Invece di sproloquiare sul terrorismo e gli anni di piombo, Mattarella si sarebbe dovuto far dare una consulenza da Macron su come "riformare" la giustizia italiana: PECCATO CHE MONNEZZARELLA SIA UN BUONO A NULLA.

 

Giacomo Oberto

 

Sistemi giudiziari europei a confronto: le criticità italiane

 

Testo riassuntivo della relazione presentata al Convegno

«I valori della Magistratura e il valore della Giustizia: prospettive di riforme efficaci e condivise»

organizzato da Autonomia e indipendenza

Roma - 25 settembre 2016

 

 

Sommario: 1. Il contributo dell’esperienza italiana all’elaborazione dei principi internazionali sull’indipendenza della magistratura. – 2. Il contributo fornito dai principi internazionali di soft law alla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia del potere giudiziario. – 3. L’efficienza del sistema-giustizia e il ruolo del Consiglio d’Europa. L’attività della CEPEJ. – 4. I dati CEPEJ e la loro lettura alla luce della peculiarità della situazione italiana. – 5. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore civile. La «signoria del giudice sul processo». – 6. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore civile. Le limitazioni al dilagare dei mezzi di impugnazione. – 7. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore penale. Il problema della prescrizione. – 8. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nei settori civile e penale. Il problema delle risorse. – 9. Un serio e nuovo problema di indipendenza e autonomia della magistratura: il rapporto sempre più conflittuale con la classe forense (e il Contempt of Court).

 

 

 

1. Il contributo dell’esperienza italiana all’elaborazione dei principi internazionali sull’indipendenza della magistratura.

 

Vorrei in primo luogo ringraziare gli amici di A&I per l’invito a questo importante convegno e per il tema che mi hanno assegnato. Un tema nella trattazione del quale posso avvalermi dell’esperienza acquisita nei lunghi anni di lavoro presso il Segretariato Generale dell’Unione Internazionale dei Magistrati.

Mi sia consentito qui ricordare che l’International Association of Judges – Union Internationale des Magistrats (IAJ-UIM) è un’associazione internazionale professionale senza fini politici, fondata nel 1953 a Salisburgo, alla quale aderiscono non singoli magistrati, ma le associazioni nazionali di magistrati, la cui ammissione è stabilita dal Consiglio Centrale. Il fine principale dell’Unione è la salvaguardia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, condizione essenziale della funzione giurisdizionale e garanzia dei diritti umani e delle libertà. L’UIM, il cui Segretariato Generale ha sede statutaria in Italia, comprende oggi 85 associazioni o gruppi rappresentativi nazionali provenienti dai cinque continenti [1] .

Come è noto, la comparazione del sistema giudiziario italiano con i principali ordinamenti europei ed extraeuropei fornisce un quadro caratterizzato da luci ed ombre. Sul punto è importante tenere presenti i due termini di riferimento essenziali, allorquando si discorre della costituzione e dell’azione del potere giudiziario, vale a dire: (a) l’indipendenza della magistratura e (b) l’efficienza del sistema-giustizia.

Per quanto attiene al primo profilo, cioè quello dell’indipendenza, non v’è dubbio che la magistratura italiana occupi un posto di rilievo nel panorama offerto dalla comparazione, come riconosciuto dal ruolo giocato da numerosi esponenti del nostro ordine giudiziario nella redazione di quella ormai fitta rete di principi di soft law che governano la materia a livello internazionale.

Si pensi, a tacer d’altro, al contributo prestato da Adolfo Beria d’Argentine nella stesura ed approvazione dei Basic Principles delle Nazioni Unite sull’indipendenza della magistratura [2] , nell’ormai lontano 1985, o all’attiva e fattiva partecipazione dell’allora Segretario Generale dell’UIM Massimo Bonomo nella preparazione della Carta Europea sullo Statuto del Giudice del Consiglio d’Europa nel 1998 [3] o, ancora, al determinante intervento del suo successore Antonio Mura nella preparazione della Rome Charter del 2014 in materia di posizione istituzionale e statuto del pubblico ministero [4] .

