“Entro il 2020 diventerà di
prassi indossare in pubblico mascherine chirurgiche e guanti di gomma, a
causa di un’epidemia di una grave malattia simile alla polmonite, che
attaccherà sia i polmoni sia i canali bronchiali e che sarà refrattaria a
ogni tipo di cura. Tale patologia sarà particolarmente sconcertante
perché, dopo aver provocato un inverno di panico assoluto, sembrerà
scomparire completamente per altri dieci anni, rendendo ancora più
difficile scoprire la sua causa e la sua cura”. Per quanto possa sembrare una raccolta di testimonianze di questi giorni in cui imperversa l’emergenza del coronavirus in Italia e nel mondo, in realtà queste parole sono state scritte in un libro 16 anni fa. “Profezie. Che cosa ci riserva il futuro” è un testo di Sylvia Browne eLindsay Harrison pubblicato nel 2004.
Related videos
La
sensitiva Sylvia Browne è famosa in quanto rilegge le predizioni,
spesso contraddittorie o poco chiare, che nel corso della storia sono
state fatte dai veggenti più celebri. La Browne si occupa di spiegare
come fanno i profeti a conoscere
il futuro e come smascherare i ciarlatani, ma soprattutto risponde a
tanti interrogativi sul destino dell’umanità toccando argomenti
fondamentali, dallo sviluppo tecnologico alle sorti dell’ambiente, dalla
cura per molte malattie alla pace nel mondo, fino all’evoluzione
sociale, economica e politica. Tra questi spicca sicuramente il nome di Nostradamus, ma fa riferimento anche ai profeti biblici, George Washington fino agli scienziati della Nasa.
IL LIBRO – In questo libro, l’autrice affronta i
temi più caldi rispondendo a tanti dubbi e domande che spopolano tra le
persone. Gli umani si sono preoccupati a lungo per la fine della
civiltà, ma ora più che mai tra la gente aleggia il sentimento
dell’ansia e del timore di quello che succederà. Come se non poter
prevedere il futuro porti ad una sorta di isteria e psicosi collettiva.
Le guerre di religione, il terrorismo globale, le pandemie e il
genocidio hanno contribuito a inaugurare così l’era dell’ansia. Tra le
tante cose riportate nel libro, in un momento storico come quello che
stiamo vivendo per l’epidemia del covid-19 spicca la predizione del Coronavirus.
La meraviglia di certi paradossi. È stata la polizia e il ministero delle polizie a evitare che l’Italia
diventasse uno stato di polizia dove uomini in divisa possono entrare a
qualunque ora nelle abitazioni private per verificare il numero di
quanti siedono intorno ad un tavolo o davanti a una tv per vedere una
partita della Champions. La bella notizia è che quando
la polizia difende i diritti, significa che la democrazia è matura e
salda. La brutta notizia è che due ministri, forse tre, siano arrivati a
sostenere la misura dei controlli a domicilio anteponendo il diritto
alla salute (articolo 32 della Costituzione) a tutti gli altri diritti fondamentali previsti dalla Carta.
L’entrata in vigore dell’ultimo Dpcm, quello della stretta per scongiurare un nuovo lockdown, continua a regalare retroscena inaspettati. Del nuovo Dpcm
si parlava ormai da metà della scorsa settimana e siti e giornali ogni
giorno potevano arricchire le loro cronache. Il dato che il 75% dei
nuovi contagi origina in contesti familiari è uno di quelli che più ha
fatto riflettere esperti e politici. Poi succede che domenica sera il
ministro della Sanità Roberto Speranza va ospite da Fabio Fazio
e dice che «i party privati dovranno sottostare a controlli», nel caso
anche usando lo strumento della delazione tra vicini di casa. Il giorno
dopo il panico si mescola all’incredulità. «Macché dai non l’ha mica
detto…». Conte è in missione a Taranto. Nel pomeriggio
tardi si devono riunire a palazzo Chigi i capi delegazione e poi il
governo e le regioni, per definire i passaggi del Dpcm. Atteso per
quella sera. Come poi sarà.
Related videos
Arrivano dunque a palazzo Chigi, lunedì dopo le 18. Conte è di ritorno dalla Puglia. Ha fretta di tornare perché gli giunge notizia che i ministri Speranza e Franceschini
vogliono fare sul serio. Vogliono veramente inserire nel Dpcm, che è un
atto amministrativo e non una legge primaria, una forma di controllo
dei party privati, in casa e non solo. Il premier vacilla, sa di andare
incontro ad un casus belli. Ed ecco che coinvolge il ministro
dell’Interno Luciana Lamorgese per avere un parere che
chiarisca perché questa forma di controllo non è possibile. Di più:
anticostituzionale. Da notare che fino a quel momento Lamorgese,
ministro dell’Interno tecnico di un governo politico, non è mai stata
coinvolta in nessuna delle riunioni preparatorie del Dpcm fin lì
convocate. Il prefetto Lamorgese, già seccata e non da quel giorno per
questa “dimenticanza”, coinvolge a sua volta per un parere tecnico il
capo della polizia, il prefetto Franco Gabrielli. Che produce nel giro di un’oretta un appunto che spazza via ogni dubbio per “questioni di ordine giuridico”
e altre di natura pratica. Quest’ultime così sintetizzabili: le forze
dell’ordine, tutte, hanno già abbastanza da fare nel contrasto dei
reati, la gestione dei flussi migratori e ora anche delle norme di
contenimento anti-Covid, che non possono essere coinvolte in controlli che «potrebbero nascere da meccanismi delatori, rivalità e dissidi di vicinato».
