CHE COSA VI HANNO RACCONTATO? I 200 MILIARDI DI BALLE DI CONTE, DRAGHI & C.

Ricchezza e poverta': l'Italia nel confronto internazionale

1.   Introduzione e principali risultati (1)

L’Household Finance and Consumption Survey (HFCS) è una indagine campionaria armonizzata su ricchezza, reddito e consumi delle famiglie dell’area dell’euro condotta su base volontaria dalle Banche Centrali Nazionali (BCN). L’indagine fornisce informazioni sul comportamento delle famiglie, utili per una migliore comprensione dei meccanismi di trasmissione della politica monetaria e per la valutazione di profili di stabilità finanziaria. I microdati anonimi sono a disposizione degli studiosi per finalità di ricerca.

 

Le BCN hanno rilevato, con una metodologia per quanto possibile omogenea e secondo definizioni armonizzate, le variabili necessarie a ricostruire i bilanci delle famiglie sia in termini di consistenze sia di flussi, con particolare attenzione alle componenti della ricchezza; tre quarti delle informazioni sono rilevate a livello familiare, le restanti a livello personale.

Tra i 15 paesi partecipanti alla prima edizione2 , 8 hanno adattato indagini già esistenti e 7 ne hanno avviate di nuove. Le attività di rilevazione sono state condotte prevalentemente tra il 2010 e il 20113 ; per quello che riguarda l’Italia, sono inclusi i dati dell’Indagine sui bilanci delle famiglie italiane (IBF) sul 2010. Per quanto il questionario e le metodologie statistiche siano sostanzialmente armonizzate, è opportuno notare che in questa prima edizione dell’indagine HFCS alcune variabili economiche possono soffrire di problemi di comparabilità dovuti all’adattamento delle indagini nazionali pre-esistenti, a nuovi processi di raccolta dei dati  nelle  nuove  indagini  e  a  periodi  di  rilevazione  parzialmente  differenti4 .  L’interpretazione  delle differenze tra paesi richiede quindi particolare attenzione.

I risultati delle indagini, accuratamente validati, forniscono informazioni sulla distribuzione dei fenomeni oggetto di indagine complementari rispetto alle stime macroeconomiche della Contabilità Nazionale; non sono un sostituto di queste ultime, che si concentrano sulla quantificazione di fenomeni a livello aggregato. I dati dell’indagine presentano inoltre alcune differenze di definizione rispetto ai dati di contabilità nazionale, per cui i risultati del confronto vanno interpretatati con una certa cautela.

Tre aspetti principali vanno tenuti presenti: l’indagine si concentra sulle famiglie (escludendo quindi le istituzioni sociali private); alcune componenti della ricchezza pensionistica, tra cui quelle relative alla previdenza pubblica, non sono rilevate; i risultati si basano su valutazioni soggettive degli intervistati sul valore delle attività possedute.

Questo documento presenta i risultati di elaborazioni condotte sui dati dell’indagine, con particolare riferimento alla situazione italiana nel panorama internazionale5 .

· Le famiglie dell’area dell’euro risultano composte in media da 2,3 componenti (2,5 in Italia), di cui 1,5 percettori di reddito (1,6 in Italia). I nuclei familiari di minori dimensioni si osservano in Germania, Finlandia e Austria (2,0 e 2,1 componenti, rispettivamente), mentre quelli relativamente più numerosi si trovano a Malta, a Cipro e in Slovacchia (2,9 e 2,8, rispettivamente).

· Poco più del 40 per cento della popolazione dell’area dell’euro è in condizione professionale (il 35,7 per cento sono lavoratori dipendenti contro il 6,1 di indipendenti). In Slovacchia, Austria e in Germania lavorano il 48,1, il 46,6 e il 46,2 per cento dei componenti, mentre in Italia si registra il più basso tasso di occupazione (37,7 per cento, di cui il 30,2 sono lavoratori dipendenti).

· Il reddito medio familiare annuo al lordo delle imposte e dei contributi è pari a circa 37.850 euro, poco più di 3.000 euro al mese; il valore mediano, cioè il reddito della famiglia che occupa la posizione centrale ordinando le famiglie dalla più povera alla meno povera, si attesta sui 28.600 euro. I valori mediani più elevati si registrano in Lussemburgo e nei Paesi Bassi; quelli più bassi in Portogallo e in Slovacchia. L’Italia in questa classifica occupa il nono posto sui 15 paesi considerati.

· Il reddito equivalente lordo, una misura delle risorse disponibili a livello individuale che tiene conto della dimensione e della composizione del nucleo familiare, risulta pari a circa 23.500 euro. La quota di individui poveri, identificati da un reddito equivalente inferiore alla metà della mediana di ciascun paese, risulta complessivamente pari al 13 per cento, mentre in Italia si registra un valore più elevato (16,5 per cento).

· L’indice di concentrazione di Gini sui redditi per l’intera area è pari a 0,40. I grandi paesi inclusi nell’indagine (Francia, Germania, Italia e Spagna) presentano livelli di concentrazione intermedi (con indici tra 0,35 e 0,39); la disuguaglianza è maggiore in Belgio e in Portogallo (rispettivamente 0,46 e 0,43), mentre è più bassa in Slovacchia e nei Paesi Bassi (circa 0,30).

· La ricchezza netta familiare, calcolata come la somma delle attività reali e finanziarie e al netto dei debiti, presenta un valore medio per l’area dell’euro di circa 230.000 euro. Tra i paesi con maggiore popolazione, la ricchezza raggiunge i valori più elevati in Belgio (circa 340.000 euro) e i più bassi in Grecia e Portogallo (circa 150.000 euro). L’Italia presenta una ricchezza netta media familiare relativamente elevata nel confronto internazionale (275.200 euro).

· I divari nei valori medi tra i paesi risentono di numerosi fattori, come ad esempio la dimensione e la struttura della famiglia, il possesso dell’abitazione di residenza, le caratteristiche istituzionali dei paesi, oltre che aspetti metodologici e di misurazione. Ad esempio, la ricchezza media in Germania si attesta su 195.200 euro, un livello inferiore a quello di Spagna, Italia e Francia (rispettivamente 291.400, 275.200 e 233.400). Se si considera la ricchezza pro-capite i divari si riducono sensibilmente: per l’Italia e la Spagna i valori pro capite sono pari a 108.700 euro, di poco superiori a quelli della Francia (104.100 euro) e della Germania (95.500 euro). Inoltre, le famiglie composte da giovani sono in Spagna e soprattutto in Italia meno frequenti di quanto non lo siano in Germania e Francia; queste famiglie sono meno ricche delle altre perché non hanno ancora avuto tempo di accumulare ricchezza; la loro maggiore numerosità in Germania e Francia tende a ridurre il valore medio complessivo della ricchezza familiare di quei paesi. La più bassa ricchezza delle famiglie tedesche, e in minor misura quella delle famiglie francesi, è anche legata alla diffusione della proprietà dell’abitazione di residenza (44 per cento in Germania e 55 per cento in Francia, contro 69 per cento in Italia e 83 per cento in Spagna) e al fatto che una composizione della ricchezza maggiormente orientata alle attività finanziarie si riflette in un più elevato livello di under-reporting.

·  La concentrazione della ricchezza, in tutti i paesi di gran lunga superiore a quella del reddito, risulta più elevata in Germania e in Austria, mentre è più bassa in Grecia, Spagna e Italia.

· L’Italia presenta percentuali di partecipazione ai mercati finanziari inferiori a quelle dell’area dell’euro per quasi tutti gli strumenti, ad eccezione delle obbligazioni e dei titoli di Stato, detenuti da quasi il 15 per cento delle famiglie a fronte del 5 per cento registrato nell’area. Negli altri paesi si segnalano, come particolarmente elevate, le percentuali di possesso di fondi comuni in Germania e Belgio (6 punti percentuali più della media), di azioni quotate in Francia, ma soprattutto in Finlandia (la prima sopra la media di quasi 5 punti percentuali e la seconda con valori pari a più del doppio della media dell’area) e la quota di fondi pensione facoltativi e assicurazioni vita nei Paesi Bassi, Belgio e Germania (oltre 10 punti percentuali in più rispetto alla media).

· Nell’area dell’euro il 43,7 per cento delle famiglie è indebitato. I paesi dove maggiore è la diffusione dell’indebitamento sono i Paesi Bassi e Cipro (65,7 e 65,4 per cento); l’Italia registra il valore più basso, con il 25,2 per cento.