Mi sia consentito poi menzionare il contributo offerto dallo scrivente nel contesto dei lavori del comitato d’esperti incaricati dal Consiglio d’Europa di procedere alla stesura della Raccomandazione R (12) 2010 sui Giudici: Recommendation CM/Rec(2010)12 of the Committee of Ministers to member states on judges: independence, efficiency and responsibilities [5] , nonché la rilevante opera prestata da Raffaele Sabato quale membro, prima, Presidente e Past President, poi, del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa (CCEJ), nella redazione di una notevole serie di preziosi pareri su tutti i profili salienti dell’attività giurisdizionale [6] .

Al riguardo non potrà tacersi che, specie in questi ultimi anni, il CCEJ ha assunto un ruolo crescente, non solo di «organo di studio» di questioni più o meno astratte, bensì anche di vero e proprio «parlamento» dei giudici europei: un’assise nella quale si discute sempre più di questioni molto concrete relative all’indipendenza e all’azione della magistratura nel nostro continente. Basti considerare, ad esempio, i rilevanti documenti sullo Status and situation of judges in member States [7] , veri e propri cahiers de doléances della magistratura europea nelle situazioni di maggior crisi, per non parlare della redazione della «Magna Charta of Judges», riassumente i punti più significativi delle opinions rese dal Consiglio Consultivo nel corso di questi anni [8] .

Anche sul (più ripido) versante della posizione istituzionale del pubblico ministero la situazione appare in pieno movimento.

Basti pensare, tanto per citare un esempio, alla distanza che corre tra, da un lato, la raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2000 sul tema «The Role of Public Prosecution in the Criminal Justice System» [9] , laddove si afferma, con disarmante truismo, che laddove l’ordinamento prevede l’indipendenza degli uffici di procura, tale indipendenza va effettivamente garantita [10] , e, dall’altro, la già ricordata Rome Charter, approvata dal Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei nel 2014, il cui punto IV statuisce, in maniera ben più incisiva, che «The independence and autonomy of the prosecution services constitute an indispensable corollary to the independence of the judiciary. Therefore, the general tendency to enhance the independence and effective autonomy of the prosecution services should be encouraged».

Anche qui, dunque, il modello italiano sembra essersi affermato, per lo meno a livello di consapevolezza dei pubblici ministeri del nostro continente.

 

 

2. Il contributo fornito dai principi internazionali di soft law alla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia del potere giudiziario.

 

In relazione a quanto sin qui esposto, non va trascurato il rilievo che anche la «semplice» soft law può assumere nel quadro odierno.

Se è vero, infatti, che, ad esempio, nel 1989, la nostra Corte costituzionale ebbe buon gioco a validare la palese violazione inferta ai già citati Basic Principles delle Nazioni Unite (a mente dei quali «judges should enjoy personal immunity from civil suits for monetary damages for improper acts or omissions in the exercise of their judicial functions»: cfr. art. 16) da parte della nostra legge sulla responsabilità civile dei magistrati (l. 13 aprile 1988, n. 117), atteso il carattere «non cogente» dei cennati principi [11] , è altrettanto vero che proprio l’esperienza di organismi quali l’UIM dimostra che è su quegli stessi principi che vengono poggiate dichiarazioni, risoluzioni, raccomandazioni, che, talora, sortiscono l’effetto di smuovere mass media e opinione pubblica, determinando anche (pur se in casi certo non frequentissimi) risultati positivi. Valga, a titolo di mero esempio, la recente mobilitazione internazionale sul «caso Turchia», in conseguenza della svolta repressiva che ha fatto seguito al fallito colpo di Stato del luglio 2016 [12] .