L’appunto, circa una pagina e mezzo, ha un titolo – “Ipotesi
riguardanti gli assembramenti destinati a svolgersi nei luoghi di
privato domicilio” – la prova di come quell’ipotesi fosse fino a quel
momento sul tavolo. «Si fa riferimento – si legge nell’appunto –
all’ipotesi emersa in queste ore di inserire nel Dpcm previsioni volte a
consentire al personale delle forze di polizia di accedere ai luoghi
privati e di privato domicilio al fine di verificare l’eventuale
esistenza di raduni o assembramenti di persone oltre il limite
consentito. Al riguardo si fa presente che la soluzione prospettata non
sembra agevolmente praticabile alla luce dell’articolo 14 della Costituzione che riconosce l’inviolabilità del privato domicilio». Tra citazioni di sentenze della Corte Costituzionale e rinvii a fonti di legge primaria, il Capo della polizia
dimostra come sia impossibile impedire i party privati. Le eccezioni
all’articolo 14 della Carta sono possibili «solo nei casi e nei modi
stabiliti dalla legge e nel rispetto delle garanzie». La restrizione del
diritto, ovvero le perquisizioni di privati sono possibili solo se
trovano fondamento in fonti primarie (leggi e non Dpcm)
e autorizzate dalla magistratura. Anche in caso di «tutela della salute
dell’incolumità pubblica» vale la riserva assoluta di legge e di
giurisdizione. Di certo, per andare a vedere che succede presso privati,
non possono essere usate le norme esistenti, quelle che autorizzano le
perquisizioni per la ricerca di armi, esplosivi e latitanti.
A ben vedere, spiega bene l’appunto del Direttore generale della
pubblica sicurezza, ci sarebbe un modo per autorizzare questi controlli:
«Il Parlamento dovrebbe dichiarare lo stato di guerra e
conferire al governo i poteri necessari per farvi fronte». È una
provocazione, ovvio. Roba da far tremare i polsi. Così come quando si
specifica che «l’attuale ordito costituzionale non conosce clausole
derogatorie per ragioni di ordine e sicurezza pubblica come quelle
invece a suo tempo previste dall’articolo 48 della Costituzione di Weimar». Si tratta della Costituzione del Reich tedesco che guidò la Germania
dall’11 agosto 1919 fino alla presa del potere da parte di Hitler.
L’Articolo 48 consentiva al Presidente di «prendere le misure necessarie
al ristabilimento dell’ordine e della sicurezza pubblica», senza
specificare i limiti di questo potere e senza definire cosa costituisse
effettivamente “necessità”. Arrivò Hitler, appunto. Questo appunto tecnico ha sepolto per sempre ogni ipotesi politica di “verifica sui party privati”. E suggerisce, per ora e per dopo, di dare un’occhiata alla Costituzione prima di fare certe ipotesi.
Il passaggio di consegne a viale Romania fra i generali Giovanni Nistri e Teo Luzi
è fissato per il prossimo 16 gennaio. A differenza del passato, sarà un
evento molto sobrio. La pandemia non consente grandi cerimonie. Come
anticipato circa due mesi fa dal Riformista, la scelta del nuovo
comandante generale dell’Arma non ha riservato sorprese: il Consiglio
dei ministri della scorsa settimana ha votato in maniera compatta per
Luzi.
Il ministro della Difesa LorenzoGuerini
(Pd), a cui spetta l’onere di proporre la nomina al governo, aveva da
tempo deciso di puntare sul giovane generale romagnolo. Pochissime
chance avevano gli altri candidati, anche se più anziani di grado, come
il generale Gaetano Maruccia.
Il giorno prima della nomina, un articolo del Fatto Quotidiano
aveva poi affossato le residue speranze di quest’ultimo, ricordando che
era stato anni addietro uno dei più stretti collaboratori dell’allora
comandante generale Tullio DelSette,
finito impigliato, con l’accusa di rivelazione del segreto, nel gorgo
senza fine dell’indagine Consip. Uno dei procedimenti giudiziari più
seguiti dal quotidiano di MarcoTravaglio.
Nella partita delle nomine dei vertici degli apparati di sicurezza del
Paese si conferma, dunque, ancora una volta il ruolo di top player del
Partito democratico. In particolare nella scelta dei vertici dei
carabinieri. Il predecessore di Luzi, GiovanniNistri, era stato fortemente voluto da DarioFranceschini, e su Del Sette era stato determinante il gradimento di Matteo Renzi, all’epoca segretario dei dem.