     2.   La struttura della famiglia 

Le famiglie dell’area dell’euro risultano composte in media da 2,3 componenti, di cui 1,5 percettori di reddito, cioè circa 2 percettori ogni 3 componenti. I nuclei familiari di minori dimensioni si osservano in Germania, Finlandia e Austria (2,0 e 2,1 componenti, rispettivamente), mentre quelli relativamente più numerosi si trovano a Malta, a Cipro e in Slovacchia (2,9 e 2,8, rispettivamente). I valori italiani (2,5) sono appena più elevati della media dell’area dell’euro (Tavola 2)6 .

Le tipologie familiari sono anch’esse piuttosto eterogenee tra i paesi dell’indagine (Tavola 3). Le coppie con figli, pari al 30,6 per cento delle famiglie nell’area dell’euro, rappresentano circa il 40 per cento in Italia e poco più del 20 per cento in Austria, Finlandia e Germania. Parte di queste differenze sono attribuibili alla maggiore permanenza dei figli adulti nella famiglia di origine nei paesi mediterranei. Le famiglie con un solo componente, che costituiscono poco meno di un terzo delle famiglie europee, sono invece più diffuse nei paesi del Nord Europa. Nell’area dell’euro, il numero medio di figli minorenni per famiglia è pari a 0,44 componenti (in Italia 0,46) con valori compresi tra 0,58 (Malta), e 0,35 (Austria e Germania). Le precedenti differenze nella dimensione familiare sono dunque sostanzialmente imputabili ai componenti adulti.

La  dimensione  familiare  media  varia  in  funzione  dell’età  del  capofamiglia7 :  si  passa  da  2,2 componenti per i capifamiglia con meno di 35 anni a 3,0 per quelli nella classe di età tra i 35 e i 44 anni, per poi ridursi per le coorti più anziane fino a 1,7 componenti per i nuclei il cui capofamiglia ha più di 64 anni (Tavola 2).

Il numero medio di percettori di reddito per famiglia è maggiore in Slovacchia e in Portogallo (2,0 e 1,8) e minore nei Paesi bassi (1,3) e in Belgio, Germania e Francia (1,5). Se si tiene conto, però, della diversa dimensione media delle famiglie, il maggior numero di percettori si osserva per Austria, Germania, Slovacchia e Finlandia, dove oltre il 70 per cento dei componenti risulta percettore di reddito; Malta, Spagna, Cipro e Grecia presentano invece una quota di percettori pari a circa il 60 per cento (64,0 per cento in Italia; Tavola 4).

La percentuale di famiglie europee con capofamiglia di sesso maschile è pari al 65,0 per cento (67,1 in Italia; Tavola 5); le percentuali più elevate si riscontrano a Malta (75,2 per cento) e in Spagna (72,9) e la minima in Finlandia (57,3). Nel 15,8 per cento dei casi il capofamiglia ha meno di 35 anni, mentre nel 27,7 per cento ha più di 65 anni; in Italia si registra la più elevata frequenza di capifamiglia più anziani e la minore di quelli più giovani: il 32,4 per cento ha almeno 65 anni e solamente l’8,6 per cento ha meno di 35 anni, rispettivamente il massimo e il minimo tra i paesi coperti dall’indagine. 

Tra i componenti della famiglia si registra una lieve predominanza femminile (51,1 per cento; 51,4 in Italia); nel 39,7 per cento dei casi l’età è inferiore ai 35 anni, mentre nel 18,1 per cento è superiore ai 65. I componenti delle famiglie italiane e tedesche sono i più anziani dell’area. Per l’Italia la percentuale di membri con oltre 65 anni è superiore al 20 per cento mentre quella di componenti con meno di 35 anni è pari al 36,4 per cento, rispettivamente il secondo valore più alto e il secondo più basso tra i paesi considerati (i valori estremi si osservano in Germania).

Il capofamiglia è più frequentemente lavoratore dipendente che autonomo (47,9 per cento delle famiglie contro 9,0 per cento); nel restante 43,1 per cento dei casi è in condizione non professionale (Tavola 6). Tra questi ultimi, la maggioranza è costituita da pensionati (poco più del 30 per cento; il 36,4 in Italia).

La condizione professionale dei capifamiglia presenta un’ampia variabilità tra i paesi: in Slovacchia circa il 70 per cento di essi è un lavoratore, contro una quota negli altri paesi che varia da circa il 55 per cento a circa i  due terzi delle famiglie (il 57,4 per cento in Italia). I capifamiglia sono più frequentemente lavoratori dipendenti in Lussemburgo e Slovacchia (rispettivamente 59,0 e 58,0 per cento). In Grecia e in Italia si registrano invece le percentuali più alte dell’intera aerea di capifamiglia lavoratori indipendenti (18,9 e 13,1 per cento, rispettivamente).

Nel complesso della popolazione dell’area dell’euro poco più del 40 per cento è in condizione professionale (il 35,7 per cento sono lavoratori dipendenti contro il 6,1 di indipendenti). In Slovacchia, Austria e in Germania lavorano il 48,0, il 46,6 e il 46,3 per cento dei componenti, mentre in Italia si registra il più basso tasso di occupazione (37,7 per cento, di cui il 30,2 sono lavoratori dipendenti). 

Il livello di istruzione del capofamiglia più frequente nell’area dell’euro è il diploma di scuola secondaria superiore (41,3 per cento; in Italia 35,0), mentre i capifamiglia laureati sono circa un quarto. In Italia, più della metà dei capifamiglia possiede al massimo la licenza media, e solamente l’11,7 per cento è laureato (Tavola 7). In Portogallo, il 61,1 per cento delle famiglie ha un capofamiglia con solo una licenza di scuola elementare; in Austria, Germania, Paesi Bassi, Slovacchia, Slovenia e Finlandia si osservano quote inferiori al 5 per cento. Nell’intera popolazione, il diploma di scuola secondaria superiore è il più diffuso titolo di studio (34,4 per cento; in Italia 30,7); la quota dei componenti laureati è pari al 17,6 per cento nell’area dell’euro, ma scende all’8,7 per cento in Portogallo e al 9,4 per cento in Italia.

Nel complesso dei paesi in cui è stato rilevato il luogo di nascita degli intervistati8  il 10,9 per cento dei capifamiglia e il 9,7 dei componenti risulta un immigrato. Questa media nasconde situazioni assai eterogenee: in Lussemburgo oltre il 40 per cento dei capifamiglia è immigrato, mentre in Finlandia e in Slovacchia tali quote sono inferiori al 5 per cento. In Italia la quota degli immigrati è inferiore alla media dell’area dell’euro (l’8,5 per cento dei capifamiglia e il 7,7 dei componenti). 

     3.   Il reddito

Nel complesso dei paesi rilevati il reddito medio familiare annuo al lordo delle imposte e dei contributi è pari a circa 37.850 euro, mentre la mediana si attesta a 28.600 euro. I corrispondenti valori per l’Italia sono di poco inferiori (circa 34.350 e 26.250 euro; Tavola 8)9 . Il nostro Paese si colloca in un a posizione intermedia (Figura 1). L’elevato valore medio dei Paesi Bassi, come anche la concentrazione molto ridotta, potrebbe risentire della specifica modalità di raccolta dei dati (i questionari vengono somministrati attraverso internet).

L’indicatore del reddito familiare non tiene conto della diversa composizione della famiglia che si riscontra nei vari paesi. Per ottenere una misura che approssimi il livello di benessere economico, si può correggere il reddito complessivamente percepito dalla famiglia con una scala di equivalenza10 . Il reddito equivalente medio lordo è pari a circa 23.500 euro nella media dei paesi considerati, e a circa 20.000 euro in Italia (Tavola 8). I valori mediani sono rispettivamente di 18.444 euro e 16.917 euro. Con riferimento agli altri principali paesi dell’area euro, si osserva che i redditi equivalenti italiani superano di poco quelli spagnoli (17.721 e 14.000 euro, rispettivamente per la media e la mediana) e sono leggermente inferiori a quelli francesi (23.737 e 19.329 euro). Le famiglie tedesche risultano quelle con il reddito equivalente più alto (media e mediana rispettivamente pari a 29.629 e 23.180 euro11 ).

 

 

 

 

I dati sui redditi equivalenti mediani dei 15 paesi considerati presentano una buona coerenza con le corrispondenti stime desunte dalla Survey on Income and Living Conditions (EU-SILC): il coefficiente di correlazione è risultato pari al 0,972. Inoltre, il confronto tra i redditi pro capite stimati dall’indagine e i redditi disponibili pro capite desumibili dalle singole contabilità nazionali fornisce una correlazione pari al 0,942.