Non solo. Da un po’ di tempo a questa parte un altro attore fondamentale sullo scenario internazionale, vale a dire la Corte Europea dei diritti dell’uomo, ha iniziato ad utilizzare siffatti principi di soft law per arrivare a riconoscere la violazione dell’art. 6 della CEDU, sotto il profilo della carenza del requisito della presenza di un «tribunale indipendente e imparziale».

Posso citare qui, a mo’ di esempio, il caso Volkov vs Ukraine (2013), ove un paragrafo intero della motivazione [13] è dedicato ai documenti del Consiglio d’Europa sull’indipendenza della magistratura, al fine di non dichiarare conforme al citato parametro dell’art. 6 la composizione dell’organo disciplinare che aveva sanzionato un magistrato ucraino. E lo stesso è a dirsi per il caso Gerovska Popčevska v. the former Yugoslav Republic of Macedonia (2016), nella cui motivazione [14] si riportano ampi brani di un parere della Venice Commission del Consiglio d’Europa, oltre che di un’Opinion del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCEJ) in tema di organo di autogoverno e della già ricordata Magna Charta del CCEJ, al fine di riconoscere come presente una violazione del canone dell’indipendenza e imparzialità dell’organo disciplinare, qualora di esso faccia parte il Ministro della Giustizia [15] .

 

 

3. L’efficienza del sistema-giustizia e il ruolo del Consiglio d’Europa. L’attività della CEPEJ.

 

Passando invece al tema dell’efficienza del sistema-giustizia, va detto che qui l’esperienza italiana risulta assai meno soddisfacente. Su questo profilo, in particolare, si sono accesi i riflettori soprattutto dopo la creazione della CEPEJ del Consiglio d’Europa.

In proposito va detto che il Consiglio d’Europa svolge da tempo un ruolo fondamentale in relazione ai temi della giustizia nei 47 Stati membri. La ragione per la quale questo organismo si occupa di tale settore risiede in una delle disposizioni più importanti della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questa, al già ricordato art. 6, prevede, come noto, che «In the determination of his civil rights and obligations or of any criminal charge against him, everyone is entitled to a fair and public hearing within a reasonable time by an independent and impartial tribunal established by law» [16] .

       E’ dunque sulle espressioni «independent and impartial tribunal», da un lato, e «within a reasonable time», dall’altro, che si fondano gli assi portanti dell’azione sviluppata dal Consiglio d’Europa in questi ultimi decenni, in particolare a partire dalla caduta del muro di Berlino.

       In relazione al primo punto dovranno qui menzionarsi le innumerevoli attività di supporto sviluppate, in specie dai primi anni Novanta dello scorso secolo, per l’assistenza all’elaborazione di una normativa, a livello sia costituzionale che ordinario, conforme ai principi del rule of law nei Paesi già membri del Patto di Varsavia, assieme ad una impressionante serie di iniziative nel settore della formazione di magistrati, avvocati, personale di giustizia, creazione di scuole, accademie, istituti di ricerca, etc. [17] .

       Non potrà poi passarsi sotto silenzio, sempre in relazione al tema dell’indipendenza ed imparzialità della magistratura, la già sopra ricordata creazione, nei primi anni del nuovo millennio, del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei e del suo «parallelo» Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei. Anche qui un rapido sguardo alle pagine del sito ufficiale del Consiglio d’Europa (sempre nel settore dedicato alla creazione dello «Stato di diritto») fornirà una panoramica molto interessante sulle questioni (praticamente tutte quelle ad oggi rilevanti per chi opera nel settore della giustizia) che hanno formato oggetto dei pareri espressi tanto dal primo, che dal secondo dei due citati Consigli Consultivi [18] .        Ma è nell’elaborazione degli strumenti internazionali sul tema dell’indipendenza del potere giudiziario che il Consiglio d’Europa ha raggiunto i risultati sicuramente più apprezzabili. Tra i tanti, vorrei richiamare ancora una volta la Raccomandazione del 2010 sul tema: «Indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici», cui ho già fatto cenno.

