

Ipotizzando che gli investitori stranieri detengano il 30% di questo debito in scadenza e decidano di non rinnovarlo per intero, si tratterebbe di circa 57 miliardi di euro che mancherebbero all’appello per lo Stato italiano.

Con i rendimenti in crescita e lo spread in aumento, questa quota potrebbe facilmente essere compensata dall’investimento dei risparmiatori italiani. D’altronde si tratterebbe soltanto dello 0,58% della loro ricchezza totale.

Anche nell’ipotesi più estrema in cui l’intera quota straniera di debito italiano (circa 600 miliardi) dovesse essere venduta sul mercato e acquistata dai risparmiatori italiani, il totale ammonterebbe al 6% della ricchezza totale delle famiglie.

Pertanto, la composizione della ricchezza privata e del debito italiano rendono questo paese “a prova di cataclisma finanziario”.

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