CHE COSA VI HANNO RACCONTATO? I 200 MILIARDI DI BALLE DI CONTE, DRAGHI & C.

 

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Figura 5 L’andamento della concentrazione della ricchezza in Italia: La quota di ricchezza personale netta detenuta dal top 1% più ricco della popolazione

Figura 5 L’andamento della concentrazione della ricchezza in Italia: La quota di ricchezza personale netta detenuta dal top 1% più ricco della popolazione

Fonte: A) La serie in basso è stata elaborata a partire dall’archivio storico dell’Indagine campionaria sui Bilanci delle Famiglie, Banca d’Italia. Si riferisce alla
ricchezza personale degli adulti (oltre 20 anni) calcolata a partire dall’indagine dei Bilanci delle Famiglie, Banca d’Italia. La variabile della ricchezza netta delle famiglie è allocata agli individui ed è aggiustata stimando le riserve accumulate nei conti pensione e nei fondi assicurativi privati. La ricchezza netta esclude i beni durevoli (es. automobili e elettrodomestici). B) La serie in alto rappresenta le stime preliminari del lavoro in corso a cura di P. Acciari F. Alvaredo e S. Morelli, Personal Wealth Concentration in Italy: 1995-2016.8 ed è stata calcolata a partire dai micro dati amministrativi sugli assi ereditari dichiarati ai fini degli accertamenti per le imposte di successione. Questi dati sono stati aggiustati imputando, per ogni classe di attivi e passivi, la ricchezza mancante rispetto agli aggregati di contabilità nazionale (in media i dati coprono circa l’80% del valore aggregato dei conti nazionali). La ricchezza della popolazione mancante è imputata con l’uso dell’indagine campionaria sui bilanci delle famiglie. Entrambe le serie si riferiscono all’1% degli adulti più ricchi e utilizzano un concetto simile di ricchezza.

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I paradisi fiscali sono come i buchi neri nello spazio.

I soldi entrano e non abbiamo nessuna idea di che fine facciano.

È possibile fare solo dei calcoli approssimativi.
Due sono le stime più citate dal mondo scientifico e dai media internazionali:

  • quella di Gabriel Zucman, economista francese e professore alla Berkeley University;
  • quella di James Henry, consulente di Tax Justice Network ed ex direttore della ricerca economica della società internazionale di consulenza McKinsey & Co.

.

  • Stima di Zucman: pari alla somma dei Pil di Germania, Italia, Francia e Messico.
  • Stima di Henry: almeno quanto la somma dei Pil di Germania, Italia, Francia, Regno Unito, Spagna, Russia, Giappone, India, Brasile, Canada e Australia.

Perché due stime così diverse?

Non essendoci dati reali sui capitali investiti attraverso i paradisi fiscali, i due economisti hanno fatto deduzioni su differenti dati finanziari globali disponibili attraverso due diversi metodi:

Di quali soldi stiamo parlando?

Nelle stime fatte da James Henry e Gabriel Zucman viene conteggiata esclusivamente la “ricchezza finanziaria”, vale a dire i soldi portati all'estero da privati e messi in depositi bancari oppure investiti in titoli finanziari (come azioni e obbligazioni) e in fondi di investimento. Soldi mai dichiarati al Fisco.
Nella stima generale sono esclusi tutti i profitti delle multinazionali dirottati offshore e tutti i beni mobili e immobili, come gioielli, yacht, opere d'arte e case di lusso.

Di chi sono questi soldi?

Henry sostiene che l’85-90% della ricchezza finanziaria nascosta offshore sia nelle mani di meno di 10 milioni di persone (cioè lo 0,14% della popolazione mondiale). Secondo Zucman la quantità di denaro nascosto offshore è in aumento, nonostante il numero assoluto delle persone che nasconde i soldi sia in calo. In altre parole: i paradisi fiscali sono meno affollati, ma quelli che li frequentano sono sempre più ricchi.