       L’altro grande settore di attività, collegato in qualche modo al concetto del «délai raisonnable», è quello dell’efficienza della giustizia. Comparto, quest’ultimo, che ha visto la creazione, a partire dai primi anni di questo secolo, di un’apposita commissione (la CEPEJ), che è andata assumendo un ruolo via via determinante.

La CEPEJ (Commission Européenne pour l’efficacité de la justice/European Commission for the Efficiency of Justice) è, dunque, una commissione costituita presso il Consiglio d’Europa, allo scopo di migliorare l’efficienza ed il funzionamento della giustizia negli Stati membri, così come di realizzare l’applicazione degli strumenti elaborati a tal fine dal Consiglio d’Europa. I suoi compiti sono molteplici: analizzare i risultati dei sistemi giudiziari; individuarne i problemi; definire mezzi concreti per migliorare, da un lato, la valutazione dei risultati dei sistemi giudiziari e dall’altro, il relativo funzionamento; indicare agli organi competenti del Consiglio d’Europa quali siano i campi in cui l’elaborazione di uno strumento giuridico sarebbe auspicabile.

A tal fine la CEPEJ mette a punto degli indicatori, raccoglie ed analizza dati, definisce misure e strumenti di valutazione, redige dei documenti (rapporti, pareri, linee guida, piani d’azione, ecc.), intrattiene rapporti con istituti di ricerca e centri di documentazione, invita esperti e ONG, procede ad audizioni, sviluppa reti di professionisti della giustizia. Nel piano d’azione adottato a Varsavia il 16 maggio 2005, i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri del Consiglio d’Europa hanno deciso di sviluppare le funzioni di valutazione e d’assistenza della CEPEJ al fine di aiutare gli Stati membri a rendere giustizia con equità e rapidità. Hanno altresì invitato il Consiglio d’Europa a rafforzare la cooperazione con l’U.E. nel campo giuridico, proprio per il tramite della cooperazione con la CEPEJ.

La CEPEJ è stata creata il 18 settembre 2002 tramite la Risoluzione Res(2002)12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Essa riunisce esperti dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa ed è assistita da un Segretariato. I principali suoi settori d’attività sono i seguenti: (a) Evaluation of Judicial Systems [19] , che dà luogo alla pubblicazione dell’ormai famoso rapporto biennale sulla giustizia nel nostro continente; un rapporto oggi consultabile anche online, non solo nella «tradizionale» versione .pdf., ma anche in modo interattivo, dinamico e comparativo [20] ; (b) Judicial time management (ove opera il SATURN Centre for Judicial Time Management) [21] ; (c) Quality of justice (ove opera il gruppo di lavoro denominato CEPEJ-GT-QUAL) [22] .

 

 

4. I dati CEPEJ e la loro lettura alla luce della peculiarità della situazione italiana.

 

       In Italia la CEPEJ è nota soprattutto per gli impietosi dati comparativi con le altre realtà europee (47 Paesi membri del Consiglio d’Europa) sulla durata dei processo, ma anche perché, come correttamente la nostra ANM ha già da tempo avvertito [23] , da quegli stessi dati emergono risultati più che lusinghieri sull’operosità dei magistrati italiani, da sempre ai primissimi posti, pur collocandosi l’Italia tra i Paesi con il minor numero di magistrati, rispetto alla popolazione, e, soprattutto, rispetto agli avvocati.

Come pure noto, a singolare contrappunto della ricordata presa di posizione dell’ANM, sono comparsi, specie negli ultimi tempi, velenosi articoli su giornali prezzolati dai nemici della legalità, all’insegna dello slogan per cui i dati della CEPEJ non sarebbero comparabili tra di loro (tra l’altro: chissà perché quelli sui tempi della giustizia sì e quella sulla produttività dei magistrati no…). Qui occorre tenere presente, però, che stiamo pur sempre parlando di processi, sentenze e provvedimenti giurisdizionali: dunque di dati che, pur nell’enorme varietà di riti, leggi e tradizioni del nostro continente, alla fine della fiera svolgono lo stesso tipo di funzione. In secondo luogo, se proprio vogliamo introdurre i relativi adattamenti, per rendere più veritiera la comparazione, allora si dovrà considerare che questi adattamenti risultano comunque a vantaggio della produttività dei magistrati italiani.

