Repetita iuvant: Perché è successo a Bergamo?

 

Perché è successo a Bergamo?

Saranno i contatti internazionali, la conformazione del territorio, l’antropologia. Forse c’entra anche l’Atalanta. Di sicuro, non sono da dimenticare le responsabilità delle strutture sanitarie e della politica

Piero Cruciatti / Afp
A mural by artist Franco Rivolli Art, depicting a nurse wearing a face mask, with wings behind her back and cradling Italy, is pictured on a wall of the Papa Giovanni XXIII Hospital in Bergamo, Lombardy, on March 16, 2020. (Photo by Piero Cruciatti / AFP) / RESTRICTED TO EDITORIAL USE - MANDATORY MENTION OF THE ARTIST UPON PUBLICATION - TO ILLUSTRATE THE EVENT AS SPECIFIED IN THE CAPTION

Ai numeri ufficiali non crede più nessuno. Tra i sindaci della bergamasca, la convinzione è che i dati forniti dalla Protezione civile costituiscano, al massimo, la punta dell’iceberg. I contagi sono sottostimati, i morti anche di più. Lo ha detto il primo cittadino di Bergamo, Giorgio Gori, al giornale locale, l’Eco di Bergamo: «Tutti noi sappiamo di persone anziane decedute in casa di riposo, oppure in casa, e a cui non è stato fatto il tampone». Non rientrano nelle statistiche, non aggiornano il conteggio. E così, si restituisce una realtà falsata, parziale, dell’andamento del contagio nell’area.

Nelle ultime tre settimane sarebbero morte oltre 600 persone solo in città. Se si comprende la provincia, si superano i mille, di cui 226 solo sabato. Per Camillo Bertocchi, sindaco di Alzano Lombardo, paese della Val Seriana che insieme a Nembro costituisce la zona del focolaio da cui, forse, si è diffuso il contagio, le cifre sono diverse.«I morti, da quando è stato trovato il Covid, sono 81. Nello stesso periodo, l’anno scorso, erano nove». Nel paese vicino sono anche di più, hanno superato i 120. E perfino Zogno, che pure confina ma si trova in un’altra valle, ha un bilancio terribile. Ma ogni paesino ha la sua cifra – e la sua anomalia.

Ma perché proprio a Bergamo? È una domanda che non ha (ancora) una risposta. È il buco in cui va a cadere ogni ricostruzione: ci sono ipotesi, teorie, anche accuse. Si cita il fattore ambientale, la struttura particolare del territorio, i suoi contatti con l’estero. Ma si parla anche di errori e di leggerezze delle strutture ospedaliere. Oltre che della politica.

È difficile anche solo trovare un punto da cui partire. Il primo giorno di emergenza, cioè il 21 febbraio, nella bergamasca c’erano già quattro persone positive. Il 23, quando nel basso lodigiano viene istituita la “zona rossa”, i casi sono diventati nove, e si registra la prima vittima. Da quel momento la crescita è esponenziale: il 25 sono 66 i contagi e il 29 già 288. Il quattro marzo Bergamo supera Lodi, con 817 casi contro i 780. Da lì, sarà solo un bollettino di guerra.

Il virus, con ogni probabilità, era già in circolazione. Forse da giorni, forse da settimane. Il professor Massimo Galli, direttore del Dipartimento di Scienze Biomediche e Cliniche “Luigi Sacco” dell’Università degli Studi di Milano, sostiene che il suo ingresso in Italia andrebbe collocato a fine gennaio: il vettore sarebbe un dipendente tedesco della Webasto, multinazionale bavarese di componentistica per automobili (che nega tutto)

Forse era già arrivato. Giuseppe Remuzzi, direttore dell’Istituto di ricerche farmacologiche Mario Negri, in una intervista al Corriere della Sera segnala che già a dicembre si erano riscontrati casi anomali di polmoniti interstiziali: troppi, a suo avviso, e inspiegabili. Che fosse il coronavirus? «Non si può escludere», spiega a Linkiesta Paola Pedrini, segretario regionale Fimmg, la Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale, «anche se ormai è impossibile dirlo». Lei sposterebbe la data più avanti, verso gennaio, ma comunque conferma, sulla base dei rilievi comunicati dai medici di famiglia, le anomalie riscontrate. All’epoca «pensavamo che fosse ancora in Cina, e ci aspettavamo che arrivasse da lì». Se mai: all’epoca l’ipotesi del suo arrivo in Europa sembrava «improbabile», come si diceva da più parti.

E invece era già qui, o – se questa ipotesi fosse infondata – ci sarebbe arrivato a breve. Lodi è il centro della logistica del Nord, con contatti internazionali. Ma la Val Seriana è un’area industriale tra le più importanti d’Europa (quindi del mondo), che conta più di 400 aziende, quasi 4mila dipendenti e un fatturato che si aggira intorno ai 700 milioni all’anno. Le connessioni con l’estero, soprattutto Cina e Germania, sono inevitabili e vitali. E le possibilità di contagio altissime. Una volta arrivato – forse con una fiera zootecnica? Forse con un viaggiatore? – non avrebbe avuto difficoltà a diffondersi in un’area ad alta densità.