I banchieri non hanno problemi ad adattarsi a questa tendenza, riorientando le loro attività su questi clienti chiave: «Il sistema bancario offshore - scrive Zucman - diventa più sofisticato. Gli ultraricchi usano sempre più spesso società di comodo, trust, holding e fondazioni che fungono da proprietari legali dei loro attivi».

La ricchezza offshore non ha risentito della crisi. Secondo Zucman ha registrato a livello mondiale un aumento di circa il 25% tra la fine del 2008 e l'inizio del 2014, con un incremento riscontrato soprattutto nei centri emergenti asiatici, come Hong Kong e Singapore. Il dato sorprendente è che gli afflussi non provengono dal ricco Occidente ma soprattutto dai Paesi in via di sviluppo.

Da dove vengono questi soldi?

Aree Ricchezza offshore
(miliardi di dollari)*
Quota ricchezza finanziaria offshore
(%)
Perdita gettito fiscale
(miliardi di dollari all'anno)**
Europa 2.500 11 60
Stati Uniti 1.400 4 32
Asia 1.300 4 28
America Latina 1.000 27 21
Africa 900 44 19
Paesi del Golfo 700 58 0
Russia 600 54 4
Canada 300 9 6

*Calcolo al 2016 che include un solo tipo di frode: quella sul patrimonio e sul reddito da esso generato. La parte del denaro che proviene da lavoro nero, traffico di droga, tangenti e false fatturazioni non è conteggiato in questa stima.
**Miliardi di dollari persi ogni anno dalle tasse sul capitale nascosto offshore (cioè le perdite annuali dagli interessi, dai dividendi, dai capital gains, dalle eredità...ecc.).
Fonte: gabriel- zucman.eu

L’economia europea è quella che paga il prezzo più alto in termini assoluti, ma in termini relativi sono i Paesi in via di sviluppo a essere i più penalizzati. La loro quota di patrimonio detenuta all’estero va dal 27% dell'America Latina, al 54% della Russia e al 58% dei Paesi del Golfo.

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10. Ridurre le Disuguaglianze

 

Perché occuparsi di disuguaglianza?

di Chantal Line Carpentier[1], Richard Kozul-Wright[2] e Fabio David Passos[3]

Le trattative di Rio+20 hanno avuto inizio nel 2008, sullo sfondo della crisi finanziaria, che rese evidente che le ineguaglianze sociali e ambientali manifestatesi in anni recenti non potevano più essere trattate come problematiche a sé stanti oppure affrontate a una a una e nemmeno dai singoli paesi con le loro sole forze. Nonostante la rapida crescita delle esportazioni, il notevole afflusso di capitali e l’alto costo delle materie prime nei paesi in via di sviluppo, i guadagni derivanti da tali attività hanno incontrato una redistribuzione non uniforme e molti tra i paesi e le comunità più poveri sono rimasti per questo motivo più esposti a shock e inversioni di tendenza. La crisi ha coinciso con l’inizio di un rallentamento della crescita, la redistribuzione dei guadagni in favore di un privilegiato 1% e l’esplosione del debito nel settore privato, generando non solo diffusi sensi di colpa ma anche preoccupazioni circa la fragilità del patto sociale.

Si era deciso che gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs) avrebbero dovuto avere carattere universale ed essere di più ampio respiro rispetto agli Obiettivi di sviluppo del millennio (MDGs) in modo tale da racchiudere un più ampio spettro di differenze socioeconomiche foriere di ineguaglianza.

La portata della disuguaglianza

Rispetto a 30 anni fa, l’assenza di equità nella distribuzione dei redditi si è diffusa in un numero allarmante di paesi e, dalla fine della Seconda guerra mondiale, si è attestata ai livelli più alti nei paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (OCSE).  Le disparità di reddito risultano inoltre più evidenti se abbinate a una distribuzione della ricchezza non omogenea, specie in paesi con livelli di ineguaglianza già elevati, come gli Stati Uniti. Perfino in paesi di tradizione più ugualitaria come Germania, Danimarca e Svezia, si è assistito a un accentuarsi del divario tra ricchi e poveri.