Basti tenere presente, tanto per iniziare, che i colleghi francesi non trattano per nulla in primo grado il contenzioso commerciale (riservato ai Tribunaux de commerce, composti esclusivamente da rappresentanti delle associazioni produttive), così come quello del lavoro (riservato ai Conseils de prud’hommes, composti esclusivamente dei rappresentanti sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori). Inoltre (e trattasi di questione certamente non trascurabile) le sentenze d’oltralpe, sostanzialmente, non sono motivate [24] , mentre l’istruttoria delle cause civili procede pressoché esclusivamente in base a documenti ed attestations, con quasi totale esclusione delle quanto mai time consuming escussioni testimoniali [25] .

       I colleghi tedeschi, dal canto loro, vantano una schiera di Rechtspfleger (una sorta di super-cancellieri, estranei al ruolo della magistratura, collocata idealmente e ordinamentalmente tra quest’ultima e il personale di cancelleria) composta da un numero di unità pari, addirittura, alla metà di quello totale dei giudici. Tali soggetti hanno competenze sostanzialmente esclusive in materie quali la volontaria giurisdizione nei settori della famiglia, persone, incapacità, successioni, registro di commercio, registro fondiario, procedure esecutive, decreti ingiuntivi, ingiunzioni europee di pagamento, ecc.

       I colleghi di common law, e segnatamente quelli d’oltre Manica, poi, sono affiancati da vere e proprie legioni di magistrates, cioè di giudici onorari non professionali. Dai dati del rapporto biennale CEPEJ 2014 (riferito al 2012) risulta che in tutto il Regno Unito si contano 2.300 professional judges contro 9.500 part time non professional judges e 24.000 full time non professional judges, il che porta ad un risultato di oltre 14 giudici non professionali per ogni magistrato di carriera!

       A fronte di simili dati il vero problema è costituito dal fatto che, in questo sistema politico-mediatico dominato dall’ignoranza e dalla superficialità, in cui è sempre l’argomento ad effetto a prevalere sul ragionamento pacato, il sacrosanto messaggio veicolato dall’ANM – puramente e semplicemente – non riesce a passare. Nei nostri talk shows ormai dominati dalle scimmie urlatrici, l’unica «idea» che sembra transitare è riassumibile nel seguente «sillogismo»: «Qual è lo stato della giustizia? Comatoso. Chi fa i processi? I giudici. Ergo la responsabilità di tale stato di cose è per forza dei giudici».

Detto altrimenti, sembra proprio che oggi occorra abituarsi – piaccia o meno – ad operare per l’efficienza della giustizia quella stessa distinzione che noi civilisti siamo soliti fare per le obbligazioni dei professionisti: quella, cioè, tra efficienza «dei mezzi» ed efficienza «del risultato». Sotto il profilo dei mezzi siamo efficientissimi, molto meno sotto quello dei risultati.

Si tratta di vedere, allora, quali lezioni possiamo trarre dalla comparazione con i sistemi stranieri e quali sono, per l’appunto, le criticità nostre, messe in evidenza da tale comparazione.

 

      

5. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore civile. La «signoria del giudice sul processo».

 

Il primo dato ad emergere dalla comparazione, specie per ciò che attiene alla procedura civile, è quella situazione che definirei di «signoria sul processo», di cui dispongono i colleghi stranieri e che a noi manca, nel modo più assoluto.