La Tavola 9 mostra in dettaglio il rapporto tra le stime delle medie del reddito pro capite di fonte HFCS e quelle di Contabilità Nazionale. Ai fini di una corretta comparabilità va tenuto presente che le stime macroeconomiche si riferiscono ai redditi al netto delle imposte mentre quelli dell’indagine sono al lordo. Nella gran parte dei paesi, tuttavia, le stime campionarie sono significativamente inferiori a quelle di fonte macroeconomica, a causa del tipico fenomeno dell’under-reporting. In Austria, Belgio, Cipro e Germania, le stime campionarie sul reddito eccedono invece quelle delle Contabilità Nazionali, probabilmente a causa delle pratiche di over-sampling dei ricchi adottate in tali indagini. Nel caso dei Paesi Bassi si registra un divario relativamente ampio tra le due stime, che probabilmente riflette la citata peculiare modalità di rilevazione.

Le differenze tra i redditi nei paesi dell’indagine risultano attenuate se si tiene conto del diverso potere di acquisto che i redditi hanno nei vari paesi. Ad esempio il reddito equivalente corretto per le parità di potere d’acquisto della Finlandia è circa 2 volte quello della Slovacchia, mentre quello non corretto è oltre 4  volte. L’Italia, anche con questo indicatore, mantiene una posizione intermedia tra  i  paesi dell’area dell’euro (Tavola 8). 

Il reddito medio delle famiglie che si collocano nel 20 per cento inferiore della distribuzione dei redditi è pari a 9.330 euro in Italia, mentre è inferiore in Spagna (7.715 euro) e superiore in Francia e Germania (11.264 e 10.035 euro, rispettivamente; Figura 2). L’ordinamento dei redditi familiari medi deI quattro paesi più popolosi dell’aerea dell’euro rimane pressoché stabile  lungo l’intera distribuzione. Il divario tra le famiglie tedesche e quelle degli altri paesi si amplia tuttavia man mano che si passa alle classi più abbienti.   

La distribuzione dei redditi mostra in tutti i paesi la consueta asimmetria, con una concentrazione sui redditi  medio-bassi  e  una  frequenza  progressivamente  meno  elevata  per  quelli  più  alti.  Il  livello  di asimmetria, come emerge attraverso il confronto tra la media e la mediana, risulta più marcato in Belgio, Portogallo e in Austria rispetto all’Italia (Tavola 8). Considerando i redditi equivalenti, i paesi dove la media eccede più significativamente la mediana rimangono il Portogallo e l’Austria, mentre in Italia il rapporto media-mediana scende da 1,31 a 1,18.

L’indice di concentrazione di Gini dei redditi familiari, che misura il livello di disuguaglianza della distribuzione12 , risulta pari a 0,42 per l’area dell’euro. Questa statistica rimane sostanzialmente invariata se si tiene in considerazione il costo della vita nei vari paesi. Per l’Italia si registra una concentrazione pari a 0,40, sostanzialmente intermedia rispetto a quella osservata negli altri paesi. In maniera simile, gli altri grandi paesi dell’area si collocano al centro della distribuzione, mentre valori più elevati si riscontrano per il Belgio, il Portogallo, il Lussemburgo e Cipro; valori più bassi caratterizzano invece la Slovacchia, la Finlandia e i Paesi Bassi (Figura 3).

L’indice di Gini calcolato sui redditi equivalenti risulta sempre inferiore a quello osservato sui redditi familiari, con un valore di 0,40 per l’area dell’euro, che si riduce marginalmente correggendo i redditi anche per il diverso potere di acquisto. L’Italia permane in una posizione intermedia rispetto agli altri paesi attestandosi su un valore di 0,36.

Le stime della concentrazione dei redditi equivalenti di questa indagine mostrano una bassa correlazione con le corrispondenti stime di EU-SILC (circa 0,3), che sono però riferite ai redditi netti disponibili. Sulla misura dell’accostamento incidono i diversi sistemi di tassazione presenti nei vari paesi (Tavola 9).

La stima della diffusione della povertà relativa risente, per definizione, della comunità di riferimento e dell’indicatore utilizzato. Considerando il reddito equivalente e utilizzando un’unica soglia per l’intera area dell’euro, come se si trattasse di un’unica entità13 , la quota di individui in condizione di povertà relativa (identificati  come  coloro che vivono in  famiglie il  cui  reddito equivalente è  inferiore alla  metà  della mediana) risulterebbe complessivamente pari al 15,9 per cento. La povertà, secondo questa definizione, caratterizzerebbe principalmente i paesi dell’Europa meridionale e orientale con picchi che superano la metà della popolazione per il Portogallo e la Slovacchia. La percentuale di individui poveri in Italia sarebbe pari al 19,8 per cento (Tavola 10). L’ordinamento dei paesi rimarrebbe sostanzialmente immutato se si tenesse in considerazione il diverso potere di acquisto nei paesi, per quanto l’incidenza della povertà nei paesi più poveri apparirebbe fortemente ridimensionata. Ad esempio, la quota di popolazione in condizione di povertà relativa in Slovacchia passerebbe dall’80 al 43 per cento circa.

 

L’adozione di soglie nazionali cambia la rappresentazione del fenomeno: la quota complessiva di soggetti  poveri  dell’area  dell’euro  si  ridimensiona  notevolmente  (13,0  per  cento).  Secondo  questa definizione, in Italia si registra un valore (16,5 per cento) superiore a quello degli altri grandi paesi dell’area, dove si osservano valori che oscillano tra il 8,9 per cento della Francia e il 13,4 della Germania. Il valore italiano è inoltre inferiore a quello del Belgio (17,0 per cento), mentre la percentuale minima di poveri si riscontra in Slovacchia e Francia (8,3 e 8,9 per cento, rispettivamente).

 

 

In allegato il file in pdf di Banca d'Italia: Principali risultati dell'Household Finance and Consumption Survey: l'Italia nel confronto  internazionale >>>

 

(1) Gli autori desiderano ringraziare Giovanni D’Alessio per i numerosi commenti ricevuti durante la stesura del lavoro.

Si ringraziano inoltre Andrea Brandolini, Luigi Cannari, Marco Magnani e Silvia Magri per gli utili suggerimenti ricevuti. Le opinioni espresse sono personali e non impegnano l’Istituzione di appartenenza.

(2) L’Irlanda e l’Estonia raccoglieranno i dati solo a partire dalla seconda edizione. Il campione complessivo della prima edizione consta di circa 62.000 famiglie (Tavola 1).

(3) I  calendari  di  rilevazione  nei  vari  paesi  non  sono  esattamente  allineati  poiché  quelli  che  conducevano  già un’indagine hanno mantenuto la cadenza precedente. È prevista per le prossime edizioni una graduale convergenza volta a eliminare le residue asimmetrie, che comportano alcuni problemi di comparabilità, tra i quali vi è l’eterogeneità nel periodo di riferimento adottato nella rilevazione.

(4) Per una presentazione completa delle caratteristiche specifiche di ogni indagine, si veda The Eurosystem Household Finance and Consumption Survey - Methodological report for the first wave, ECB Statistics Paper Series, n.1, April 2013 (www.ecb.europa.eu/pub/pdf/other/ecbsp1en.pdf).

(5) Si veda anche The Eurosystem Household Finance and Consumption Survey – Results from the first wave, ECB Statistics Paper Series, n. 2, April 2013 (www.ecb.europa.eu/pub/pdf/other/ecbsp2en.pdf). Le elaborazioni sono state condotte sulla versione 1.8 del database. In alcuni casi vengono presentate elaborazioni aggiuntive rispetto a quelle contenute nel suddetto rapporto, in particolare con riferimento agli indicatori di povertà.

(6) Le stime riportate in questo documento possono differire rispetto a quelle riportate in “I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2010” (Supplementi al Bollettino Statistico – nuova serie, Indagini campionarie, anno XXII, n.6) a causa di alcuni aspetti definitori.

(7) In questo documento, il capofamiglia è definito come il maggior percettore di reddito. A questa regola fanno eccezione le famiglie cipriote in cui il capofamiglia viene identificato come il rispondente al questionario. Tale scelta è dovuta all’assenza della maggior parte delle informazioni demografiche di base per tutti gli altri componenti della famiglia.

(8) L’informazione sul paese di origine dei componenti non è disponibile per le famiglie della Francia, dei Paesi Bassi e della Spagna.