Gli economisti hanno istituito una relazione tra globalizzazione e convergenza del reddito e la tendenza rilevata va chiaramente nel senso di una riduzione delle ineguaglianze di reddito tra i paesi dovuta, da un lato, al rallentamento nella crescita dei paesi più ricchi e, dall’altro, alla rapida crescita sostenibile in Cina e, più recentemente, in India. Ad ogni modo, la tendenza è meno marcata rispetto a quanto molti avessero inizialmente previsto (The Economist, 2014). Senza contare che, di recente, l’impulso alla crescita nei paesi in via di sviluppo ha coinciso con l’aumento contestuale dei livelli di ineguaglianza fino a raggiungere, o in alcuni casi superare, i livelli delle economie più avanzate.

Conciliare queste ineguaglianze interne o reciproche tra stati non è compito facile malgrado il fatto che, tutto sommato, stando ad alcune stime, il coefficiente di Gini globale si sia ridotto negli ultimi 20 anni (Lakner e Milanovic, 2013); questo è in larga parte dovuto al contrarsi del reddito dei lavoratori nei paesi più avanzati. Ciononostante, e fatta eccezione per i paesi meno egualitari, il dato continua a superare in misura non trascurabile il livello di ineguaglianza interno ai singoli paesi.

La comprensione delle dinamiche legate all’ineguaglianza e delle loro ripercussioni all’interno dei singoli paesi nonché nei loro rapporti reciproci costituisce una delle maggiori sfide per gli studiosi ed è tra gli argomenti al centro dell’agenda per lo sviluppo post-2015.

Perché parlare di disuguaglianza?

È evidente che l’ineguaglianza può rappresentare una seria minaccia alla stabilità sociale e politica. È altresì opinione sempre più diffusa che possa minare la crescita sostenibile. Come emerso da uno studio del Fondo monetario internazionale (FMI), un maggiore equilibrio nella distribuzione dei redditi prolungherebbe gli effetti delle misure adottate dagli stati per la crescita economica più di altre variabili quali il libero scambio, bassi livelli di corruzione del governo, gli investimenti esteri e un debito estero non elevato (Berg e Ostry, 2011). Esistono studi che indagano le relazioni tra l’aumento dell’ineguaglianza e l’insorgere di shock o crisi economiche (Bordo e Meissner, 2012), un parallelismo che sembrerebbe strettamente connesso con l’importanza crescente, a livello economico e politico, dei flussi finanziari e dei mercati non regolamentati (UNCTAD, Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, 2012).

L’ineguaglianza mette a repentaglio il conseguimento degli obiettivi economici di ampio respiro proposti dall’Open Working Group (OWG) on Sustainable Development Goals dell’Assemblea Generale, tra i quali figurano l’eradicazione della povertà, la valorizzazione della dignità del lavoro e la modernizzazione delle strutture economiche.  L’ineguaglianza non ha nulla a che fare con il destino o con la fortuna e può essere contrastata con politiche e riforme mirate, come evidenziato da Thomas Piketty in una sua recente ricerca dal carattere innovativo.  Se la ricerca di soluzioni adeguate spetta ai decisori politici nazionali e regionali, ricoprono un ruolo fondamentale anche le azioni e le misure collettive promosse a livello internazionale.

SDG 10:  Ridurre le disuguaglianze all’interno di e fra le Nazioni entro il 2030

L’Open Working Group (OWG) ha proposto un obiettivo focalizzato proprio sull’ineguaglianza, che si articola in 7 target e tre potenziali metodi per realizzare tali intenti. Il primo target mira ad accelerare l’aumento del reddito della popolazione delle fasce più basse (pari al 40% della popolazione totale), superando la crescita media nazionale; il secondo punta all’empowerment, all’inclusione sociale ed economica di tutti i cittadini senza discriminazioni di razza, etnia o status economico; il terzo, infine, si propone di garantire pari opportunità e di ridurre le ineguaglianze di risultato partendo dall’eliminazione delle discriminzioni attraverso politiche e azioni adatte allo scopo.

