Ritorno al feudalesimo: il misero inganno dell’Autonomia differenziata
Left ha correttamente e
tempestivamente individuato già nel 2018 il pericolo gravissimo della
controriforma costituzionale delle “autonomie differenziate”, quella che
con acume scientifico e capacità comunicativa l’economista Gianfranco
Viesti chiama «secessione dei ricchi» (vedi l’intervista di Pietro Greco
del 21 settembre 2018). Gustavo Zagrebelsky ha scritto: «Opporsi ad
essa è la battaglia della vita per il Paese». Si sta giungendo, in
questi giorni, ad una stretta decisiva. La proposta del governo
disintegra l’unità nazionale, sostituita da una confusa giustapposizione
di staterelli con poteri feudali, sul piano legislativo e
amministrativo, abbattendo, insieme, diritti costituzionali e tutti i
principali diritti universali contenuti nella prima parte della
Costituzione a fondamento dello Stato di diritto e dello Stato sociale.
Il governo, i presidenti di Regione che
spingono per l’autonomia differenziata raccontano frottole: la proposta è
il contrario di ogni forma di federalismo solidale, di democrazia
partecipativa, di prossimità. Arriveremo ad un’Italia di potestà
frantumate, rette da “cacicchi”, da potentati localistici. Avremo un
Paese con quattro Regioni a statuto speciale, due province autonome
(Trento e Bolzano) tre Regioni (che potrebbero diventare sette) con
ambiti anche tra loro differenti di autonomia rafforzata e le altre a
statuto ordinario; e con lo Stato centrale che gestirebbe residui di
competenze, fondi residuali, funzioni diventate marginali. Matteo
Salvini ha parlato chiaro: «L’autonomia funziona se c’è quella
finanziaria. Non accetteremo nessun compromesso. Chi riesce a garantire
servizi efficienti riuscendo a risparmiare dovrà gestire come meglio
crede queste risorse». Il M5s, per salvarsi l’anima, oltre che il
proprio elettorato meridionale, chiede l’istituzione di un fondo
perequativo e la determinazione di “livelli essenziali di prestazione”
(Lep), prima di distribuire risorse. Ma si tratta di polpette avvelenate
per far passare il complessivo impianto secessionista. Anche
l’apparente passo avanti (è saltata l’assunzione diretta dei docenti e
sono stati accantonati segmenti della regionalizzazione della scuola)
potrebbe essere funzionale al ribadimento dell’impianto complessivo.
Siamo di fronte a miserevoli pratiche
mercantili, a mediocri tattiche politiciste di fronte al progetto di
abbattimento definitivo della nostra Costituzione. Resta, infatti, in
piedi il meccanismo della “spesa storica” (che sta accettando anche la
Campania) che è la trappola che distrugge i servizi nel Mezzogiorno.
Perfino la Corte dei conti conferma che senza la perequazione non è
possibile l’autonomia differenziata. È necessario che l’opera meritoria
(di fronte al tentativo del governo di far passare il progetto in
maniera clandestina) di disvelamento del drammatico pericolo
secessionista che la nostra Repubblica corre si proietti verso una reale
e permanente campagna di massa, imperniata su comitati territoriali che
si stanno in questi giorni moltiplicando. Il governo tenta di
nascondere i problemi, ipocritamente parla di efficienza. Noi dobbiamo
rovesciare questa grammatica truffaldina, creare senso comune
alternativo. Ritengo che il presidente Mattarella, massimo garante della
sovranità popolare costituzionale, oltre che svolgere la sua funzione
equilibratrice sottotraccia, potrebbe intervenire lanciando un messaggio
al Paese. Contro il disegno leghista di populismo secessionista, ma
anche contro i gravi errori del centrosinistra.
Pesa ora come un macigno la pessima
riforma del titolo V della Costituzione. Pesano le inaudite
responsabilità del governo Gentiloni, che ha materialmente siglato le
preintese con le presidenze del Veneto e della Lombardia. Pesa la scelta
inverosimile della presidenza dell’Emilia Romagna, a conduzione
piddina, che, per quasi tutte la materie, si allinea al lombardoveneto.
Oggi, non a caso, il Pd è muto, paralizzato, diviso al proprio interno.