Negli equilibri interni alla maggioranza giallorossa, il M5s ha
deciso invece di puntare sui vertici dei Servizi segreti. Per il
generale AngeloAgovino, inizialmente un altro candidato alla nomina a comandante dell’Arma, con l’appoggio del compaesano Luigi DiMaio,
è pronta la poltrona di capo dell’Aise, l’agenzia interna. Un incarico
di grande prestigio e molto ben remunerato. Teoricamente la nomina di
Luzi è in “continuità” con la gestione Nistri, essendo stato
egli il suo capo di stato maggiore. Una gestione caratterizzata da
scandali assortiti, vedasi la “narcocaserma” di Piacenza, i depistaggi sull’omicidio di Stefano Cucchi che, come affermato dal pm StefanoMusarò,
sarebbero continuati anche a dibattimento iniziato, la lunga serie di
carabinieri coinvolti in episodi di spaccio di stupefacenti o in reati
contro il patrimonio.
Non sarà, quindi, un compito facile per Luzi. L’Arma del 2021 è
segnata da un profondo malessere ed è precipitata in tutte le
classifiche sul gradimento e la fiducia da parte dei cittadini. Senza
contare il triste fenomeno dei suicidi fra i suoi appartenenti.
Fra le cause di questo malessere diffuso un ruolo importante lo ha
avuto la minore azione di controllo da parte degli ufficiali sul
personale. Molti ufficiali sono demotivati e senza stimoli. Attualmente
gli ufficiali si dividono in due categorie: chi è destinato a fare
carriera e chi no. A differenza dei cugini della polizia, nell’Arma vige
un sistema che ricorda molto da vicino quello induista con la
suddivisione in caste. Chi si classifica per primo all’accademia ha la
certezza, se non incappa in qualche pm, di diventare generale. Chi
arriva nelle retrovie, rimarrà sempre nelle retrovie. Anche se cattura TotòRiina, vedasi il capitanoUltimo, alias Sergio DeCaprio, che ha terminato la propria carriera da colonnello.
Con l’avvento di Luzi ci saranno, come sempre, riposizionamenti nello
staff del Comando generale. Il nuovo braccio destro di Luzi sarà quasi
certamente il generale Mario Cinque. Capo ufficio del comandante sarà il
colonnello Biagio Storniolo. Un incarico importante dovrebbe averlo,
come anticipato nei giorni scorsi da Emanuele Fittipaldi su Domani, la maggiore GerardinaCorona.
Quest’ultima si era già messa in evidenza da tenente quando Vittorio Tommasone comandava il provinciale di Roma. Per poi conquistarsi, divenuta comandante della compagnia di Varese,
la stima dell’allora capo dei carabinieri della Lombardia Luzi. Ed
infine i sindacati interni. Il rapporto con Luzi non è stato negli anni
agevole. Molto criticata era stata una sua circolare con cui si
mettevano ferrei paletti all’utilizzo dei social network da parte dei
carabinieri. Una circolare definita “bavaglio” che i sindacati sperano
venga quanto prima abrogata.
Saverio Cotticelli, prima di essere nominato a dicembre del 2018 commissario straordinario della Sanità in Calabria,
sarebbe stato per diverso tempo un “super” agente segreto. Dopo aver
visto sfumare la nomina a comandante generale dell’Arma, come riportato
questa settimana in esclusiva dal Riformista, Cotticelli avrebbe dunque intrapreso la carriera da 007, venendo destinato all’Ufficio centrale ispettivo del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Il Riformista
ha cercato ieri di avere conferma della notizia dal diretto
interessato. Cotticelli, però, dopo aver dichiarato durante la
trasmissione televisiva Non è l’arena condotta da Massimo Giletti
di dover indagare sul proprio “stato confusionale” emerso durante una
precedente intervista, è al momento irreperibile. L’incarico di
ispettore al Dis sarebbe scattato dal mese di giugno del 2015.
Il generale Tullio Del Sette, suo compagno di corso all’Accademia militare di Modena,
era diventato comandante generale dell’Arma sei mesi prima. Cotticelli,
sulla carta più titolato di Del Sette, era stato per mesi il comandante
“in pectore” della Benemerita, l’ufficiale destinato a sostituire Leonardo Gallitelli,
con cui aveva ottimi rapporti, a viale Romania. La scelta, invece,
cadde proprio su Del Sette, in quel momento capo di gabinetto della
ministra della Difesa Roberta Pinotti (Pd). Pare che a
Cotticelli, dopo l’inaspettata bocciatura, fosse stato offerto di
diventare il braccio destro di Del Sette. Un altro incarico di natura
politica, essendo la nomina del vice comandante dei carabinieri di
competenza del governo. Cotticelli, però, rifiutò.
Related videos
Anche
dal Dis sul punto bocche cucite. Inutile tentare di avere informazioni
in merito al ruolo e ai compiti svolti da Cotticelli presso il
Dipartimento. Ogni notizia sugli appartenenti ai Servizi e alle loro
varie articolazioni è coperta dal segreto di Stato. Una conferma
dell’incarico “extra Arma” di Cotticelli è venuta dall’appuntato scelto dei carabinieri Vincenzo Romeo. L’appuntato è stato uno dei collaboratori strettissimi di Cotticelli quando quest’ultimo era presidente del Cocer, il “sindacato” militare.