Intendo riferirmi con tale espressione non solo ai poteri sul processo dei giudici di common law, ma anche a quelli dei sistemi di rilevanti Paesi che si iscrivono nell’area della famiglia romano-germanica. Basti pensare alla Francia, ove il giudice (e non l’avvocato!) si trova, come dicono là, «au coeur du procès» ed ha poteri istruttori e di assegnazione di termini per far marciare velocemente la procedura secondo la tempistica che ritiene più opportuna. E ciò accade a partire, quanto meno, da quello che si chiamava un tempo il nouveau code de procédure civile, in vigore oltralpe dal lontano 1975; da noi, invece, come (poco) noto (se non agli addetti ai lavori), si perdono per lo meno 7-8 mesi prima che la causa, già pendente per la notifica della citazione e l’iscrizione a ruolo (con conseguente inizio del «ticchettio» degli orologi «Strasburgo» e «Pinto»), possa cominciare ad essere effettivamente trattata dal giudice! Né ai guasti prodotti in questi anni dall’art. 183 c.p.c. può ritenersi ponga rimedio oggi l’art. 183-bis c.p.c. di nuovo conio: la decisione del passaggio al rito semplificato dovrebbe essere rimessa al solo giudice, senza alcuna trattazione della questione, sulla base della sola lettura degli atti introduttivi, che andrebbero depositati senza il passaggio attraverso l’ormai inutile (a maggior ragione oggi, con le innovazioni del p.c.t.) rito della prima udienza di trattazione.

E’ dal lontano 1984 che il Consiglio d’Europa richiede agli Stati membri la creazione di un giudice civile «intervenzionista».

Il Principio n. 3 dell’allegato alla Raccomandazione n° R (84) 5 adottata dal Comitato dei Ministri il 28 febbraio 1984 (Principes de procédure civile propres à améliorer le fonctionnement de la justice), stabilisce che «Le juge devrait, au moins lors de l’audience préliminaire, mais si possible à tous les stades de la procédure, jouer un rôle actif afin d’assurer, dans le respect des droits des parties et du principe de leur égalité, un déroulement rapide des procédures. Notamment, il devrait avoir, d’office, les pouvoirs de demander aux parties toutes clarifications utiles, de les faire comparaître personnellement, de soulever des questions de droit, de rechercher les preuves au moins dans les cas où le fond du litige n’est pas à la disposition des parties, de diriger l’administration des preuves, d’exclure des témoins si leur déposition éventuelle manque de pertinence par rapport à l’affaire, de limiter le nombre, s’il est excessif, des témoins appelés à déposer sur les mêmes faits. Ces pouvoirs devraient être exercés sans pour autant déborder l’objet de l’action».

Eppure sappiamo che ancora oggi, da noi, eminenti processualisti s’ostinano ad affermare che una norma che lasciasse (horribile dictu!) al giudice la definizione anche solo di una parte delle regole procedurali violerebbe, addirittura, l’art. 111, primo comma, Cost., secondo cui «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge». Come se la legge non potesse «regolare il processo» proprio demandando al giudice, di volta in volta, il concreto svolgimento delle varie fasi, magari sulla base di alcuni (pochissimi) principi generali (ad es.: rispetto del contraddittorio, la «parità di armi», etc.) scolpiti nella legge stessa. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la pratica del processo civile sa bene che nella stragrande maggioranza dei casi le difese delle parti si possono esplicare ed esplicitare in maniera assolutamente semplice e piana, senza la necessità di sprecare mesi e mesi di rinvii e di imbrattare centinaia di pagine.

 

 

6. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore civile. Le limitazioni al dilagare dei mezzi di impugnazione.

 

