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LA CENSURA UNIVERSALE PROCEDE INDISTURBATA NEL FACEBUKISTAN
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Un bel tampone a un pipistrello bergamasco no?
Le Sgrignapole di Azzano S. Paolo che si prendono cura dei pipistrelli

Paura dei pipistrelli? Di certo non ad Azzano San Paolo, dove dall’ottobre 2014 ha sede il Gruppo chirotterologico «Le Sgrignapole» (nato da un gruppo precedente, attivo dal 2012), un’associazione di promozione sociale dedicata ai pipistrelli, per incoraggiarne la conoscenza e la tutela, in particolare nel territorio delle province di Bergamo e Brescia.
Parla la fondatrice. Ne parliamo con Anna Maria Gibellini, 35enne azzanese, fondatrice e presidente dell’associazione, attualmente impiegata presso la Riserva naturale Oasi Wwf di Valpredina-Misma; al suo attivo una laurea magistrale in scienze naturali e numerosi corsi di formazione post-laurea specifici per il monitoraggio dei pipistrelli. «Durante gli studi universitari non ho avuto modo di approfondire il mio interesse per gli animali: per questo una volta laureata ho voluto ritagliarmi un momento per coltivarlo, mettendo poi questa mia competenza a disposizione della riserva per cui lavoro. L’Oasi Wwf di Valpredina ha infatti promosso e partecipato il primo censimento delle specie di Bergamo: un progetto che a suo tempo rilevò ben dieci entità o gruppi, sviluppato dall’Assessorato all'Ambiente e Opere del Verde di Palafrizzoni, a suo tempo retto da Massimo Bandera, col il supporto del Museo di Scienze Naturali Caffi. Fui proprio io a svolgere parte di quel lavoro tecnico e così, dopo la cessazione di quell’iniziativa, ne portai avanti l’interesse fondando questa associazione».

Un gruppo di specialisti. «Il nostro gruppo è attualmente formato da tredici persone - prosegue -: un numero che potrebbe sembrare esiguo, ma che in realtà non lo è se consideriamo che tutti noi siamo naturalisti di professione o formazione; tra noi c’è anche un laureando in scienze biologiche. Le riunioni ci permettono di condividere le nostre competenze tecniche, approfondire alcuni aspetti e tematiche, una base imprescindibile per procedere alla raccolta di dati inerenti i nostri amici pipistrelli: dove sono presenti e dove si alimentano, dove sono collocate le loro colonie e come tutelarle. I dati raccolti, analizzati e raffinati, sono quindi inviati allo Sportello Pipistrelli bergamasco, nato nel 2016 nell’ambito del Progetto Life Gestire 2020 e che a sua volta trasmette i dati all’Osservatorio Regionale per la biodiversità».
Cosa fa l'associazione. Il collettivo guidato dalla Gibellini, che deriva il suo nome dal termine dialettale che indica appunto i pipistrelli, è impegnato nel proporre serate divulgative sui pipistrelli, le cosiddette bat night (presso musei, biblioteche, riserve naturali, parchi pubblici), oltre a collaborare con il Centro di Recupero di Valpredina per il soccorso dei pipistrelli, e con vari Enti e Amministrazioni per lo studio e la tutela di questi animali, spesso eseguendo studi di inquadramento per meglio comprendere quali specie ci sono sul territorio e valorizzarne la presenza. Nel contempo raccoglie segnalazioni in merito alla presenza di chirotteri in edifici pubblici e privati, oltre a tracce della presenza di guano (ovvero escrementi, che si trovano anche in commercio in forma tipicamente granulare ed usati come potente concime organico) da esaminare poi al microscopio; se necessario il gruppo può anche facilitare e suggerire soluzioni che migliorino la convivenza tra pipistrelli e padroni di casa umani, oltre a monitorare alcune colonie presenti nell'edificato.
Sfoglia la gallery Progetti per il futuro. I programmi a breve termine: «Vogliamo organizzare una delle nostre bat night proprio in paese, tra giugno e luglio. Esploreremo il territorio con un bat detector, un particolare strumento che rileva ultrasuoni e quindi l’attività dei pipistrelli. A breve prenderemo contatti con l’Amministrazione ma anche e soprattutto con le associazioni, che vorremmo coinvolgere in questa nostra attività. Il nostro gruppo ha inoltre in programma un’altra bat night estiva tra Mantova e Cremona con la collaborazione degli Amici del Parco dell'Oglio Sud, una serata divulgativa al Museo di Brescia ed un’altra presso il Fab, Gruppo Flora Alpina Bergamasca. Più in generale il nostro interesse è rivolto verso aree di monitoraggio nelle provincie di Bergamo e Brescia, nei luoghi dove noi soci abitiamo. Puntiamo a rilevare e censire sempre più colonie, siti di nidificazione dove le femmine svezzano i piccoli. Se le femmine, a causa dell’azione umana, lasciano le colonie, i cuccioli restano abbandonati e muoiono di stenti, non consentendo quindi la riproduzione per quell’annata».