(9) Contrariamente a quanto riportato in “I bilanci delle famiglie italiane nell’anno 2010”, in questa sede si considera il reddito al lordo di imposte e contributi (ed escludendo gli affitti imputati). Per l’Italia, dove l’indagine rileva presso le famiglie i redditi netti, è stato necessario aggiungere ai dati osservati una stima dei contributi e delle imposte (c.d. “lordizzazione”). La metodologia utilizzata per calcolare l’imposta sul reddito delle persone fisiche e le relative addiizionali comunale e regionale è costituita da un calcolo ricorsivo che consente di trovare il reddito lordo tale per cui, date le caratteristiche familiari e le diverse tipologie di reddito guadagnate e di patrimonio possedute da ciascun individuo, applicando la struttura dell’imposta si ottiene un reddito netto pari a quello dichiarato nell’indagine. Per i contributi sociali si è semplicemente applicata l’aliquota proporzionale specifica di ciascuna tipologia di lavoratore.

(10) Si utilizza qui la scala di equivalenza modificata dell’OCSE che prevede un coefficiente pari a 1 per il capofamiglia, 0,5 per i componenti con 14 anni e più e 0,3 per i soggetti con meno di 14 anni. Il reddito equivalente rappresenta il reddito di cui ogni individuo necessiterebbe se vivesse da solo per mantenere il medesimo tenore di vita della famiglia in cui vive.   

(11) In Italia le regioni del Centro e del Nord presentano un reddito equivalente medio di circa 39.000 euro, valore prossimo a quello dell’Austria e superiore a quello francese; per il Mezzogiorno, si riscontra un valore di 25.000 euro, di poco inferiore a quello di Grecia e Malta.

(12)   L’indice varia tra 0 e 1, dove 0 rappresenta la perfetta uguaglianza di tutti i redditi, e 1 il caso in cui tutti i redditi sono concentrati nelle mani di un'unica famiglia.

 

 

(*) Romina Gambacorta, Giuseppe Ilardi,  Banca d’Italia, Servizio Statistiche economiche e finanziarie, Andrea Locatelli, Banca d’Italia, Nucleo di ricerca economica di Bolzano, Raffaella Pico e Cristiana Rampazzi, Banca d'Italia, Servizio Studi di struttura economica e finanziaria.

CHE COSA VI HANNO RACCONTATO? I 200 MILIARDI DI BALLE DI CONTE, DRAGHI & C.

 

19 gennaio 2020

I dati del rapporto di Oxfam. L'Italia? Oltre il 30% degli occupati giovani guadagna oggi meno di 800 euro lordi al mese e 13% degli under29 versa in condizione di povertà lavorativa

La ricchezza globale, in crescita tra giugno 2018 e giugno 2019, resta fortemente concentrata al vertice della piramide distributiva: l’1% più ricco, sotto il profilo patrimoniale, deteneva a metà 2019 più del doppio della ricchezza netta posseduta da 6,9 miliardi di persone. Ribaltando la prospettiva, la quota di ricchezza della metà più povera dell’umanità - circa 3,8 miliardi di persone - non sfiorava nemmeno l’1%. Nel mondo 2.153 miliardari detenevano più ricchezza di 4,6 miliardi di persone, circa il 60% della popolazione globale. Il patrimonio delle 22 persone più facoltose era superiore alla ricchezza di tutte le donne africane. Se le distanze tra i livelli medi di ricchezza dei Paesi si assottigliano, la disuguaglianza di ricchezza cresce in molti Paesi. In Italia, il 10% più ricco possedeva oltre 6 volte la ricchezza del 50% più povero dei nostri connazionali. Una quota cresciuta in 20 anni del 7,6% a fronte di una riduzione del 36,6% di quella della metà più povera degli italiani.


In un mondo in cui il 46% di persone vive con meno di 5.50$ al giorno, restano forti le disparità nella distribuzione dei redditi, soprattutto per chi svolge un lavoro. Con un reddito medio da lavoro pari a 22$ al mese nel 2017, un lavoratore collocato nel 10% con retribuzioni più basse, avrebbe dovuto lavorare quasi tre secoli e mezzo per raggiungere la retribuzione annuale media di un lavoratore del top-10% globale. In Italia, la quota del reddito da lavoro del 10% dei lavoratori con retribuzioni più elevate (pari a quasi il 30% del reddito da lavoro totale) superava complessivamente quella della metà dei lavoratori italiani con retribuzioni più basse (25,82%).

È l’allarme lanciato oggi da Oxfam, organizzazione impegnata nella lotta alle disuguaglianze, in Time to care – Aver cura di noi (link), pubblicato alla vigilia del meeting annuale del World Economic Forum di Davos. Un dossier che getta nuova luce su un fenomeno che mette a repentaglio i progressi nella lotta alla povertà, mina la coesione e la mobilità sociale, alimenta un profondo senso di ingiustizia e insicurezza, genera rancore e aumenta in molti contesti nazionali l’appeal di proposte politiche populiste o estremiste.


“Il rapporto è la storia di due estremi. Dei pochi che vedono le proprie fortune e il potere economico consolidarsi, e dei milioni di persone che non vedono adeguatamente ricompensati i propri sforzi e non beneficiano della crescita che da tempo è tutto fuorché inclusiva. - ha detto Elisa Bacciotti, direttrice delle Campagne di Oxfam Italia - Abbiamo voluto rimettere al centro la dignità del lavoro, poco tutelato e scarsamente retribuito, frammentato o persino non riconosciuto né contabilizzato, come quello di cura, per ridarle il giusto valore”.


Dopo il rapporto Ricompensare Il lavoro, non la ricchezza del 2018, dedicato al lavoro sottopagato e a moderne e invisibili forme di sfruttamento nelle catene di valore globale, Time to Care-Aver cura di noi presta attenzione al lavoro domestico sottopagato e a quello di cura non retribuito che grava, globalmente, soprattutto sulle spalle delle donne. Uno sforzo enorme per garantire un diritto essenziale il cui valore è tuttavia scarsamente riconosciuto.


Basti pensare che:

  • Le donne a livello globale impiegano 12,5 miliardi di ore in lavoro di cura non retribuito ogni giorno, un contributo all’economia globale che vale almeno 10,8 trilioni di dollari all’anno, tre volte il valore del mercato globale di beni e servizi tecnologici;
  • nel mondo il 42% delle donne di fatto non può lavorare perché deve farsi carico della cura di familiari come anziani, bambini, disabili; solo il 6% degli uomini si trova nella medesima situazione;
  • in Italia, al 2018, l’11,1% delle donne non ha mai avuto un impiego per prendersi cura dei figli. Un dato fortemente superiore alla media europea del 3,7%, mentre quasi 1 madre su 2 tra i 18 e i 64 anni (il 38,3%) con figli under 15 è stata costretta a modificare aspetti professionali per conciliare lavoro e famiglia. Una quota superiore di oltre 3 volte a quella degli uomini;
  • le donne svolgono nel mondo più di tre quarti di tutto il lavoro di cura, trovandosi spesso nella condizione di dover optare per soluzioni professionali part-time o a rinunciare definitivamente al proprio impiego nell’impossibilità di conciliare i tempi di vita e di lavoro. Pur costituendo i due terzi della forza lavoro retribuita nel settore di cura - come collaboratrici domestiche, baby-sitter, assistenti per gli anziani – le donne sono spesso sotto pagate, prive di sussidi, con orari di lavoro irregolari e carichi psico-fisici debilitanti.

“Solo politiche veramente mirate a combattere le disuguaglianze potranno correggere il divario enorme che c’è tra ricchi e poveri. Tuttavia, solo pochissimi governi sembrano avere l’intenzione di affrontare il tema - ha detto Elisa Bacciotti, direttrice delle campagne di Oxfam Italia- È ora di ripensare anche il modo in cui il nostro modello economico considera il lavoro di cura. La domanda di questo tipo di lavoratori, non retribuiti o sottopagati, è destinata a crescere nel prossimo decennio dato che la popolazione globale è in aumento con percentuali di invecchiamento sempre più alte. Si stima che entro il 2030, avranno bisogno di assistenza 2,3 miliardi di persone, un incremento di 200 milioni di persone dal 2015. È urgente che i governi reperiscano, tramite politiche fiscali e di spesa pubblica più orientate alla lotta alle disuguaglianze, le risorse necessarie per liberare le donne dal lavoro di cura – servizi pubblici, infrastrutture - e affrontare seriamente le piaghe di disuguaglianza e povertà.”

DISUGUITALIA: NON UN PAESE PER GIOVANI
In Italia, i ricchi sono soprattutto figli dei ricchi e i poveri figli dei poveri: condizioni socio-economiche che si tramandano di generazione in generazione. L’edificio sociale ha un pavimento e soffitto “appiccicosi”: 1/3 dei figli di genitori più poveri, sotto il profilo patrimoniale, è destinato a rimanere fermo al piano più basso (quello in cui si colloca il 20% più povero della popolazione), mentre il 58% di quelli i cui genitori appartengono al 40% più ricco, manterrebbe una posizione apicale.