Altri quattro target si concentrano sull’adozione progressiva di politiche per la promozione di una maggiore uguaglianza avvalendosi di: politiche fiscali, regolamentazione e controllo delle istituzioni e dei mercati finanziari globali, politiche per l’incentivazione di aspetti quali l’ordine, la sicurezza e la responsabilità nei flussi migratori e politiche a difesa della mobilità delle persone, oltre alla questione della giusta ammissione di rappresentanti dei paesi in via di sviluppo al sistema della governance globale e la garanzia di espressione degli stessi.

I mezzi proposti per l’implementazione di tali azioni sono vaghi e si fatica a quantificare e a sviluppare indicatori capaci di misurare i risultati nel senso di una riduzione dell’ineguaglianza. Ecco perché sono necessarie ulteriori riflessioni in merito. Tra le possibili azioni proposte ricordiamo:  1) affermare il principio di adozione di un trattamento speciale e differenziale per i paesi meno progrediti; 2) fornire assistenza ufficiale allo sviluppo e incoraggiare i flussi finanziari, inclusi gli investimenti diretti all’estero (IDE) verso paesi in condizioni speciali, quali i paesi meno progrediti, i paesi Africani, piccoli stati insulari in via di sviluppo e paesi in via di sviluppo senza vie di accesso al mare; 3) ridurre il costo del trasferimento delle rimesse degli emigrati e mantenerlo al di sotto del 5%.

È plausibile pensare di raggiungere questo obiettivo entro il 2030?

Il successo dei target e dei mezzi scelti per realizzare gli SDG 10 e 17 ai fini della riduzione dell’ineguaglianza entro il 2030 dipenderà dall’affidabilità degli indicatori selezionati per la direzione e il controllo del processo, nonché dall’effettiva volontà politica di cooperare a livello regionale e internazionale per riequilibrare il sistema globale e rafforzare la coerenza delle politiche adottate.

Affrontare le ineguaglianze tra paesi richiede un potenziamento dell’impegno politico e fiscale a livello nazionale al fine di poter dare avvio a una serie di politiche combinate con l’obiettivo di risollevare la situazione generale e, in particolare, di aumentare il reddito di coloro che occupano le fasce più basse della società. Due variabili fondamentali sono il lavoro e gli stipendi. La creazione di posti di lavoro rimane l’unica strategia per combattere efficacemente la povertà su base sostenibile, specie quando la forza lavoro è in rapida crescita. L’aumento dei salari è anche necessario per potenziare la domanda interna, riconosciuta ormai come componente essenziale di una crescita sostenibile (UNCTAD, 2013). I paesi dovranno dotarsi di infrastrutture adeguate e raggiungere una capacità produttiva tale da creare le condizioni per un’economia maggiormente diversificata; per fare questo bisognerà liberarsi dalla dipendenza dalle materie prime e perseguire obiettivi in attività industriali diversificate in attuazione della politica industriale.

Per far fronte agli squilibri derivanti dal sistema economico internazionale sarà necessario adottare riforme globali rivolte al sistema finanziario, degli investimenti e del commercio, ma anche al sistema monetario e fiscale al fine di ridurre la volatilità. La stipula di apposite convenzioni internazionali contro l’elusione e l’evasione fiscale (in quanto dissuasori della concorrenza fiscale) e contro il ricorso ai paradisi fiscali per aggirare gli oneri di tipo fiscale consentirebbe di finanziare progetti di investimento a lungo termine utili per portare avanti con profitto un percorso di sviluppo diffuso e sostenibile.  Una percentuale compresa tra l’8 e il 15% della ricchezza finanziaria netta delle famiglie è infatti attualmente custodita nei paradisi fiscali, provocando una perdita di entrate pubbliche compresa tra 190 e 290 miliardi di dollari americani su base annua.  La metà di questi proviene dai paesi in via di sviluppo, che sono altresì passibili di perdite che superano i 160 miliardi di dollari annui per un uso improprio del transfer pricing o della cosiddetta thin capitalization (sottocapitalizzazione) a causa del trasferimento degli utili contabili verso paesi a tassazione agevolata o assente. Al fine di mobilitare le risorse interne, si potrebbe provvedere a rendere obbligatoria e ampliare l’Iniziativa sulla trasparenza delle industrie estrattive (EITI).