Romeo raccontò ai colleghi, che a giugno del 2015 gli chiedevano
notizie sul futuro professionale di Cotticelli, che il generale era
stato destinato ad un incarico di “governo”. Un
incarico che lo costringeva ad abbandonare prima del tempo l’attività
alla rappresentanza militare. I vertici del Servizi sono, come noto,
tutti “dipendenti” da Palazzo Chigi.
Il Dis è ora diretto dal generale della guardia di finanza Gennaro Vecchione. L’alto ufficiale delle Fiamme gialle è molto ascoltato dal premier Giuseppe Conte.
Il Dipartimento è il centro nevralgico dei Servizi segreti, il luogo
dove si elaborano i dati e si coordinano le azioni di intelligence. Il
Dis vigila sull’attività di Aise e Aisi
e sulla corretta applicazione delle disposizioni emanate dal presidente
del Consiglio dei ministri, nonché in materia di tutela amministrativa
del segreto. Il Dis cura, infine, anche le attività di promozione e
diffusione della cultura della sicurezza e la comunicazione
istituzionale e impartisce gli indirizzi per la gestione unitaria del
personale delle varie strutture.
Compiti di assoluta importanza per la sicurezza del Paese. Qualche
report riservato, comunque, deve essere sfuggito a Cotticelli. Ad
esempio quello sulla “masso-mafia”, l’entità criminale composta da massoni e ‘ndranghetisti che ha impedito al generale di redigere il piano Covid per la regione Calabria,
e di cui Cotticelli ha avuto contezza solo al momento del suo arrivo a
Catanzaro. Una svista fatale che è costata all’agente segreto Cotticelli
il posto di commissario straordinario.
Turbine di ricordi: il lockdown, i Dpcm, il Parlamento sostituito dalle dirette Facebook del premier, lo spettro dei “pieni poteri”. Ieri il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato la proroga dello stato d’emergenza per il Coronavirus,
oltre il termine finora previsto del 31 luglio e almeno fino alla fine
dell’anno. Con questo provvedimento il premier potrà firmare nuovi Dpcm,
decretare i lockdown, stabilire altre “zone rosse” e favorire Protezione Civile e la task force di Domenico Arcuri
nel mercato selvaggio di mascherine e strumenti sanitari. Una mossa per
fare trovare pronta l’Italia in caso di seconda ondata del Covid-19. E un grande rafforzamento del ruolo di Conte.
L’annuncio è stato dato quasi con nonchalance nella malinconica Venezia alla cerimonia per il primo test completo delle dighe mobili del Mose.
Ma neanche queste portentose e costose paratie hanno protetto il
premier dalla tempesta politica scatenata dal suo annuncio. Secondo
Conte «lo stato d’emergenza serve per tenere sotto controllo il virus».
Per l’opposizione invece è quasi uno strumento di Palazzo Chigi per
mettere sotto controllo gli italiani. Non usa mezze parole il leader
della Lega Matteo Salvini: «Gli Italiani meritano
fiducia e rispetto. Con tutte le attenzioni possibili, la libertà non si
cancella per decreto». Sulla stessa linea la presidente di Fratelli D’Italia Giorgia Meloni:
«Ad oggi non mi pare che ci siano i presupposti per prorogare fino alla
fine dell’anno lo stato d’emergenza, che ricordiamo è uno strumento del
quale il governo dispone per fare un po’ quello che vuole».
La
pasionaria sovranista non ci gira intorno: «Per troppo tempo è stato
consentito che Giuseppe Conte si muovesse indipendentemente dalle
prerogative parlamentari». È questo il timore urlato dall’opposizione e
sussurrato dalla maggioranza: il premier vuole i “pieni poteri”, quelli
che bramava Salvini al Papeete ma che nei fatti ha
avuto Conte durante la lunga fase critica dell’emergenza sanitaria. Un
periodo nel quale l’inquilino di Palazzo Chigi, consigliato dal comitato
scientifico, comunicava direttamente ai cittadini su Facebook,
esponendo i Dpcm che hanno stravolto la libertà di circolazione e il
lavoro in Italia. Durante lo stato d’emergenza il Parlamento è stato
sostanzialmente accantonato, bypassato dalle idee degli scienziati e dai
decreti del premier. È un’esperienza che i partiti non vogliono subire
di nuovo. Inclusi gli alleati di governo. Stefano Ceccanti, capogruppo del Pd in commissione Affari Istituzionali
tuona: «Se il Governo vuole prorogare lo stato di emergenza venga prima
in Parlamento a spiegarne le ragioni». Il costituzionalista di area
democratica Francesco Clementi si definisce “perplesso” e al Riformista
dice: «Questa proroga deve essere giustificata con l’esposizione di
ragioni valide e nel pieno coinvolgimento del Parlamento. Parliamo di
una misura eccezionale e non esiste alcun automatismo».
Un navigato parlamentare del Pd palesa al Riformista i
sospetti di molti: «Conte vuole compiere una forzatura politica.
Allungando l’emergenza e gli annessi poteri speciali, il premier intende
rafforzarsi e mettersi al riparo rispetto a eventuali scenari futuri.