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Repetita iuvant: Perché è successo a Bergamo?
Perché è successo a Bergamo?
Saranno i contatti internazionali, la conformazione del territorio, l’antropologia. Forse c’entra anche l’Atalanta. Di sicuro, non sono da dimenticare le responsabilità delle strutture sanitarie e della politica

Ai numeri ufficiali non crede più nessuno. Tra i sindaci della bergamasca, la convinzione è che i dati forniti dalla Protezione civile costituiscano, al massimo, la punta dell’iceberg. I contagi sono sottostimati, i morti anche di più. Lo ha detto il primo cittadino di Bergamo, Giorgio Gori, al giornale locale, l’Eco di Bergamo: «Tutti noi sappiamo di persone anziane decedute in casa di riposo, oppure in casa, e a cui non è stato fatto il tampone». Non rientrano nelle statistiche, non aggiornano il conteggio. E così, si restituisce una realtà falsata, parziale, dell’andamento del contagio nell’area.
Nelle ultime tre settimane sarebbero morte oltre 600 persone solo in città. Se si comprende la provincia, si superano i mille, di cui 226 solo sabato. Per Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano Lombardo, paese della Val Seriana che insieme a Nembro costituisce la zona del focolaio da cui, forse, si è diffuso il contagio, le cifre sono diverse.«I morti, da quando è stato trovato il Covid, sono 81. Nello stesso periodo, l’anno scorso, erano nove». Nel paese vicino sono anche di più, hanno superato i 120. E perfino Zogno, che pure confina ma si trova in un’altra valle, ha un bilancio terribile. Ma ogni paesino ha la sua cifra – e la sua anomalia.
Ma perché proprio a Bergamo? È una domanda che non ha (ancora) una risposta. È il buco in cui va a cadere ogni ricostruzione: ci sono ipotesi, teorie, anche accuse. Si cita il fattore ambientale, la struttura particolare del territorio, i suoi contatti con l’estero. Ma si parla anche di errori e di leggerezze delle strutture ospedaliere. Oltre che della politica.
È difficile anche solo trovare un punto da cui partire. Il primo giorno di emergenza, cioè il 21 febbraio, nella bergamasca c’erano già quattro persone positive. Il 23, quando nel basso lodigiano viene istituita la “zona rossa”, i casi sono diventati nove, e si registra la prima vittima. Da quel momento la crescita è esponenziale: il 25 sono 66 i contagi e il 29 già 288. Il quattro marzo Bergamo supera Lodi, con 817 casi contro i 780. Da lì, sarà solo un bollettino di guerra.
Il virus, con ogni probabilità, era già in circolazione. Forse da giorni, forse da settimane. Il professor Massimo Galli, direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche “Luigi Sacco” dell’Università degli Studi di Milano, sostiene che il suo ingresso in Italia andrebbe collocato a fine gennaio: il vettore sarebbe un dipendente tedesco della Webasto, multinazionale bavarese di componentistica per automobili (che nega tutto)
Forse era già arrivato. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, in una intervista al Corriere della Sera segnala che già a dicembre si erano riscontrati casi anomali di polmoniti interstiziali: troppi, a suo avviso, e inspiegabili. Che fosse il coronavirus? «Non si può escludere», spiega a Linkiesta Paola Pedrini, segretario regionale Fimmg, la Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale, «anche se ormai è impossibile dirlo». Lei sposterebbe la data più avanti, verso gennaio, ma comunque conferma, sulla base dei rilievi comunicati dai medici di famiglia, le anomalie riscontrate. All’epoca «pensavamo che fosse ancora in Cina, e ci aspettavamo che arrivasse da lì». Se mai: all’epoca l’ipotesi del suo arrivo in Europa sembrava «improbabile», come si diceva da più parti.
E invece era già qui, o – se questa ipotesi fosse infondata – ci sarebbe arrivato a breve. Lodi è il centro della logistica del Nord, con contatti internazionali. Ma la Val Seriana è un’area industriale tra le più importanti d’Europa (quindi del mondo), che conta più di 400 aziende, quasi 4mila dipendenti e un fatturato che si aggira intorno ai 700 milioni all’anno. Le connessioni con l’estero, soprattutto Cina e Germania, sono inevitabili e vitali. E le possibilità di contagio altissime. Una volta arrivato – forse con una fiera zootecnica? Forse con un viaggiatore? – non avrebbe avuto difficoltà a diffondersi in un’area ad alta densità.