Mentre una riforma di portata globale darà risultati solo sul lungo termine, a livello regionale si potrebbe intervenire in favore di una maggiore stabilità con regolamenti e istituzioni alternativi in grado di salvaguardare i paesi contro shock finanziari, senza prescindere dal potenziamento delle capacità degli individui, da una cooperazione interna ai paesi del Sud del mondo e da una cooperazione triangolare oltre che in ambito fiscale. Ad esempio, l’ascesa della Cina è stata possibile grazie a controlli selettivi dei movimenti dei capitali, a politiche fiscali anticicliche e politiche monetarie attive miranti a mantenere i tassi di cambio stabili, oltre a una serie di politiche industriali attive; si tratta di misure che si spingono oltre a una semplice attenzione alla crescita del PIL (UNCTAD, 2013).

In conclusione, un quadro generale di politiche integrate che rifletta tutti i modelli di sviluppo e garantisca coerenza nel perseguimento degli obiettivi è necessario per garantire che questi, siano essi di tipo sociale, economico o ambientale, possano interagire con successo.

 

Note

[1] Direttrice dell’ufficio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) a New York.

[2] Capo della Divisione Globalizzazione e Strategie per lo sviluppo dell’UNCTAD

[3] Tirocinante presso l’UNCTAD e studia International Economic Politics and Financial Markets presso la School of Professional Studies, Center for Global Affairs, New York University

 

Riferimenti bibliografici

– Berg, Andrew G. e Ostry, Jonathan D.,  Inequality and Sustainable Growth:  Two sides of the Same Coin? Washington D.C., 2013:  Fondo Monetario Internazionale (FMI). IMF Staff Discussion Note SDN/11/08 (8 aprile).

– Bordo, M. e Meissner, C.M., Does inequality lead to a financial crisis?, 24 marzo 2012. Center for Economic and Policy Research (CEPR)’s Policy Portal.

– C.W. “Why globalization may not reduce inequality in poor countries”  The Economist explains, 2 settembre 2014. Disponibile al seguente link

– Lakner, C. e Milanovic, B. Global income distribution: from the fall of the Berlin Wall to the great recession, vol. 1 Policy Research Working Paper, No. 6719. Washington D.C., 2013:  Banca Mondiale.

– Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE)

– Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising,  dicembre 2011.

– Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) World Investment Report 2011:  Non-equity Modes of International Production and Development Sales No. E.11.ii.D. 2. Disponibile al seguente link

– Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) Trade Financing and Regional Financial Institutions from a South–South Perspective. Trade and Development Board. Investment, Enterprise and Development Commission Multi-year Expert Meeting on International Cooperation: South–South Cooperation and Regional Integration, Geneva, 24-25 ottobre 2012. Distr.: General 15 agosto 2012. TD/B/C .II/MEM.2/11. Disponibile sul seguente link

– Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD)

– Growth and Poverty Eradication: Why Addressing Inequality Matters. Post-2015 Policy Brief, no. 02, Novembre 2013. New York e Ginevra. Disponibile all seguente link

– Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) Sito web della 61esima sessione del Comitato per il commercio e lo sviluppo dell’UNCTAD (Trade and Development Board) Disponibilesul seguente link

 

Pubblicato per la prima volta nel UN Chronicle, Dipartimento della Pubblica Informazione, Nazioni Unite.

 

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