Come l’esito delle elezioni regionali, il possibile passaggio di Berlusconi in maggioranza e future richieste di cambio al vertice». Anche Italia Viva ha vissuto con fastidio questo annuncio e non intende fare sconti al premier. Il deputato renziano Marco Di Maio dichiara al Riformista
che «Conte deve venire in aula a chiedere la proroga e a motivarla,
dando vita a un confronto sulle iniziative da adottare». La tormentata Forza Italia sulla questione alterna tiepide aperture a chiusure nette. Come quella del senatore azzurro Maurizio Gasparri che al Riformista
ha così recitato: «Il governo Conte/vuole diventare un governo ponte/
ma noi tutti insieme lo mandiamo a monte». Una sorta di haiku per dire
che stavolta nessuno intende dare la delega in bianco al premier. Il Coronavirus non basta più.
Wikipedia
spiega che “Cortina di Ferro” è una locuzione per indicare la linea di
confine che divise l’Europa in due distinte zona d’influenza politica
dal secondo dopoguerra a crollo del Muro di Berlino. Da una parte “noi”,
vale a dire il mondo occidentale e capitalista facente capo agli Stati
Uniti e alla Nato; dall’altra “gli altri”, ovvero il
mondo orientale e comunista guidato dall’Unione Sovietica e dal patto di
Varsavia. Fra i due blocchi non scoppiò mai una guerra vera e propria,
ma piuttosto ci fu un’aspra contrapposizione in diversi settori:
militare, scientifico, sportivo e culturale, giusto per fare qualche
esempio. Come molti di voi avranno già capito, stiamo parlando della Guerra Fredda, della quale la Cortina di Ferro,
assieme al Muro di Berlino, è uno dei simboli più potenti. Quest’ultimo
tagliava in due Berlino, la Cortina invece l’intera Europa. Era una
lunga barriera di spesse reti metalliche, cavalli di Frisia, filo
spinato e torrette d’avvistamento che aveva la funzione di evitare la
fuga di migliaia di persone dal regime sovietico. Correva lungo il
confine della Finlandia, andava dal mar Baltico all’Adriatico e separava
la Bulgaria dalla Grecia. Già, ma allora cosa c’entra la Lombardia?
C’entra, perché in realtà le Cortine erano due. La prima è quella di
cui abbiamo appena detto; l’altra, invece, meno nota, fatta di onde
elettromagnetiche, attraversava la Lombardia a Est di Brescia.
Non ci credete? Allora abbiate la pazienza di seguirci in questo nuovo
racconto e capirete che non ci sbagliamo e che a pochi passi da casa
esiste la possibilità di fare una gita fuori porta dalle inaspettate
suggestioni storiche.
Iniziamo con l’individuare geograficamente il luogo. Siamo nel cuore delle Alpi bresciane, ai piedi del gruppo dell’Adamello, dove si trova un monte che si chiama Dosso dei Galli. Si trova a metà strada fra i Comuni di Collio e Bagolino. Ci si può arrivare in macchina seguendo la strada provinciale delle Tre Valli,
nome dovuto alla sua posizione di collegamento delle tre vallate
bresciane (Camonica, Trompia e Sabbia), ma è possibile raggiungerlo
anche a piedi o in bici, seguendo uno degli antichi sentieri militari
della zona trasformati in percorsi trekking. Fino al 1969 il monte
contava 2.275 metri di altezza. In quell’anno, tuttavia, successe
qualcosa che ne mozzò letteralmente il cocuzzolo abbassandolo di 80
metri. La Nato infatti decise di potenziare il sistema
di comunicazioni Ace High, già in funzione dalla metà degli anni
Cinquanta, costruendo una nuova stazione Troposcatter in una zona
strategica del Sud Europa. Le Alpi bresciane, appunto, e
non fu un caso che il progetto venne fatto partire proprio in
quell’anno. Il 1969 inizia col concerto dei Beatles sul tetto della
Apple, prosegue con il secondo scudetto alla Fiorentina e lo sbarco
sulla Luna, ma termina con l’Autunno Caldo, la strage di piazza Fontana e
una crescente tensione fra Usa e Urss. La Guerra Fredda in una delle
sue fasi più critiche. La Cortina di Ferro non bastava più ad assicurare
la sicurezza al mondo occidentale. Per prevenire un’eventuale invasione
comunista (a quel tempo considerato come un rischio più che concreto)
serviva un sistema di trasmissione delle informazioni veloce e sicuro.
Ecco allora che il 15 aprile una squadra di operai specializzati iniziò a far saltare a colpi di dinamite la vetta del Dosso dei Galli.
I lavori vennero ultimati a tempo di record. La stazione era formata da
un unico edificio a due piani fatto di calcestruzzo rinforzato accanto
al quale vennero installate due grandi parabole altre 30 metri. Anzi,
visto che è ancora lì, sarebbe più corretto dire che la stazione “è”
formata da un unico edificio e da due grandi antenne, che viste da
lontano sembrano le orecchie di Topolino. È stata chiusa nel 1995.