I giovani italiani che ambiscono a un lavoro di qualità devono fare oggi i conti con un mercato profondamente disuguale, caratterizzato, a fronte della ripresa dei livelli occupazionali dopo la crisi del 2008, dall’aumento della precarietà lavorativa e dalla vulnerabilità dei lavori più stabili. Oltre il 30% degli occupati giovani guadagna oggi meno di 800 euro lordi al mese. Il 13% degli under-29 italiani versa in condizione di povertà lavorativa. Un quadro d’insieme contraddistinto da carenze nell’orientamento, debolezze sistemiche nella transizione dalla scuola al mondo del lavoro, da un arretramento pluridecennale dei livelli retributivi medi per gli occupati più giovani, dalla sotto-occupazione giovanile, da un marcato scollamento tra la domanda e l’offerta di lavoro qualificato che costringe da anni tanti giovani laureati ad abbandonare il nostro Paese in assenza di posizioni lavorative qualificate e di prospettive di progressione di carriera.


“Tanti, troppi giovani italiani non studiano né lavorano, lavorano per una paga risibile, meditano di partire in cerca di un futuro migliore. –conclude Bacciotti - Servono interventi efficaci, per fare in modo che le giovani generazioni non siano lasciate indietro e al contrario siano, come è giusto, una risorsa per il nostro Paese. I giovani italiani reclamano un futuro più equo e aspirano a un profondo cambiamento della società, non più lacerata da disparità economico-sociali, ma più equa, dinamica e mobile: abbiamo la responsabilità di ascoltare le loro richieste”.


Oxfam Italia ne parlerà a Firenze, il 21 gennaio, presso Impact Hub (link event brite o evento FB) e a Roma, il 23 gennaio al Caffè delle Esposizioni (link event brite o evento FB). Due appuntamenti nel quadro del progetto People Have The Power, con il sostegno di AICS – Agenzia Italiana Cooperazione allo Sviluppo che approfondiranno i contenuti del Manifesto Per un Futuro Più Equo, scritto dai giovani di 12 territori italiani e rilanceranno temi e contenuti della campagna.

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CHE COSA VI HANNO RACCONTATO? I 200 MILIARDI DI BALLE DI CONTE, DRAGHI & C.

 

La ricchezza dei pochi non fa girare il mondo

Altro che flat tax, l’ Ocse certifica la necessità di un impianto impositivo a chiara vocazione redistributiva visto che la disuguaglianza risulta dannosa per la crescita di lungo periodo. Servirebbe una patrimoniale sulla ricchezza netta.

 

Il 10% più ricco della popolazione OCSE guadagna 9.5 volte il reddito del 10% più povero. Il rapporto negli anni ’80 era di 7 a 1.

I dati sulla crescita del reddito suggeriscono ulteriori aumenti di diseguaglianza. Piketty e Zucman hanno dimostrato che negli Stati Uniti tra 1980 e 2013 il reddito medio nazionale per adulto è cresciuto del 60% in termini reali, ma quello del 90% più povero è aumentato solo del 30% e per il 50% più povero non è cresciuto affatto: i redditi più alti crescono di più.

La ricchezza è ancor più iniquamente distribuita del reddito. In 18 paesi OCSE il 40% più svantaggiato detiene solo il 3% della ricchezza. Il 10% più in alto nella distribuzione detiene il 50% e l’1% più ricco ne detiene un quinto.

Sono i dati del rapporto OCSE “The role and Design of net wealth taxes in the OECD”(2018).

L’economia mainstream ha sempre sostenuto l’esistenza di un trade-off , una relazione inversa, tra crescita ed eguaglianza.

Per lasciar crescere l’economia bisognerebbe, almeno in un primo momento, accettare l’effetto collaterale dell’aumento della disparità per poi registrarne una diminuzione, grazie agli effetti positivi generalizzati dello sviluppo. Dopo un’effettiva riduzione tra gli anni ‘50 e ‘80, però, si registra un ritorno ai livelli di disuguaglianza di un secolo fa.

OCSE e FMI hanno a lungo raccomandato politiche di crescita affidate al ruolo dei mercati e alle “riforme strutturali” con una riduzione delle imposte e della spesa pubblica a sostegno della redistribuzione. Le politiche d’austerità adottate in risposta alla crisi del 2008 – limiti al deficit del bilancio pubblico, attenuazione della tassazione di attività finanziarie e ricchezza, privatizzazioni – hanno però ottenuto come risultato un aumento della disuguaglianza ed anche una stagnazione prolungata.

Secondo l’Economic Outlook dell’OCSE (2017) la crescita dell’economia mondiale sta aumentando leggermente ma resta sotto i livelli pre-crisi.

L’Italia in particolare, nonostante la riduzione di deficit e indebitamento e il rispetto dei vincoli strutturali, registra una crescita del PIL inchiodata al di sotto dell’1,5%, ben inferiore alla media europea.

D’altra parte, l’evidenza delle disparità distributive sta riacquistando centralità, dando spinta a un rinato interesse verso progressività e imposte patrimoniali.

L’OCSE stessa ha recentemente riconosciuto che la disuguaglianza risulta dannosa per la crescita di lungo periodo e che le politiche strutturali devono essere accompagnate da misure che distribuiscano in modo più equo i dividendi della crescita.

I principali fattori alla base della crescente iniquità indicati dal rapporto sono globalizzazione, liberalizzazione dei mercati, cambiamento tecnologico, concentrazione di impresa, declino delle occupazioni medio basse, innalzamento del potere contrattuale dei soggetti ad alto reddito, abbassamento dell’aliquota marginale sui redditi più elevati, sistema fiscale generalmente meno progressivo.

Secondo Piketty un fattore centrale è costituito da rendimenti del capitale superiori al tasso crescita del PIL e al conseguente aumento del rapporto capitale/lavoro. Fondamentale, quindi, il ruolo della ricchezza. Con il crescente ruolo assunto dalla finanza e le frequenti bolle speculative dei mercati finanziari e immobiliari, infatti, il valore della ricchezza è aumentato più velocemente della crescita del PIL favorendo l’aumento dei redditi più alti.

Nonostante i dati abbiano registrato una crescente diseguaglianza nelle distribuzioni del reddito e della ricchezza a partire dagli anni ‘80 del secolo scorso, tra gli anni ‘90 e ‘00 molti paesi hanno abrogato l’imposta patrimoniale sulla ricchezza netta e si è verificata una generale diminuzione dell’aliquota fiscale applicata alle fasce di reddito più elevate e ai redditi da capitale.

In particolare, secondo il rapporto, il valore medio non ponderato dell’aliquota dell’imposta sul reddito delle società è diminuita dal 47% al 24% tra il 1981 e il 2017. Quello dell’aliquota applicata ai dividendi dal 75 al 42%. Inoltre, nonostante i redditi crescano a un ritmo più elevato nella parte più alta della distribuzione rispetto a quanto accade nella parte bassa, si registra un abbassamento consistente dell’aliquota media IRPEF dei soggetti ad alto reddito: dal 65,7% nell’81 al 41,4% nel 2008.

Come dimostrato dal caso norvegese la tassazione della ricchezza può aumentare la progressività complessiva del sistema fiscale e, data la forte concentrazione nella parte più alta della distribuzione, anche un prelievo relativamente modesto potrebbe già risultare efficace.

Le sole tasse sui redditi da capitale non sembrano, invece, abbastanza per contrastare l’accumulazione della ricchezza, anche perché il rendimento residuo post tassazione generalmente non viene consumato dai contribuenti più ricchi, e viene invece reinvestito innescando un ulteriore processo di accumulazione della ricchezza.

Secondo il rapporto la ricchezza tende, quindi, ad auto-rigenerarsi. La propensione marginale al risparmio aumenta con il reddito. Maggiore risparmio consente maggiori investimenti, i cui rendimenti aumentano anch’essi all’aumentare della ricchezza. I contribuenti più ricchi hanno un assetto proprietario diversificato e possono più facilmente investire in attività maggiormente rischiose con tassi di rendimento più elevati. Inoltre, possono condurre una più appropriata gestione delle attività finanziarie e hanno maggiore accesso a servizi di pianificazione fiscale e a prestiti.

