Perché occuparsi di disuguaglianza?
di Chantal Line Carpentier[1], Richard Kozul-Wright[2] e Fabio David Passos[3]
Le trattative di Rio+20 hanno avuto inizio nel 2008, sullo sfondo
della crisi finanziaria, che rese evidente che le ineguaglianze sociali e
ambientali manifestatesi in anni recenti non potevano più essere
trattate come problematiche a sé stanti oppure affrontate a una a una e
nemmeno dai singoli paesi con le loro sole forze. Nonostante la rapida
crescita delle esportazioni, il notevole afflusso di capitali e l’alto
costo delle materie prime nei paesi in via di sviluppo, i guadagni
derivanti da tali attività hanno incontrato una redistribuzione non
uniforme e molti tra i paesi e le comunità più poveri sono rimasti per
questo motivo più esposti a shock e inversioni di tendenza. La crisi ha
coinciso con l’inizio di un rallentamento della crescita, la
redistribuzione dei guadagni in favore di un privilegiato 1% e
l’esplosione del debito nel settore privato, generando non solo diffusi
sensi di colpa ma anche preoccupazioni circa la fragilità del patto
sociale.
Si era deciso che gli Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs)
avrebbero dovuto avere carattere universale ed essere di più ampio
respiro rispetto agli Obiettivi di sviluppo del millennio (MDGs) in modo
tale da racchiudere un più ampio spettro di differenze socioeconomiche
foriere di ineguaglianza.
La portata della disuguaglianza
Rispetto a 30 anni fa, l’assenza di equità nella distribuzione dei
redditi si è diffusa in un numero allarmante di paesi e, dalla fine
della Seconda guerra mondiale, si è attestata ai livelli più alti nei
paesi dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo (OCSE). Le
disparità di reddito risultano inoltre più evidenti se abbinate a una
distribuzione della ricchezza non omogenea, specie in paesi con livelli
di ineguaglianza già elevati, come gli Stati Uniti. Perfino in paesi di
tradizione più ugualitaria come Germania, Danimarca e Svezia, si è
assistito a un accentuarsi del divario tra ricchi e poveri.
Gli economisti hanno istituito una relazione tra globalizzazione e
convergenza del reddito e la tendenza rilevata va chiaramente nel senso
di una riduzione delle ineguaglianze di reddito tra i paesi dovuta, da
un lato, al rallentamento nella crescita dei paesi più ricchi e,
dall’altro, alla rapida crescita sostenibile in Cina e, più
recentemente, in India. Ad ogni modo, la tendenza è meno marcata
rispetto a quanto molti avessero inizialmente previsto (The Economist,
2014). Senza contare che, di recente, l’impulso alla crescita nei paesi
in via di sviluppo ha coinciso con l’aumento contestuale dei livelli di
ineguaglianza fino a raggiungere, o in alcuni casi superare, i livelli
delle economie più avanzate.
Conciliare queste ineguaglianze interne o reciproche tra stati non è
compito facile malgrado il fatto che, tutto sommato, stando ad alcune
stime, il coefficiente di Gini globale si sia ridotto negli ultimi 20
anni (Lakner e Milanovic, 2013); questo è in larga parte dovuto al
contrarsi del reddito dei lavoratori nei paesi più avanzati.
Ciononostante, e fatta eccezione per i paesi meno egualitari, il dato
continua a superare in misura non trascurabile il livello di
ineguaglianza interno ai singoli paesi.
La comprensione delle dinamiche legate all’ineguaglianza e delle loro
ripercussioni all’interno dei singoli paesi nonché nei loro rapporti
reciproci costituisce una delle maggiori sfide per gli studiosi ed è tra
gli argomenti al centro dell’agenda per lo sviluppo post-2015.
Perché parlare di disuguaglianza?
È evidente che l’ineguaglianza può rappresentare una seria minaccia
alla stabilità sociale e politica. È altresì opinione sempre più diffusa
che possa minare la crescita sostenibile. Come emerso da uno studio del
Fondo monetario internazionale (FMI), un maggiore equilibrio nella
distribuzione dei redditi prolungherebbe gli effetti delle misure
adottate dagli stati per la crescita economica più di altre variabili
quali il libero scambio, bassi livelli di corruzione del governo, gli
investimenti esteri e un debito estero non elevato (Berg e Ostry, 2011).
Esistono studi che indagano le relazioni tra l’aumento
dell’ineguaglianza e l’insorgere di shock o crisi economiche (Bordo e
Meissner, 2012), un parallelismo che sembrerebbe strettamente connesso
con l’importanza crescente, a livello economico e politico, dei flussi
finanziari e dei mercati non regolamentati (UNCTAD, Conferenza delle
Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo, 2012).