Abbandonata a se stessa. Saccheggiata di tutto. Depredata da ladri,
vandali e cacciatori di ricordi, che però non sono riusciti a rubarne il
fascino. Quello è immutato. Sarà per il paesaggio mozzafiato che la
circonda, ma arrivati lassù in cima si ha la netta sensazione che il
tempo si sia fermato agli anni in cui Nixon e Breznev facevano il bello e
il cattivo tempo. L’ex base Nato faceva parte di una
dorsale che attraversava l’Europa dalla Norvegia alla Turchia: 49
stazioni in totale, distanti l’una dall’altra circa 300 chilometri,
collegate alla rete degli Stati Uniti attraverso la Groenlandia, che
comunicavano fra loro sfruttando la troposfera, da qui il nome
Troposcatter. Va bene, fermiamoci un attimo.
Siccome immaginavamo fin dall’inizio
che le cose si sarebbero complicate cammin facendo, abbiamo deciso per
questa puntata di farci dare una mano da un esperto. Anzi, da uno che in
quella stazione ci ha lavorato dal 1971 al 1995. Il suo nome è Sergio Feudo,
adesso abita in Provincia di Brescia con la moglie e si gode la
pensione. Ma per oltre 20 anni è come se fosse stato perennemente sul
fronte. “Sono nato in una località di mare del Lazio – spiega – e
quando, dopo avere seguito il corso Genio Trasmissioni a Latina, sono
arrivato lassù, sono stato male. Mi mancava l’aria e il disagio fisico
che provavo era intenso”. Il processo di ambientamento è stato
fortunatamente veloce e senza ulteriori traumi. Lassù il lavoro non
mancava. “Eravamo in 25, – prosegue – dieci tecnici, un comandante,
cinque militari di leva con compiti di supporto e due manutentori, poi
c’erano anche sette carabinieri, ai quali spettavano invece compiti di
polizia militare”. Come abbiamo accennato, la tecnologia utilizzata per
trasmettere le informazioni era la Troposcatter. In altre parole, il
segnale veniva lanciato nella troposfera, sparpagliato per renderlo
illeggibile e poi raccolto dalle parabole della stazione verso la quale
era stato trasmesso. “Al tempo era il metodo più sicuro. – prosegue
Sergio – Più sicuro anche dei satelliti. Tutti le informazioni erano
criptate e noi avevamo dei manuali per il protocollo delle trasmissioni
che dovevano essere bruciati dopo essere state utilizzati”. Avete
presente la dicitura Burn after reading riportata su tutti i documenti top secret? Ecco, è la stessa cosa, sembra di essere in un film di spie e intrighi. Nella stazione Nato Dossi dei Galli
però non c’erano agenti segreti, ma esperti di trasmissione radio. La
sala più importante si chiamava OH, vale a dire Over Horizon, collegata
direttamente alle parabole e dentro c’erano le apparecchiature, i radar,
i monitor, gli indicatori di frequenza e migliaia di cavi elettrici. La
linea comprendeva anche cinque canali telefonici criptati ed usati
esclusivamente dai vertici militari e dal presidente americano, chiamati
Hot Line (non c’è bisogno di traduzione). Il suo nome in codice era
IDGZ ed era collegata a Nord con la stazione di Feldberg in Germania
(nome in codice AFEZ e a Sud con quella del monte Giogo (IMXZ),
nell’Appennino tosco emiliano. Insomma, se dovessimo tracciare su di una
cartina la linea di questa Cortina di onde elettromagnetiche,
correrebbe fra Brescia e Desenzano, poi attraverserebbe Ghedi e Cannetto sull’Oglio
e andrebbe a finire la sua corsa nel bel mezzo delle montagne sopra
Parma. La sicurezza del mondo occidentale e del nostro sistema di vita
dipendeva dall’efficienza di questi collegamenti e dalla velocità con
cui venivano trasmesse le informazioni. “Gli apparati radio dovevano
essere sempre in perfetta efficienza. – prosegue Sergio – I problemi più
grossi erano causati dai temporali e dalle abbondanti nevicate
invernali. Se durante le belle giornate di sole da lassù si può godere
di un panorama mozzafiato, col lago d’Iseo da una parte e il Garda
dall’altra, nei giorni di maltempo le cose potevano farsi parecchio
complicate”. D’inverno, causa neve, la stazione poteva rimanere isolata
per settimane, raggiungibile solo coi gatti delle nevi o con
l’elicottero, e talvolta l’intensità dei temporali era tale da far
saltare i collegamenti. A quel punto scattava l’emergenza per rimettere
in funzione tutto il primo possibile. “Il lavoro era suddiviso in turni.
– conclude Sergio – Da regolamento, dovevamo lavorare 24 ore con tre
giorni di riposo, ma noi ne facevamo 48 con sei giorni liberi”.
Oggi la stazione
è un guscio vuoto. Dopo che nel 1995 è stata dismessa, è stato rubato
tutto: apparecchiature radio, consolle, attrezzature, tavoli, letti e
persino i sanitari. La proprietà dell’area è privata. Ogni tanto si
danno appuntamento gruppi di radio amatori o appassionati di paintball,
ma molto più di spesso è meta di appassionati di escursioni e trekking.
Ogni tanto vengono proposti progetti per la sua trasformazione. Online
si legge che potrebbe essere adibita a museo, ma forse va bene anche
così. In un certo modo ci ricorda il check point Charlie di Berlino. La
famosa e visitatissima frontiera fra Ovest e Est, con la differenza che l’ex base Nato di Dosso dei Galli non serviva per far passare persone, ma parole.