Anche perché, come ricorda qui Paolo Barcella professore di Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Bergamo, il territorio è concentrato e connesso. A partire dall’aeroporto di Orio al Serio, il quarto aeroporto per numero di passeggeri: 13 milioni all’anno – cioè quasi un milione al mese – che transitano vicino alla città, a volte nella città stessa e si servono degli stessi bus che usano gli abitanti. Si aggiunga che dalla stazione di Bergamo, dove confluiscono i pullman da Orio e i treni per Milano e Brescia, parte anche lo storico trenino delle valli che arriva fino ad Albino e attraversa proprio Alzano Lombardo e Nembro, il centro del focolaio. Qui il traffico di lavoratori e studenti, che dal paese vanno alla città e viceversa, è intenso. Il virus avrebbe incontrato, in un’area molto inquinata (con ricadute sulla salute, polmonare prima di tutto) una popolazione con un’età media elevata, laboriosa (lavorare anche quando si sta male è una pratica diffusa, accettata, lodata), ricca, con una forte propensione alla socialità, abituata a condividere gli spazi familiari con i giovani (fenomeno che, ad esempio nelle grandi città, si riscontra meno) e – nota sempre Barcella – con un certo grado di indisciplina («Quando tutta l’Italia è diventata zona arancione c’erano ultracinquantenni che si ammassavano per sciare negli Spiazzi di Gromo») dovuto a ragioni psicologiche e, forse, anche anagrafiche. Anche se ci sono almeno 1.800 trentenni tra i quasi 7.000 contagiati della provincia.
Oltre alle ragioni strutturali, c’è stato anche l’impatto di eventi imprevisti, come la partita dell’Atalanta contro il Valencia. È stato quello il detonatore dell’epidemia? Non è scientifico, ma molto probabile. Il 19 febbraio, a San Siro si radunano 45mila bergamaschi, dalla città, dai paesi e dalle valli. E 14 giorni dopo, cioè il 4 marzo, sale la curva dei contagi: è proprio in quel giorno che Bergamo supera Lodi. Una vittoria per 4 a 1 che, vista con il senno di poi, assume un valore sinistro. Anche perché subito dopo diversi giocatori del Valencia risultano positivi, mentre nell’Atalanta, messa in quarantena, solo il portiere Marco Sportiello (dal 24 marzo). Di sicuro a quel tempo il virus aveva cominciato a girare anche in Spagna.
Quello che è certo, calcio o meno, è che il virus è arrivato cogliendo tutti impreparati. A cominciare dalla sanità: nell’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo, vero e proprio punto di raccolta dei malati delle valli, cominciano ad accadere cose strane. E si torna, con una lettera inviata ai giornali da due operatori sanitari della struttura, al 23 febbraio. È in quella data che, dopo aver trovato alcuni pazienti positivi, si decide di chiudere il pronto soccorso. Giusto, si direbbe. Il fatto sconcertante, scrivono nella lettera, è che viene riaperto subito dopo, senza interventi di sanificazione (i pazienti positivi erano passati di lì) né creando un sistema di triage differenziato per i pazienti di Covid. Perché? La confusione continua: diversi medici e infermieri, nei giorni seguenti, risultano positivi per avere avuto contatti con i pazienti infetti. Subito dopo, invece, si decide di non fare più tamponi al personale che, nonostante i contatti con gli stessi pazienti, risulti asintomatico. Il tutto in un ambiente con «reparti contigui e zone senza filtro».
A tutto questo si aggiunge un’altra testimonianza, cioè quella del figlio di un paziente morto per coronavirus proprio in quella struttura. A suo avviso anche la madre, che era deceduta una settimana prima, aveva gli stessi sintomi del padre, ma non vennero diagnosticati. Era ancora il 22 febbraio. Con ogni probabilità la donna lo avrebbe contratto proprio in ospedale, dove era entrata il 12. Insomma, il virus c’era già. Ha avuto tutto il tempo di propagarsi. Aiutato anche dagli stessi medici di famiglia. Pur essendo sempre a contatto con i malati, spesso anziani – qui è lo scandalo – non hanno ancora ricevuto le protezioni sanitarie necessarie. Rischiano il contagio (ormai non si presentano quasi più, se chiamati) ma, soprattutto, potrebbero essere incolpevoli agenti del contagio.