L’ineguaglianza mette a repentaglio il conseguimento degli obiettivi
economici di ampio respiro proposti dall’Open Working Group (OWG) on
Sustainable Development Goals dell’Assemblea Generale, tra i quali
figurano l’eradicazione della povertà, la valorizzazione della dignità
del lavoro e la modernizzazione delle strutture economiche.
L’ineguaglianza non ha nulla a che fare con il destino o con la fortuna e
può essere contrastata con politiche e riforme mirate, come evidenziato
da Thomas Piketty in una sua recente ricerca dal carattere innovativo.
Se la ricerca di soluzioni adeguate spetta ai decisori politici
nazionali e regionali, ricoprono un ruolo fondamentale anche le azioni e
le misure collettive promosse a livello internazionale.
SDG 10: Ridurre le disuguaglianze all’interno di e fra le Nazioni entro il 2030
L’Open Working Group (OWG) ha proposto un obiettivo focalizzato
proprio sull’ineguaglianza, che si articola in 7 target e tre potenziali
metodi per realizzare tali intenti. Il primo target mira ad accelerare
l’aumento del reddito della popolazione delle fasce più basse (pari al
40% della popolazione totale), superando la crescita media nazionale; il
secondo punta all’empowerment, all’inclusione sociale ed economica di
tutti i cittadini senza discriminazioni di razza, etnia o status
economico; il terzo, infine, si propone di garantire pari opportunità e
di ridurre le ineguaglianze di risultato partendo dall’eliminazione
delle discriminzioni attraverso politiche e azioni adatte allo scopo.
Altri quattro target si concentrano sull’adozione progressiva di
politiche per la promozione di una maggiore uguaglianza avvalendosi di:
politiche fiscali, regolamentazione e controllo delle istituzioni e dei
mercati finanziari globali, politiche per l’incentivazione di aspetti
quali l’ordine, la sicurezza e la responsabilità nei flussi migratori e
politiche a difesa della mobilità delle persone, oltre alla questione
della giusta ammissione di rappresentanti dei paesi in via di sviluppo
al sistema della governance globale e la garanzia di espressione degli
stessi.
I mezzi proposti per l’implementazione di tali azioni sono vaghi e si
fatica a quantificare e a sviluppare indicatori capaci di misurare i
risultati nel senso di una riduzione dell’ineguaglianza. Ecco perché
sono necessarie ulteriori riflessioni in merito. Tra le possibili azioni
proposte ricordiamo: 1) affermare il principio di adozione di un
trattamento speciale e differenziale per i paesi meno progrediti; 2)
fornire assistenza ufficiale allo sviluppo e incoraggiare i flussi
finanziari, inclusi gli investimenti diretti all’estero (IDE) verso
paesi in condizioni speciali, quali i paesi meno progrediti, i paesi
Africani, piccoli stati insulari in via di sviluppo e paesi in via di
sviluppo senza vie di accesso al mare; 3) ridurre il costo del
trasferimento delle rimesse degli emigrati e mantenerlo al di sotto del
5%.
È plausibile pensare di raggiungere questo obiettivo entro il 2030?
Il successo dei target e dei mezzi scelti per realizzare gli SDG 10 e
17 ai fini della riduzione dell’ineguaglianza entro il 2030 dipenderà
dall’affidabilità degli indicatori selezionati per la direzione e il
controllo del processo, nonché dall’effettiva volontà politica di
cooperare a livello regionale e internazionale per riequilibrare il
sistema globale e rafforzare la coerenza delle politiche adottate.
Affrontare le ineguaglianze tra paesi richiede un potenziamento
dell’impegno politico e fiscale a livello nazionale al fine di poter
dare avvio a una serie di politiche combinate con l’obiettivo di
risollevare la situazione generale e, in particolare, di aumentare il
reddito di coloro che occupano le fasce più basse della società. Due
variabili fondamentali sono il lavoro e gli stipendi. La creazione di
posti di lavoro rimane l’unica strategia per combattere efficacemente la
povertà su base sostenibile, specie quando la forza lavoro è in rapida
crescita. L’aumento dei salari è anche necessario per potenziare la
domanda interna, riconosciuta ormai come componente essenziale di una
crescita sostenibile (UNCTAD, 2013). I paesi dovranno dotarsi di
infrastrutture adeguate e raggiungere una capacità produttiva tale da
creare le condizioni per un’economia maggiormente diversificata; per
fare questo bisognerà liberarsi dalla dipendenza dalle materie prime e
perseguire obiettivi in attività industriali diversificate in attuazione
della politica industriale.