       Sempre l’esperienza straniera ci dimostra che la signoria del giudice sul processo si esplica anche, in moltissimi sistemi, tramite il c.d. leave to appeal, cioè il permesso che lo stesso giudice che ha emesso il provvedimento (o, eventualmente, un giudice superiore) può dare (o negare), oltre tutto sulla base di sistemi di «filtro» che nulla hanno della complessità degli inutili, bizantini e barocchi procedimenti che recenti riforme hanno voluto introdurre anche da noi. Sul punto basterà rinviare all’analisi comparata redatta nel 2008 dalla Cassazione italiana, da cui emerge che le Corti Supreme dei principali Paesi europei si debbono confrontare con un numero di ricorsi, in civile come in penale, di gran lunga inferiore rispetto a quello che travolge la nostra Corte Suprema [26] . Se si pensa anche solo alla (geograficamente e culturalmente) vicina Francia, non si può non restare sbigottiti nel considerare che la Cour de cassation ha, nel 2015, ricevuto in totale 28.232 affaires (decidendone 25.523), contro gli oltre 83.000 della Cassazione italiana (che ne ha eliminati nello stesso periodo un numero grosso modo analogo). Per non dire della Corte Suprema del Regno Unito, che emette meno di cento sentenze l’anno [27] !

Un tema in qualche modo legato a questo è quello dell’eventuale eliminazione di un grado di merito.

Ora, se è vero che l’appello è conosciuto e garantito in tutti gli ordinamenti europei, è anche vero che esso riceve salvaguardia a livello sovranazionale dal protocollo n. 7 CEDU, unicamente per le sentenze penali di condanna (e, oltre tutto, con alcune limitazioni). Nel civile il doppio grado di giurisdizione di merito non è prescritto da alcuna disposizione di livello costituzionale. Questo, almeno, è il costante insegnamento non solo della giurisprudenza della Corte di Cassazione civile [28] , ma anche della Corte costituzionale [29] . Del resto, proprio dalla mancanza di una garanzia costituzionale del principio del doppio grado di giurisdizione discende l’ammissibilità di eventuali deroghe allo stesso, come la tassatività delle ipotesi di rimessione al primo giudice (ex artt. 353-354 c.p.c.) [30] .

Al di là di queste considerazioni, il vero problema è dato dal fatto che, nel nostro ordinamento, il principio del doppio grado di merito non riceve, sostanzialmente, alcuna limitazione, a differenza di ciò che accade in molti sistemi europei. Così, ad esempio in Francia sono inappellabili le sentenze di valore inferiore ai 4.000 euro [31] . Di notevole interesse sono poi le norme che, sempre Oltralpe, permettono al giudice d’appello (cfr. art. 526 del Code de procédure civile) e di cassazione (cfr. art. 1009-1 del Code de procédure civile) di «radier une affaire du rôle» quando la parte appellante o ricorrente non prova di aver dato spontanea esecuzione alla decisione oggetto di gravame.

Ancora più sorprendenti sono i dati che ci pervengono dal Regno Unito, dove ogni appeal è, come già detto, soggetto ad una apposita e rigorosissima permission [32] . Non stupisce, quindi, che i dati statistici denotino un limitatissimo ricorso all’appello: «Only a small number of the millions of cases commenced each year are subject to a successful appeal. For example, 1,553,983 civil (non-family) cases started in 2011, whilst just 1,269 appeals were filed in the Court of Appeal Civil Division in the same period» [33] .

 Per quanto attiene all’Italia, i dati statistici ministeriali (anno 2013) mostrano che, in civile, «soltanto il 20% delle sentenze rese in primo grado sono impugnate e che circa il 77% di queste ultime sono confermate»; ciò significa che, grazie all’appello, viene riformato solo il 4,5% delle sentenze di primo grado. Invertendo il punto d’osservazione, si può affermare che, in mancanza del secondo grado di giudizio, il solo 4,5% delle controversie sarebbe definita da una pronuncia «non corretta» o che comunque sarebbe stata riformata in appello. Seppur non si volesse considerare che in tale percentuale confluiscono tutte le sentenze «non confermate», e dunque anche quelle che modificano meramente la ripartizione delle spese o che investono il solo quantum debeatur, senza ribaltare le posizioni sostanziali già definite in primo grado, il 4,5% resterebbe comunque un dato troppo esiguo per giustificare l’enorme dispendio di risorse ed energie impiegate per garantire il grado d’appello. Il 4,5% di sentenze non riformate in assenza del secondo grado di giudizio sarebbe un «costo» sostenibile per poter, non solo ridurre drasticamente i tempi del processo e finalmente raggiungere una durata ragionevole, ma anche riallocare in maniera intelligente le risorse economiche ad oggi assorbite dalle corti d’appello [34] .