La ricchezza consolida il potere, e questo a sua volta consente di reinnescare il processo di accumulazione della ricchezza stessa. L’imposta sulla ricchezza netta è, però, la forma di tassazione meno ricorrente nei paesi OCSE. Vi fanno ricorso solo Canada, Francia, Lussemburgo, Norvegia, Spagna e Svizzera.

Più diffusa è l’imposta sulla proprietà immobiliare che ha un’ampia base imponibile, essendo la casa la principale forma di ricchezza nell’area OCSE. Molto diffuse anche le imposte su transazioni finanziarie, donazioni ed eredità – seppure l’Italia resta indietro su questo fronte, come spesso sottolineato da Sbilanciamoci!, sia in riferimento alla tassazione sulle transazioni finanziarie sia riguardo all’imposta sulle successioni.

Queste ultime, le imposte di successione, permettono di ridurre le disparità intergenerazionali e di aumentare l’eguaglianza di opportunità. Il rapporto riferisce che l’eredità cresce con reddito: gli anziani di oggi possiedono una maggiore ricchezza da lasciare in eredità rispetto ai loro predecessori. La ricchezza dei giovani dipende sempre di più dallo status dei genitori.

Differentemente dalle altre imposte sulla ricchezza personale, però, l’imposta sulla ricchezza netta colpisce la totalità dello stock di ricchezza – beni mobili, immobili, attività finanziarie – e riflette in modo più appropriato la capacità contributiva. Inoltre, risulta essere maggiormente progressiva di un’imposta applicata unicamente sugli immobili, poiché le attività finanziarie costituiscono una porzione molto ampia della ricchezza assorbita dalle fasce più alte di reddito.

L’imposta sulla ricchezza, diversamente dall’imposta sui redditi da capitale, viene determinata a prescindere dal rendimento effettivo ed equivale in linea teorica a tassare un presunto rendimento. In questo modo, dunque, si va implicitamente ad applicare un’imposta effettiva più bassa sulle attività ad alto rendimento rispetto a quella applicata alle attività basso rendimento che potrebbero essere dunque penalizzate.

E’ possibile, però, evitare effetti negativi sull’equità esentando alcune tipologie di depositi bancari, applicando soglie di esenzione che assicurino che solo le fasce più ricche della popolazione siano soggette all’imposizione, o modulando l’imposta con aliquote progressive.

In ogni caso vi sono due aspetti positivi legati alla tassazione degli asset anche in assenza di rendimento effettivo.

Il primo è l’incentivo ad una più produttiva gestione delle risorse, per cui la tassa patrimoniale sulla ricchezza netta potrebbe essere un efficiente sostituto della tassazione dei redditi da capitale. Il secondo è che la ricchezza procura dei vantaggi che vanno oltre al reddito derivante dalla ricchezza stessa. I contribuenti più ricchi hanno maggiori risorse a cui attingere e dovrebbero essere tassati con un’aliquota maggiore rispetto ai contribuenti con meno risorse, anche se guadagnano lo stesso reddito[1]. Infatti, oltre al reddito che genera senza sacrificio di tempo libero, la ricchezza può conferire status sociale, potere e maggiori opportunità.

Al di là degli aspetti più tecnici ciò che emerge dal rapporto è che, in assenza di un adeguato impianto impositivo a chiara vocazione redistributiva, la diseguaglianza tenderà a crescere pericolosamente. Questa è esattamente la tendenza a cui assistiamo da decenni nelle economie a capitalismo avanzato e in particolar modo a seguito dello scoppio della crisi del 2008. Emerge dunque la necessità di una patrimoniale strutturata che vada a contrastare e controbilanciare in modo deciso il processo di accumulazione della ricchezza.

[1] Riguardo all’Italia, Sbilanciamoci! si é ripetutamente espressa sulla necessità di valorizzare il principio della capacità contributiva e della progressività dell’imposizione fiscale sanciti dall’art.53 della Costituzione. Si veda il Bilancio di Fine Legislatura della Campagna Sbilanciamoci! – https://sbilanciamoci.info/un-bilancio-fine-legislatura/.

CHE COSA VI HANNO RACCONTATO? I 200 MILIARDI DI BALLE DI CONTE, DRAGHI & C.

 

PIL 2021 oltre il 5%, Debito ancora su a 2.677 miliardi – Tutte le stime Mazziero Research

PIL 2021 oltre il 5%, Debito ancora su a 2.677 miliardi – Tutte le stime Mazziero Research

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L’Osservatorio è stato pubblicato il 27 maggio.

 

 

 

Stime PIL 2021 e debito pubblico sino a dicembre 2021
(Costantemente aggiornate)

 

Gli ultimi aggiornamenti del 7 giugno riguardano:

  • Stima PIL 2° trimestre 2021: +2,0% (tra +1 e +4%)
  • Stima PIL 3° trimestre 2021: +2,6% (tra +1 e +4%)
  • Stima PIL 4° trimestre 2021: -1,2% (tra -3 e +1%)
  • Stima PIL 2021: +5,1% (tra +4 e +6%)
  • Stima debito pubblico a aprile 2021: 2.677 miliardi (aumento)
  • Stime debito pubblico a dicembre 2021: tra 2.679 e 2.728 miliardi
  • Spesa lorda per interessi sino a aprile 2021: 21,9 miliardi
  • Spesa lorda per interessi a fine 2021: 65,2 miliardi

 

 

Gli ultimi aggiornamenti del 5 giugno riguardano:

  • Fitch conferma il rating italiano a BBB- con outlook stabile

 

Gli ultimi aggiornamenti del 27 maggio riguardano:

  • Pubblicazione del 42° Osservatorio sui conti italiani
  • Stima PIL 2° trimestre 2021: +2,4% (tra +1 e +4%)
  • Stima PIL 3° trimestre 2021: +2,9% (tra +1 e +4%)
  • Stima PIL 4° trimestre 2021: -1,9% (tra -3 e +1%)
  • Stima PIL 2021: +4,7% (tra +4 e +6%)

 

 

Gli ultimi aggiornamenti del 14 maggio riguardano:

  • Dato ufficiale debito pubblico a marzo 2021: 2.651 miliardi

 

si vedano commenti e tabelle sotto.

 

Per scaricare immediatamente il 42° Osservatorio sui dati economici italiani CLICCARE QUI

L’Osservatorio è stato pubblicato il 27 maggio.

 

Debito Pubblico

 

Il commento della Mazziero Research

Ulteriore aumento del debito, che nella rilevazione di aprile dovrebbe portarsi a 2.677 miliardi (compreso nella forchetta tra 2.669 e 2685 miliardi).

Stimiamo una continuazione nella crescita sino a luglio per poi stabilizzarsi e concludere l’anno tra 2.679 e 2.728 miliardi.

Il grafico presenta con una linea rossa i dati ufficiali pubblicati da Banca d’Italia, e prosegue in grigio con i valori stimati dalla Mazziero Research.

La tabella di affidabilità indica le differenze tra i valori ufficiali e le stime precedentemente fatte dalla Mazziero Research.

 

La linea rossa verticale nella tabella di affidabilità indica il momento di revisione delle modalità del calcolo del debito da parte di Eurostat e l’innalzamento di circa 58 miliardi. Per uniformità abbiamo mantenuto inalterati i valori precedenti di stime e debito.

I dati ufficiali

Debito pubblico: 2.651 miliardi
Relativo a: marzo 2021
Pubblicato il: 14 maggio 2021

STIME Mazziero Research

La stima ad aprile 2021
2.677 miliardi (in aumento)
Intervallo confidenza al 95%
compreso tra 2.669 e 2.685 miliardi
Dato ufficiale verrà pubblicato il: 15 giugno 2021

La stima a dicembre 2021
Compreso tra 2.679 e 2.728 miliardi
Intervallo confidenza al 95%
Dato ufficiale verrà pubblicato a metà febbraio 2022

Analisi, stime e un’ampia rassegna dei dati economici italiani sono pubblicati nel 42° Osservatorio trimestrale dei dati economici italiani, pubblicato il 27 maggio 2021.

Stima PIL 2021

 

 

La forte ripresa economica e il progresso nella somministrazione dei vaccini ci porta a migliorare le stime per il 4° trimestre confidando in un impatto più contenuto di un eventuale ritorno dei contagi in autunno.

La stima per il PIL 2021 viene rivista al 5,1% dal 4,7%, valore che dovrà trovare conferma con il procedere dei trimestri da noi previsti al +2,0% per il secondo, +2,6% per il terzo e -1,2% per il quarto. 

 

Le stime verranno progressivamente riviste nel procedere dell’anno.