Per far fronte agli squilibri derivanti dal sistema economico
internazionale sarà necessario adottare riforme globali rivolte al
sistema finanziario, degli investimenti e del commercio, ma anche al
sistema monetario e fiscale al fine di ridurre la volatilità. La stipula
di apposite convenzioni internazionali contro l’elusione e l’evasione
fiscale (in quanto dissuasori della concorrenza fiscale) e contro il
ricorso ai paradisi fiscali per aggirare gli oneri di tipo fiscale
consentirebbe di finanziare progetti di investimento a lungo termine
utili per portare avanti con profitto un percorso di sviluppo diffuso e
sostenibile. Una percentuale compresa tra l’8 e il 15% della ricchezza
finanziaria netta delle famiglie è infatti attualmente custodita nei
paradisi fiscali, provocando una perdita di entrate pubbliche compresa
tra 190 e 290 miliardi di dollari americani su base annua. La metà di
questi proviene dai paesi in via di sviluppo, che sono altresì passibili
di perdite che superano i 160 miliardi di dollari annui per un uso
improprio del transfer pricing o della cosiddetta thin capitalization
(sottocapitalizzazione) a causa del trasferimento degli utili contabili
verso paesi a tassazione agevolata o assente. Al fine di mobilitare le
risorse interne, si potrebbe provvedere a rendere obbligatoria e
ampliare l’Iniziativa sulla trasparenza delle industrie estrattive
(EITI).
Mentre una riforma di portata globale darà risultati solo sul lungo
termine, a livello regionale si potrebbe intervenire in favore di una
maggiore stabilità con regolamenti e istituzioni alternativi in grado di
salvaguardare i paesi contro shock finanziari, senza prescindere dal
potenziamento delle capacità degli individui, da una cooperazione
interna ai paesi del Sud del mondo e da una cooperazione triangolare
oltre che in ambito fiscale. Ad esempio, l’ascesa della Cina è stata
possibile grazie a controlli selettivi dei movimenti dei capitali, a
politiche fiscali anticicliche e politiche monetarie attive miranti a
mantenere i tassi di cambio stabili, oltre a una serie di politiche
industriali attive; si tratta di misure che si spingono oltre a una
semplice attenzione alla crescita del PIL (UNCTAD, 2013).
In conclusione, un quadro generale di politiche integrate che
rifletta tutti i modelli di sviluppo e garantisca coerenza nel
perseguimento degli obiettivi è necessario per garantire che questi,
siano essi di tipo sociale, economico o ambientale, possano interagire
con successo.
Note
[1] Direttrice dell’ufficio della Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD) a New York.
[2] Capo della Divisione Globalizzazione e Strategie per lo sviluppo dell’UNCTAD
[3]
Tirocinante presso l’UNCTAD e studia International Economic Politics
and Financial Markets presso la School of Professional Studies, Center
for Global Affairs, New York University
Riferimenti bibliografici
– Berg, Andrew G. e Ostry, Jonathan D., Inequality and Sustainable
Growth: Two sides of the Same Coin? Washington D.C., 2013: Fondo
Monetario Internazionale (FMI). IMF Staff Discussion Note SDN/11/08 (8
aprile).
– Bordo, M. e Meissner, C.M., Does inequality lead to a financial
crisis?, 24 marzo 2012. Center for Economic and Policy Research (CEPR)’s
Policy Portal.
– C.W. “Why globalization may not reduce inequality in poor
countries” The Economist explains, 2 settembre 2014. Disponibile al
seguente link
– Lakner, C. e Milanovic, B. Global income distribution: from the
fall of the Berlin Wall to the great recession, vol. 1 Policy Research
Working Paper, No. 6719. Washington D.C., 2013: Banca Mondiale.
– Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE)
– Divided We Stand: Why Inequality Keeps Rising, dicembre 2011.
– Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD)
World Investment Report 2011: Non-equity Modes of International
Production and Development Sales No. E.11.ii.D. 2. Disponibile al
seguente link
– Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD)
Trade Financing and Regional Financial Institutions from a South–South
Perspective. Trade and Development Board. Investment, Enterprise and
Development Commission Multi-year Expert Meeting on International
Cooperation: South–South Cooperation and Regional Integration, Geneva,
24-25 ottobre 2012. Distr.: General 15 agosto 2012. TD/B/C .II/MEM.2/11.
Disponibile sul seguente link
– Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD)
– Growth and Poverty Eradication: Why Addressing Inequality Matters.
Post-2015 Policy Brief, no. 02, Novembre 2013. New York e Ginevra.
Disponibile all seguente link
– Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD)
Sito web della 61esima sessione del Comitato per il commercio e lo
sviluppo dell’UNCTAD (Trade and Development Board) Disponibilesul
seguente link
Pubblicato per la prima volta nel UN Chronicle, Dipartimento della Pubblica Informazione, Nazioni Unite.