Dosso
dei Galli….che ricordi…vissuti con entusiasmo e disagio,il mio periodo è
stato dal 1990 al 1991 in qualità di primo aviere addetto al primo
soccorso distaccato dal Comando Afsouth Dispensary International
Bagnoli, il mio compito era quello di occuparmi della salute dei
militari. Posso dire a voce alta che si tratta del periodo più bello
della mia vita …..ho imparato a crescere e confrontarmi ….. soprattutto
durante il Natale e Capodanno del 1990/91 periodo che restando isolati
causa forte nevicata e il gatto delle nevi non funzionante….un fine anno
segnato dalla caduta del muro di Berlino con un nuovo inizio anno 1991
favoloso. Ciao San Colombano,Bagolino ….BRESCIA
SOLBIATE OLONA – Anche la Nato in campo per affrontare l’emergenza coronavirus.
I militari della base di Solbiate Olona, infatti, in queste settimane
di grande crisi hanno dato un importante supporto a fianco di protezione
civile e autorità militari per fronteggiare l’epidemia.
Sin dall’inizio dell’emergenza Covid-19, unità logistiche alle
dipendenze di Comando di Reazione Rapida della Nato in Italia (NRDC-ITA)
hanno fornito un costante supporto alla protezione civile e alle
autorità locali per fronteggiare l’epidemia. Importante il contributo
nei trasporti di materiale sanitario dall’aeroporto di Malpensa verso diversi siti nel nord Italia per soddisfare i bisogni delle strutture ospedaliere e il trasferimento di salme dalla città di Bergamo ad altre località sul territorio nazionale.
Compito quest’ultimo emotivamente molto impegnativo. uU impegno che
rientra nel più ampio quadro di attività messe in campo sin da subito
dalle Forze Armate italiane per contrastare l’espansione del virus.
«Inoltre – si legge nella nota stampa – il personale multinazionale
del quartier generale di NRDC-ITA, oltre a mantenere un costante
monitoraggio dell’evoluzione del contagio, continua le attività per il
mantenimento della propria prontezza operativa attraverso una serie di
video-conferenze. Lo studio e l’approfondimento degli aspetti che
condizionano l’evoluzione dello scenario globale sono, infatti, attività
fondamentali per i militari del Comando di NRDC-ITA affinché possano
sempre farsi trovare pronti a garantire il proprio supporto all’Alleanza
per il contrasto alle crisi e la promozione della stabilità
internazionale».
nato solbiate militari emergenza coronavirus – MALPENSA24
La missione russa nel Nord Italia ha avuto
senz'altro finalità di intelligence, ma non nei confronti dell'Italia. E
se la smoking gun contro Pechino si trovasse in una casa di riposo a
Bergamo? L'analisi di Igor Pellicciari, professore di Storia delle
Relazioni internazionali all'Università di Urbino e alla Luiss Guido
Carli
Abbiamo in un precedente articolo su Formiche.net per primi
tracciato i motivi degli aiuti russi in Italia, indicandone tre
predominanti, ovvero geopolitico, politico-interno e uno
strategico-sanitario.
Una serie di articoli de La Stampa ha mosso il sospetto
(adombrato anche da alti vertici Nato) che l’intervento russo sia stato
finalizzato a non specificate operazioni di intelligence militare in un
Paese dell’alleanza atlantica, con gli aiuti, accusati peraltro di
essere in larga parte inutili, a servire da mera copertura e scusa per
l’ingresso nel Paese. La Russia si è opposta duramente a questi
sospetti.
Senza volere dirimere qui questa accesa polemica, tuttavia rilanciare
e elaborare meglio oggi la chiave di lettura strategico-sanitaria da
noi proposta a suo tempo può servire a trovare una possibile sintesi tra
queste due posizioni opposte e forse farci giungere a nuove importanti
deduzioni.
Per prima cosa da chiedersi è perché Mosca abbia inviato un
contingente militare e non civile. Da sempre ossessionata dalla difesa
da attacchi esterni di un territorio talmente grande da non potere
essere presidiato, la Russia ha dagli anni della Guerra Fredda curato
una sua risposta a scenari da attacco chimico-batteriologico.
La ricerca russa nel relativo campo è fatta nel settore militare, non
per un preciso disegno bellico ma perché in Russia ricade nelle
competenze della Difesa, come accade per molti altri settori di cui in
Occidente si occupa la ricerca civile.
La seconda domanda da porsi è se è credibile che nel contingente
Russo vi siano stati degli operatori di intelligence, in particolare del
Gru ovvero del servizio segreto militare di Mosca.
Qui si può azzardare con certezza una affermazione positiva, anche se
di per sé è una conclusione quasi scontata per chi sa come funziona
l’esercito russo.
È infatti caratteristica comune di un certo modello organizzativo
dell’esercito (non solo russo) avere la presenza di membri
dell’intelligence a partire dalle proprie unità militari di base, tanto
più se si tratta di reparti specializzati in missione all’estero che
gestiscono dati sensibili come quelli in oggetto. Esserne sorpresi
equivale a meravigliarsi del collegamento all’intelligence di un attaché
militare di una qualsiasi ambasciata. Nulla di strano: avviene di
default.