Anche perché, come ricorda qui Paolo Barcella professore di Storia Contemporanea all’Università degli Studi di Bergamo, il territorio è concentrato e connesso. A partire dall’aeroporto di Orio al Serio, il quarto aeroporto per numero di passeggeri: 13 milioni all’anno – cioè quasi un milione al mese – che transitano vicino alla città, a volte nella città stessa e si servono degli stessi bus che usano gli abitanti. Si aggiunga che dalla stazione di Bergamo, dove confluiscono i pullman da Orio e i treni per Milano e Brescia, parte anche lo storico trenino delle valli che arriva fino ad Albino e attraversa proprio Alzano Lombardo e Nembro, il centro del focolaio. Qui il traffico di lavoratori e studenti, che dal paese vanno alla città e viceversa, è intenso. Il virus avrebbe incontrato, in un’area molto inquinata (con ricadute sulla salute, polmonare prima di tutto) una popolazione con un’età media elevata, laboriosa (lavorare anche quando si sta male è una pratica diffusa, accettata, lodata), ricca, con una forte propensione alla socialità, abituata a condividere gli spazi familiari con i giovani (fenomeno che, ad esempio nelle grandi città, si riscontra meno) e – nota sempre Barcella – con un certo grado di indisciplina («Quando tutta l’Italia è diventata zona arancione c’erano ultracinquantenni che si ammassavano per sciare negli Spiazzi di Gromo») dovuto a ragioni psicologiche e, forse, anche anagrafiche. Anche se ci sono almeno 1.800 trentenni tra i quasi 7.000 contagiati della provincia.

Oltre alle ragioni strutturali, c’è stato anche l’impatto di eventi imprevisti, come la partita dell’Atalanta contro il Valencia. È stato quello il detonatore dell’epidemia? Non è scientifico, ma molto probabile. Il 19 febbraio, a San Siro si radunano 45mila bergamaschi, dalla città, dai paesi e dalle valli. E 14 giorni dopo, cioè il 4 marzo, sale la curva dei contagi: è proprio in quel giorno che Bergamo supera Lodi. Una vittoria per 4 a 1 che, vista con il senno di poi, assume un valore sinistro. Anche perché subito dopo diversi giocatori del Valencia risultano positivi, mentre nell’Atalanta, messa in quarantena, solo il portiere Marco Sportiello (dal 24 marzo). Di sicuro a quel tempo il virus aveva cominciato a girare anche in Spagna.

Quello che è certo, calcio o meno, è che il virus è arrivato cogliendo tutti impreparati. A cominciare dalla sanità: nell’ospedale “Pesenti Fenaroli” di Alzano Lombardo, vero e proprio punto di raccolta dei malati delle valli, cominciano ad accadere cose strane. E si torna, con una lettera inviata ai giornali da due operatori sanitari della struttura, al 23 febbraio. È in quella data che, dopo aver trovato alcuni pazienti positivi, si decide di chiudere il pronto soccorso. Giusto, si direbbe. Il fatto sconcertante, scrivono nella lettera, è che viene riaperto subito dopo, senza interventi di sanificazione (i pazienti positivi erano passati di lì) né creando un sistema di triage differenziato per i pazienti di Covid. Perché? La confusione continua: diversi medici e infermieri, nei giorni seguenti, risultano positivi per avere avuto contatti con i pazienti infetti. Subito dopo, invece, si decide di non fare più tamponi al personale che, nonostante i contatti con gli stessi pazienti, risulti asintomatico. Il tutto in un ambiente con «reparti contigui e zone senza filtro».

A tutto questo si aggiunge un’altra testimonianza, cioè quella del figlio di un paziente morto per coronavirus proprio in quella struttura. A suo avviso anche la madre, che era deceduta una settimana prima, aveva gli stessi sintomi del padre, ma non vennero diagnosticati. Era ancora il 22 febbraio. Con ogni probabilità la donna lo avrebbe contratto proprio in ospedale, dove era entrata il 12. Insomma, il virus c’era già. Ha avuto tutto il tempo di propagarsi. Aiutato anche dagli stessi medici di famiglia. Pur essendo sempre a contatto con i malati, spesso anziani – qui è lo scandalo – non hanno ancora ricevuto le protezioni sanitarie necessarie. Rischiano il contagio (ormai non si presentano quasi più, se chiamati) ma, soprattutto, potrebbero essere incolpevoli agenti del contagio.

È il risultato di una organizzazione lenta, miope e distratta. Le mascherine tardano, si sono resi necessari aiuti dall’estero. È anche qui, e non solo nel conteggio sempre più confuso dei morti, che si colgono le responsabilità di una classe politica, sia di destra che di sinistra, che ha titubato troppo prima di prendere decisioni drastiche – il lockdown, per capirsi. L’obiettivo, come spiegherà Gori, che col tempo ha ammesso di avere sbagliato valutazione (lo ha fatto anche il sindaco di Milano Beppe Sala), era quello di tenere insieme la salute e l’economia, evitando danni per entrambe le sfere. Intenzione giusta, ma non ha funzionato. La preoccupazione delle imprese, a cominciare dallo spot #begamoisrunning, era di non allarmare i partner stranieri e la creazione di una zona rossa, sul modello di Codogno, ancora al 6 marzo, avrebbe voluto dire «danni incalcolabili». Adesso i sindaci, tutti, della provincia, la chiedono a gran voce.

Quello che resta, ora, è una corsa contro il tempo per salvare i malati e tenere in piedi la sanità. Sono arrivati medici da Cuba, dalla Cina e perfino dalla Russia per sostenere la Lombardia. A Bergamo aprirà l’ospedale da campo: sarà il più grande d’Europa e avrà anche un reparto per la terapia intensiva. Tutti gli sforzi sono concentrati lì: resistere, stare in casa, fermare il contagio. È prioritario. La conta degli errori, delle responsabilità e delle disgrazie andrà fatta dopo. Forse si troverà anche una risposta, quella con cui chiudere il buco.

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