È il risultato di una organizzazione lenta, miope e distratta. Le mascherine tardano, si sono resi necessari aiuti dall’estero. È anche qui, e non solo nel conteggio sempre più confuso dei morti, che si colgono le responsabilità di una classe politica, sia di destra che di sinistra, che ha titubato troppo prima di prendere decisioni drastiche – il lockdown, per capirsi. L’obiettivo, come spiegherà Gori, che col tempo ha ammesso di avere sbagliato valutazione (lo ha fatto anche il sindaco di Milano Beppe Sala), era quello di tenere insieme la salute e l’economia, evitando danni per entrambe le sfere. Intenzione giusta, ma non ha funzionato. La preoccupazione delle imprese, a cominciare dallo spot #begamoisrunning, era di non allarmare i partner stranieri e la creazione di una zona rossa, sul modello di Codogno, ancora al 6 marzo, avrebbe voluto dire «danni incalcolabili». Adesso i sindaci, tutti, della provincia, la chiedono a gran voce.
Quello che resta, ora, è una corsa contro il tempo per salvare i malati e tenere in piedi la sanità. Sono arrivati medici da Cuba, dalla Cina e perfino dalla Russia per sostenere la Lombardia. A Bergamo aprirà l’ospedale da campo: sarà il più grande d’Europa e avrà anche un reparto per la terapia intensiva. Tutti gli sforzi sono concentrati lì: resistere, stare in casa, fermare il contagio. È prioritario. La conta degli errori, delle responsabilità e delle disgrazie andrà fatta dopo. Forse si troverà anche una risposta, quella con cui chiudere il buco.
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REPETITA IUVANT: Repubblica: “Nel Bergamasco molte aziende in contatto con la Cina, forse il virus qui già a dicembre” - PERCHE' NON DA MILITARI NATO?
Repubblica: “Nel Bergamasco molte aziende in contatto con la Cina, forse il virus qui già a dicembre”
Il reportage dalla provincia più colpita dal virus. La sottovalutazione negli ospedali, la protezione aziendale e adesso i morti non si contano più

Perché Bergamo è la provincia italiana più colpita dal Covid-19? Repubblica prova a spiegarlo attraverso le parole di un bergamasco, Silvio Garattini, presidente e fondatore dell’istituto Mario Negri.
«Purtroppo qui è stata privilegiata la protezione dell’attività economica rispetto alla tutela della salute. Eppure il modello Codogno era noto. Perché non è stato applicato anche a Bergamo, nel focolaio della valle Seriana che aveva già iniziato a produrre un numero allarmante di contagiati e di morti? A Codogno hanno subito istituito la zona rossa. A Bergamo c’è stata una grave sottovalutazione. Di chi sia stata la responsabilità non sta a me dirlo. Però posso dire che la mancata chiusura del focolaio di Alzano e Nembro è stata un detonatore».
La bomba virale è esplosa in due comuni, Alzano Lombardo e Nembro, negli ospedali. Quattro giorni dopo la partita di Champions tra Atalanta e Valencia a San Siro. Abbiamo raccontato di quanto sia stato sottovalutato il problema. Tutte le persone transitate per il pronto soccorso dell’ospedale sono state lasciate libere di contagiare altri.

Repubblica va oltre, riporta quanto accaduto il 12 febbraio. Un abitante di Villa di Serio, scrive, racconta a Bergamonews che quel giorno la madre viene ricoverata ad Alzano per uno scompenso cardiaco. Muore nove giorni dopo.
«È il 21 febbraio. Le infermiere quel giorno entravano nelle camere con mascherine protettive di quelle poi distribuite per il coronavirus. Forse all’ospedale sospettavano del Covid-19 già da qualche giorno».
Nelle due settimane tra il 23 febbraio e l’8 marzo i morti e i contagi dilagano, tanto che l’assessore Gallera chiede a Roma l’istituzione della zona rossa. Che però non viene concessa.
Il direttore del servizio epidemiologico Ats Bergamo, Alberto Zucchi, dichiara:
«Tante aziende della zona hanno contatti continui con la Cina. È probabile che il virus in valle circolasse prima che a Codogno. Già da dicembre, forse. Ma non lo conoscevamo. Una serie di polmoniti sono state addebitate a complicanze influenzali, poi abbiamo scoperto essere Covid-19. Erano segnali di allarme».
Le aziende non si fermano. Sono 376 imprese e 3.700 dipendenti, scrive Repubblica. Intanto, il contagio si allarga all’intera provincia. Ma nemmeno allora cambia qualcosa. Anzi, come abbiamo raccontato, Confindustria Bergamo lancia una campagna video per tranquillizzare i partner europei,
I casi aumentano. Si continua a sottovalutare. Fino a quando, il 3 marzo, Gallera rimanda la palla al governo. Ma neppure allora arriva la zona rossa. E comunque ormai sarebbe anche abbastanza inutile visto che il contagio è stato lasciato libero di dilagare indisturbato. Oggi a Bergamo i morti non si contano più. Vengono trasportati fuori regione per essere cremati.
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Lettera aperta al signor Luigi di Maio, deputato del Popolo Italiano
IL SUCCO
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Tirare l'acqua
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