 

 

Il grafico mostra l’andamento del PIL trimestrale con base 100 a inizio 2008: gli istogrammi in grigio presentano la singola variazione trimestrale, mentre la linea rossa è una linea cumulativa delle variazioni trimestrali, in tratteggiato la parte relativa alle stime per il 2021.

 

Le scadenze dei titoli di Stato fino a dicembre 2021

 

 

La dinamica delle scadenze mensili dei titoli di Stato si è progressivamente appesantita a causa delle notevoli emissioni nel 2020, che ove possibile sono state distribuite anche sugli anni a venire.

I forti acquisti della BCE spazzano ogni timore di sostenibilità per le emissioni di titoli di Stato, perlomeno fino al termine del programma di emergenza fissato a marzo 2022. Tuttavia se si confrontano gli importi mensili in scadenza rispetto a due anni fa si nota che la struttura si è fortemente appesantita.

Si può osservare dal grafico come i mesi di giugno e settembre siano particolarmente impegnativi nei rinnovi, con il rischio che rendimenti in salita possano appesantire la futura spesa per interessi. Un rischio non remoto, visto che già oggi il rendimento del decennale italiano si è riportato vicino all’1%, con uno spread rispetto al Bund che sfiora i 120 punti base.

 

 

Spesa per Interessi

 

Spesa lorda sino a aprile 2021: 21,9 miliardi.
Stima Mazziero Research spesa lorda a fine 2021: 65,2 miliardi.

Stima spesa netta al 1° trimestre 2021: 12,3 miliardi.
Stima Mazziero Research spesa netta a fine 2021: 56,5 miliardi.


Nota esplicativa: Per spesa per interessi lorda si intende l’esborso per interessi come risultante dal conto di cassa della Ragioneria Generale; per spesa per interessi netta si intende il conguaglio tra interessi attivi e passivi e riportato nelle statistiche ufficiali dell’Istat.

 

 

Il grafico dei Rating e il calendario delle valutazioni nel 2021

 

 

Il 4 giugno a mercati chiusi, Fitch ha confermato il rating dell’Italia a BBB- con outlook stabile.

 

Di seguito il calendario degli appuntamenti aggiornato.

 

CHE COSA VI HANNO RACCONTATO? I 200 MILIARDI DI BALLE DI CONTE, DRAGHI & C.

 

Spreco di Stato: 12 miliardi di immobili pubblici sono inutilizzati

Spreco di Stato: 12 miliardi di immobili pubblici sono inutilizzati

Immobili pubblici - 283 miliardi in totale

Nessuno sa esattamente a quanto ammonti il patrimonio immobiliare pubblico, ma l’ultima stima ufficiale del ministero del Tesoro su dati del 2015 è di 283 miliardi di euro. L’80 per cento di questa sterminata lista di caserme, palazzi, uffici e appartamenti che copre 350 milioni di metri quadri è in mano agli enti locali. E ben 12 miliardi sono immobili “non utilizzati”. Che quindi rappresentano soltanto un costo, invece che una fonte di potenziali ricavi. Forse bisognerebbe anche indagare su altri 6 miliardi di euro di immobili pubblici che sono in uso gratuito a privati (alcuni con funzioni istituzionali, ma altri di tipo “residenziale e commerciale”), ma quei 12 miliardi di euro “non utilizzati” non hanno giustificazione.

Vendere o affittare gli immobili pubblici – in gergo “dismettere” e “valorizzare” – sembra una missione quasi impossibile. Ai tempi del secondo governo Berlusconi, nel 2001, il ministro dell’Economia Giulio Tremonti prova con le cartolarizzazioni: società veicolo private (Scip) che emettono obbligazioni per anticipare al Tesoro gli incassi dalla vendita di immobili di enti previdenziali. La Scip1 va bene, in attivo di 1,3 miliardi di euro, la Scip2 con 63.000 immobili invece no, nel 2009 scava un buco di 1,7 miliardi di euro a danno dello Stato, la società viene liquidata e gli enti previdenziali recuperano il patrimonio. Alla guida dell’Agenzia del demanio c’era una funzionaria già allora potente, Elisabetta Spitz, che da vent’anni ha il controllo della vendita del patrimonio pubblico. Tra 2004 e 2005 la Spitz tenta altre due operazioni, con i fondi Fip e Patrimonio 1: le amministrazioni pubbliche vendono gli immobili di proprietà ai fondi e poi li riaffittano. Lo Stato incassa subito 4,1 miliardi e si impegna a pagare 350 milioni di euro di affitti all’anno per nove anni. Alla scadenza del primo contratto, a fine 2013, lo Stato ha pagato 2,6 miliardi al fondo Fip e 280 milioni a Patrimonio 1. Praticamente ha restituito tutto quello che aveva incassato, ma nonostante questo si è impegnato ad altri nove anni di contratto, fino al 2021.

E allora si cambia ancora: nel 2013 nasce Invimit, Investimenti Immobiliari Italiani Sgr Spa, una società del ministero dell’Economia che ha il compito di “gestire, valorizzare e dismettere l’ampio patrimonio immobiliare pubblico, anche allo scopo della riduzione del debito pubblico”. Alla guida c’è ovviamente sempre lei, Elisabetta Spitz. La società ha una struttura più complessa delle precedenti, non possiede direttamente gli immobili ma gestisce fondi o fondi di fondi a cui le amministrazioni locali o gli enti previdenziali – dall’Inail alla Regione Lazio – conferiscono immobili di cui si vogliono liberare in cambio di risorse.

L’inizio è stentato: nel 2015 Invimit registra ricavi per commissioni di gestione di 2,7 milioni di euro, ma tra stipendi e consulenze spende 4,6 milioni. La Corte dei conti critica i troppi consulenti, il ministero del Tesoro deve ridurre il capitale sociale da 10 milioni a 5,7. Poi Invimit si riprende, riporta sotto controllo le consulenze, che scendono a 786mila euro nel 2016, e aumenta il patrimonio che gestisce: 1,3 miliardi di euro, 264 immobili. Ma nel 2017 Invimit ha venduto immobili soltanto per 48 milioni di euro, anche perché – in un ribaltamento completo della logica seguita quindici anni fa – la “dismissione” sembra molto meno allettante della “valorizzazione”: gli incassi dagli affitti sono di 27 milioni in un anno. La società rivendica comunque di aver contribuito a ridurre il debito pubblico per circa 400 milioni di euro, a tanto ammontano le risorse erogare agli enti locali in cambio degli immobili conferiti ai fondi di Invimit.

Forse anche perché i risultati che si ottengono vendendo immobili sono così contenuti, Invimit sembra scalpitare per fare altro. Il presidente Massimo Ferrarese, un imprenditore di Brindisi arrivato sulla poltrona in quota Angelino Alfano, a fine giugno si offriva addirittura di costruire con Invimit lo stadio della Roma, dopo che le inchieste giudiziarie avevano messo in dubbio il progetto: “Sono pronto a proporre al mio cda di intervenire direttamente con il fondo Valore Italia”, ha detto a Repubblica.

Il mandato dell’eterna Elisabetta Spitz (65 anni, 240.000 euro di stipendio annuo) è scaduto e ora il ministro Giovanni Tria deve decidere se concedere un altro triennio alla signora del demanio. Finora Invimit è stata l’ultima trincea degli inamovibili del potere ministeriale: quando il potente capo di gabinetto del Tesoro, Vincenzo Fortunato, è stato cacciato dall’arrivo dei renziani, ha ripiegato sulla presidenza di Invimit. E anche ora che non è più presidente il suo studio legale continua ad avere una piccola consulenza da 15.000 euro. Poi c’è Susanna Masi: ha perso l’incarico di consigliere del ministro Padoan dopo che la Procura di Milano l’ha indagata con l’accusa di passare informazioni riservate sul fisco alla società Ernst & Young in cambio di 220.000 euro, ma ha tenuto la poltrona di presidente del collegio sindacale di Invimit (20.000 euro), oltre che di quello di una società concorrente privata, Dea Capital.

Il governo Conte ha già avviato il rinnovamento nel comparto con la sostituzione, due giorni fa, del renziano Roberto Reggi all’Agenzia del demanio: al suo posto andrà il prefetto Riccardo Carpino, 61 anni, che è stato capo di gabinetto al ministero degli Affari regionali dal 2008 al 2013.

CHE COSA VI HANNO RACCONTATO? I 200 MILIARDI DI BALLE DI CONTE, DRAGHI & C.

 Paradosso Italia, dove la ricchezza sembra povertà - Il Sole 24 ORE

CHE COSA VI HANNO RACCONTATO? I 200 MILIARDI DI BALLE DI CONTE, DRAGHI & C.