Piuttosto, ad essere meno scontata è la risposta a una terza domanda,
forse la più importante, ovvero se questo personale di intelligence
abbia svolto attività investigativa e, se del caso, su cosa
esattamente. Qui obiettivamente le teorie che ipotizzano un intervento
di Mosca alla ricerca di non meglio specificati segreti strategici
italiani perdono credibilità logica e non offrono riscontri.
Ammesso che vi siano ancora aspetti militari dell’Italia sconosciuti
alla intelligence russa, il modo peggiore per raccoglierli sarebbe stato
con una missione “allo scoperto” della Difesa.
Dati i buoni rapporti tra i due Paesi, l’Italia è tutt’altro che
inaccessibile alla Russia e offre molteplici possibilità di ingresso
molto più discrete ed efficaci di un rumoroso arrivo con colonne di
camion militari.
Se intelligence vi è stata, è probabile che essa si sia concentrata
sullo studio di aspetti della pandemia che potevano essere reperiti solo nella zona del manifestarsi più virulento dei virus al mondo (dopo la Cina): ovvero Bergamo e Brescia.
Del primo aspetto abbiamo già scritto in anteprima mondiale su Formiche.net
(senza ricevere smentite) e avrebbe riguardato l’osservare da vicino
un’eventuale variazione della sequenza virale per comprenderne in
anticipo una possibile mutazione in peggio. Un’informazione di vitale
importanza per qualunque Paese, soprattutto se ricevuta con un certo
anticipo.
Ma, alla luce del dibattito che sta emergendo tra i virologi
sull’origine del virus, vi potrebbe essere un secondo probabile filone
di intelligence, di estrema importanza geopolitica, poiché potrebbe
ridisegnare gli equilibri mondiali a seconda dei dati che facesse
emergere e alle conclusioni di ultima istanza cui potrebbe portare.
Si tratterebbe della possibilità di tracciare l’esatta genesi di un
virus di cui nessuno, come di tutte le sciagure del pianeta, vuole
rivendicare la paternità. È infatti possibile che i reparti di élite
russi altamente specializzati abbiano scelto di andare nel bergamasco
per osservare da vicino la primissima versione del virus cinese sbarcato
in Europa con tutte le sue caratteristiche originarie, prima che
subisse mutazioni o perdesse forza – per trarne informazioni strutturali
(come ad esempio il vero tasso di mortalità e contagio) che finora sono
mancate in parte perché sconosciute, in parte perché nascoste alla sua
fonte, in Cina.
Sono informazioni che, una volta raccolte, potrebbero aiutare a
rispondere a una serie di dubbi ancora irrisolti. Primo fra tutti, se il
Covid-19 ha avuto una genesi naturale (passaggio spontaneo da animale
ad uomo) o artificiale (ed è il risultato – magari involontario – di un
esperimento da laboratorio).
È questo uno dei grandi punti interrogativi che ha accompagnato la
nascita di questa pandemia e che ha generato un giro vorticoso di
fantasiose teorie cospirazioniste che, come spesso accade in questi
casi, non si sa se vengano create per accreditare o discreditare delle
scomode verità.
Fatto sta che, qualunque sia l’esito della ricerca, essa rappresenta
per chi se ne occupa l’occasione di trovarsi tra le mani una “smoking-gun”
con un enorme potenziale di impatto negoziale geopolitico, soprattutto
nei confronti della Cina, sia nel rilasciarne che nel secretarne i
dettagli.
Una dimostrazione oggettiva di un’origine da laboratorio del Covid-19
potrebbe segnare per la Cina un ostacolo politico ed economico
insormontabile. Economico perché, scenario senza precedenti, Pechino,
pur non avendo perso nessuna guerra, potrebbe trovarsi a dovere pagare i
costi di riparazione in un importo impossibile da reggere per nessuna
economia al mondo.
Politico, perché si andrebbe a creare una consolidata situazione di
relazioni Cina vs Resto del Mondo, cui peraltro alcuni segnali di
riavvicinamento tra Mosca e Washington fanno già pensare.
Tutto dipenderà dal mistero se il Covid-19 sia nato in un mercato del
pesce o in un laboratorio di Wuhan. E la soluzione potrebbe trovarsi in
una casa di riposo di Bergamo.
Dosso dei Galli….che ricordi…vissuti con entusiasmo e disagio,il mio periodo è stato dal 1990 al 1991 in qualità di primo aviere addetto al primo soccorso distaccato dal Comando Afsouth Dispensary International Bagnoli, il mio compito era quello di occuparmi della salute dei militari. Posso dire a voce alta che si tratta del periodo più bello della mia vita …..ho imparato a crescere e confrontarmi ….. soprattutto durante il Natale e Capodanno del 1990/91 periodo che restando isolati causa forte nevicata e il gatto delle nevi non funzionante….un fine anno segnato dalla caduta del muro di Berlino con un nuovo inizio anno 1991 favoloso. Ciao San Colombano,Bagolino ….BRESCIA
Molto interessante
Molto interessante