Sta disertando rispetto ad uno scontro decisivo per la nazione,
farfugliando di mediazioni fasulle, di «autonomia differenziata
moderata» che è una chiacchiera pari al doloroso ossimoro della «guerra
umanitaria». I sindacati hanno espresso importanti critiche rispetto
all’architettura istituzionale secessionista, partendo dalla negazione
dei diritti sociali che ne conseguirebbe, dal pervasivo processo di
privatizzazioni. Ma forse ora, nei tempi decisivi, possiamo attenderci
che assumano la guida del nostro fronte, con una reale azione di massa
che sia dissuasiva per il governo, che deve essere costretto a pagare un
alto prezzo nei rapporti sociali. Chiediamo al M5s di comprendere che
il suo elettorato meridionale mai accetterà soluzioni furbesche e
rabberciate. Non vi è, infatti, nessuna possibilità (come hanno
ripetutamente spiegato nei dettagli tutte le agenzie
economico/istituzionali indipendenti), che l’autonomia differenziata
possa essere fatta senza costi.
«Non toglieremo un euro al Sud» proclama
Salvini. Ha dimostrato, invece, Giannola, economista meridionalista,
presidente dello Svimez, che «o lo Stato aumenterà i debiti, o diminuirà
i servizi». Perché non si tratta solo del trasferimento alle Regioni di
qualche funzione amministrativa. Stiamo parlando, nelle 23 materie
fondative dello Stato di diritto, del trasferimento della quota massima
di potestà legislativa di principio. Con un effetto automatico: per
numero ed ampiezza delle materie coinvolte lo Stato si priva della
capacità di formulare obiettivi di politica economica e sociale. Si può
ipotizzare uno scenario futuro di una macroregione comprendente gran
parte del Nord Italia insieme a regioni limitrofe di Stati esteri
(Baviera, Carinzia, Slovenia, parti della Mitteleuropa), con la completa
marginalizzazione del Centro Italia e di Roma, che sarebbe solo
capitale diplomatica, e un Sud (20 milioni di persone) non più Europa ma
macroregione Mediterranea. È questa l’anatomia geopolitica che
giustifica la locuzione «secessione dei ricchi». Vi è, quindi, un tema
strutturale che attiene ai processi di accumulazione e di valorizzazione
del capitale dentro la crisi.
Le regioni economicamente forti, con
servizi più efficienti, non vogliono avere palle al piede, non vogliono
redistribuire risorse. L’efficienza massima, quindi, dei propri servizi
va a scapito dei servizi delle altre regioni. Solo alcune delucidazioni:
cosa accadrà del Servizio sanitario nazionale, già indebolito dalle
controriforme del centrodestra e centrosinistra? E del sistema di
formazione e della scuola nazionale laica repubblicana? La scuola e la
cultura nazionali unitarie sono fondamento della nazione. Non vedremmo
più, se passasse il progetto di autonomia differenziata, asili nido,
refezione scolastica, cure mediche comparabili tra Nord e Sud. E non
parliamo di infrastrutture, sistema stradale e ferroviario. Come ha
fatto correttamente notare il professor Massimo Villone «da un altro
punto di vista, la regionalizzazione di larga parte del pubblico impiego
e di materie come la tutela e sicurezza del lavoro, la retribuzione
aggiuntiva, la previdenza integrativa, gli incentivi alle imprese, darà
un colpo mortale al sindacato nazionale, al contratto nazionale di
lavoro. Le gabbie salariali saranno istituzionalizzate. E non parliamo
dell’ambiente e del ciclo dei rifiuti. Avremo, in tutti i campi, un
itinerario di privatizzazioni fissato dalle singole regioni, abbattendo
più facilmente normative e controlli. È quello che i padroni hanno
sempre auspicato.
Ripartiamo, allora, dalla Costituzione.
Spieghiamo, in una reale campagna di massa, che, mascherandosi dietro
gli articoli 116 e 117 della Costituzione, il governo propone una
“attuazione incostituzionale della Costituzione”. Non possono essere,
infatti, violati i diritti fondamentali di eguaglianza sostanziale.
Avremmo una grave torsione del concetto stesso di cittadinanza, che
sarebbe determinata dalla residenza; cambia, cioè, a seconda della
regione in cui risiedi, la quantità e qualità dei servizi, dei diritti,
delle prestazioni. La posta in gioco è alta. È la Costituzione stessa.
Non potremmo riconoscerci nell’Italia delle piccole potestà feudali che
disegnerebbe l’autonomia differenziata, se non la blocchiamo. Perché la
nostra è l’Italia della Resistenza, della democrazia progressiva.