 

Patrimonio pubblico da mille e una notte, ma poco utilizzato

Il patrimonio pubblico reale italiano ammonta a 476 miliardi di euro. Una ricchezza cospicua: scomporla nelle sue varie componenti ci fa capire come potremmo utilizzarla per ridurre il debito pubblico. A partire dai progressi degli ultimi anni.

Il patrimonio per abbattere il debito pubblico

Da tempo al centro dell’attenzione, il debito pubblico viene dipinto come il termometro della nostra sostenibilità fiscale. Quando la fiducia dei mercati riguardo alla possibilità di onorare i nostri debiti viene meno, facciamo più fatica a reperire credito, pagando più interessi e appesantendo ulteriormente il nostro bilancio pubblico. Ma cosa succede se ci spostiamo dall’altra parte della bilancia e andiamo ad analizzare le attività, anziché le passività in questione?

Tra le proposte di abbattimento di debito pubblico, spunta sempre l’idea di vendere parte del nostro patrimonio pubblico, soprattutto quello immobiliare. L’operazione, tuttavia, è complicata e le somme che finora sono state reperite (2,6 miliardi tra il 2015 e il 2017) appaiono di tutt’altra entità rispetto alle cifre del debito. Limitarsi a questo aspetto è inoltre limitante. Come già affermato da Tito Boeri e Giuseppe Pisauro, il vero problema del patrimonio pubblico è il basso rendimento. La proposta in ballo, allora, era la valorizzazione di tale ricchezza, oltre che la razionalizzazione del patrimonio effettivamente utilizzato. Ma qual è la situazione oggi?

Qualche dato per capire il fenomeno

In prima battuta è utile avere uno sguardo d’insieme sulla situazione patrimoniale italiana. Guardando al patrimonio netto delle amministrazioni pubbliche in percentuale al Pil (figura 1), possiamo notare che la capacità del nostro paese di usare il proprio patrimonio per far fronte ai debiti è ben al di sotto della media dei paesi sviluppati e in tendenziale caduta.

Figura 1

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Gli asset che compongono il patrimonio pubblico si dividono in finanziari e non finanziari. Mentre i primi sono mediamente più liquidi e valutabili con maggiore certezza, è proprio l’insieme di quelli fisici che costituisce la base della discussione strategica più controversa e problematica. Basti pensare al fatto che una gran parte del patrimonio è utilizzata per le attività che lo stato svolge quotidianamente. Nel 2016, il totale delle attività non finanziarie che appartenevano al settore pubblico valeva 476 miliardi di euro, composti per il 72 per cento di immobili e per il 25 per cento di altri beni di capitale fisso (come impianti, macchinari, mezzi di trasporto e brevetti). Infine, quasi 10 miliardi sono costituiti da terreni.

Grafico 1

Per quanto riguarda gli immobili (inclusi i terreni), l’ultimo rapporto stilato dal ministero del Tesoro ci dice che il 73 per cento di questi appartiene alle amministrazioni locali, di cui il 67 per cento ai comuni. Le amministrazioni centrali ne controllano appena il 3,65 per cento. Di questi, tuttavia, solo il 38 per cento per quelle centrali e l’8 per cento per quelle locali appartiene al patrimonio disponibile (e quindi alienabili). Le amministrazioni locali dichiarano di non utilizzare l’8 per cento di tale patrimonio e quelle centrali addirittura il 19 per cento (benché siano stati spesi 830 milioni in locazioni passive). Di quest’ultima categoria, il 72 per cento consiste in unità residenziali e il restante in unità istituzionali, come caserme, scuole, uffici e fabbricati. Se a questo aggiungiamo che soltanto il 56 per cento degli edifici utilizzati è fonte di ricavi perché dato in uso a titolo oneroso, il perimetro di quanto effettivamente può rendere dal punto di vista finanziario è piuttosto limitato.

Se ci si concentra sui terreni invece (detenuti al 97 per cento dalle amministrazioni locali), la quota di quelli agricoli, boscati e di pascolo non utilizzati, oltre a essere quantitativamente molto rilevante, è molto più alta rispetto alle aree urbane.

Grafico 2

È proprio della problematica dello scarso utilizzo del patrimonio immobiliare che si occupa un recente report dell’Osservatorio dei conti pubblici italiani, che fornisce qualche informazione in più sulla metratura e le grandezze finanziarie in questione. Ricordando che si tratta comunque di stime basate su un 70 per cento di amministrazioni adempienti, si può osservare che il valore a prezzi di mercato dei 2,3 milioni di immobili censiti ammontava a 283 miliardi di euro, di cui solo il 7 per cento usato per fini residenziali o commerciali. E a proposito di sprechi, 9 miliardi di immobili istituzionali risultano inutilizzati, di cui più di un terzo della superficie coperta ha un valore patrimoniale nullo a meno di non avviare attività di valorizzazione urbanistica. Per quanto riguarda gli immobili commerciali, circa 3 miliardi sarebbero invece completamente inutilizzati.

Infine non va dimenticato il patrimonio dell’edilizia residenziale pubblica, gestito in maggior parte da 80 soggetti pubblici territoriali: oltre 800mila appartamenti, di cui una buona parte considerati vendibili, in quanto non più categorizzabili come “popolari” e quindi abitati da inquilini che non vi hanno più diritto. Secondo la Corte dei conti nel 2007 il 40 per cento degli immobili non era più di categoria popolare, ma civile. Altre stime più recenti parlano invece di 100 mila immobili vendibili (anche agli stessi inquilini) per i criteri già esposti.

I nodi vengono al pettine?

Se la quota di immobili realmente disponibili per essere fatti fruttare è poca e, oltretutto, molti di questi sono rimasti inutilizzati, cosa si è fatto in questi anni per migliorare la situazione? Si sta andando nella direzione giusta?

Alcuni passi in avanti sono stati fatti. Dal 2012 i metri quadri per dipendente sono stati fissati a un massimo di 20/25. E a seguito del decreto legislativo 66 del 2014, seppur ancora molto lontano dagli obiettivi fissati, si è ridotto di 100 milioni in tre anni il totale degli affitti pagati dalla pubblica amministrazione. Negli ultimi anni, inoltre, Agenzia del Demanio ha acquisito sempre maggiore autonomia e potere gestionale su parte di questo patrimonio. C’è poi stato uno spostamento strategico dall’obiettivo di vendita per abbattere il debito pubblico al concetto di valorizzazione. Secondo il report dell’Agenzia del Demanio sono 43mila (tra fabbricati e terreni) i cespiti gestiti, per un valore di 60,5 milioni di euro. In questi ultimi anni, oltre alla dismissione mirata di circa 4mila immobili non strategici, si è deciso di valorizzare il patrimonio attraverso investimenti e manutenzione. Il patrimonio in gestione al Demanio si è infatti rivalutato di circa 3 miliardi in tre anni. Molti immobili sono poi stati trasferiti gratuitamente a enti locali per progetti di sviluppo e riqualificazione (per il cosiddetto federalismo demaniale, che solo nel 2018 ha ceduto immobili per un valore di quasi due miliardi). Infine, il progetto di riqualificazione energetica, per cui saranno investiti 1,5 miliardi nei prossimi anni, porterà a una notevole riduzione dei costi di gestione di questi immobili (stimata in 275 milioni di euro).

Ma non solo, altri attori stanno giocando un ruolo importante nel processo. In prima battuta, Cassa depositi e prestiti, che ha operato in questi anni come “market maker” e, con il sostegno operativo di Cdp Investimenti Sgr, sta investendo risorse e denaro per la valorizzazione del patrimonio pubblico. Di particolare rilevanza sono due fondi comuni di investimento, lanciati da pochi anni. Da una parte, il fondo di investimenti per il turismo, che, attraverso una dotazione di 250 milioni, riqualifica parte del nostro patrimonio per rilanciare il turismo. Dall’altra, il fondo di investimenti per la valorizzazione (diviso in comparto “core” ed “extra”), che, con quasi 300 milioni a disposizione, si occupa di processi di valorizzazione urbanistica o edilizia di immobili per la loro successiva vendita o messa a reddito. Da segnalare è poi il ruolo di Invimit Sgr, società a partecipazione pubblica che detiene oltre un miliardo di euro di patrimonio pubblico. Il patrimonio in dotazione, destinato a valorizzazione, razionalizzazione o dismissione, è cresciuto consistentemente negli ultimi anni, così come i fondi comuni di investimento attivati (attualmente nove). In sostanza, il cammino è ancora lungo, ma le realtà in gioco sono varie e stanno già maturando risultati convincenti.

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