 

 

7. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore penale. Il problema della prescrizione.

 

       Passando a considerare ora il processo penale, è fin troppo noto che uno degli ostacoli più gravi alla realizzazione di un sistema efficiente in Italia è costituito dalle regole sulla prescrizione.

       Al riguardo da più parti si osserva che i numerosi Stati con i quali dividiamo moneta e politica disciplinano la misura del tempo con modalità diametralmente opposte a quelle da noi vigenti. E ciò sotto distinti profili.

       Così, per quanto attiene al dies a quo, in Francia, in Germania, o in Gran Bretagna, ad esempio, il tempo inizia a cancellare la pretesa punitiva dal momento in cui il reato viene scoperto e cessa di avere rilevanza nel momento in cui lo Stato esercita l’azione penale; da quel momento in poi, il tempo non gioca più a favore dell’imputato, che non avrà, quindi, alcun interesse ad allungare i tempi del processo. In Italia il tempo inizia a erodere la pretesa punitiva da quando il reato è stato commesso, ed è insensibile all’esercizio, da parte dello Stato, della leva della azione penale; da quel momento in poi, decorrenza del tempo e imputato diventano alleati. Evidente la differenza, evidenti le conseguenze. In Italia, difatti, una volta esercitata l’azione penale, l’imputato ha tutto l’interesse ad allungare la durata del processo, nell’ottica di ottenere l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. In Francia, in Germania o in Gran Bretagna, attivata la leva dell’azione penale, l’imputato ha un unico interesse, la celebrazione del processo, nella consapevolezza che la sua durata non cancellerà, mai, il reato commesso. Esiste, quindi, un rapporto inversamente proporzionale tra la misura del tempo che estingue il reato e la durata del processo.

       Rilevante è poi anche il profilo dell’interruzione. In Francia, ad esempio, il termine per perseguire i reati più gravi (crimes) è di dieci anni, ma il decorso della prescrizione può essere interrotto da qualsiasi atto di istruzione e di azione giudiziaria. In Germania i tempi sono ancora più lunghi, ma, ad esempio, nel caso di reati compiuti da membri del Parlamento federale o di un organo legislativo di un Land, la prescrizione viene computata non da quando è stato commesso il reato, ma a partire dal momento in cui viene avviato il procedimento a carico del parlamentare.

Sarà qui utile ricordare che il rapporto del GRECO (il Gruppo di Stati del Consiglio d’Europa contro la corruzione) del 2 luglio 2009 sollecita l’Italia «ad adottare misure tali che la pronunzia giudiziale di merito sui reati contro la pubblica amministrazione pervenga in tempi ragionevoli, sottolineando che l’estinzione dei reati per prescrizione, pur in presenza di compendi probatori solidi e affidabili, costituisce motivo di sfiducia della collettività nella giustizia».

Tale richiamo è stato rinnovato nel rapporto anticorruzione della Commissione Europea del 3 febbraio 2014, che ha sottolineato l’inadeguatezza della c.d. «legge Severino» del 2012 su questo fronte. Il rapporto cita uno studio secondo il quale i procedimenti per corruzione estinti nel nostro Paese per scadenza dei termini di prescrizione sono intorno al 10% ogni anno, contro una media negli altri Stati UE dallo 0,1 al 2%. Nel 2012, per esempio, sono stati dichiarati prescritti 113.000 procedimenti penali, il 7% di tutti quelli giunti a una conclusione. Un dato in calo (erano 207.000 nel 2003), ma pur sempre «un’intollerabile abdicazione» dello Stato, secondo le parole dell’allora Presidente della Cassazione Giorgio Santacroce all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014.

In Cassazione, sottolinea l’ufficio studi della Camera, il 13,7% delle prescrizioni riguarda i reati contro la pubblica amministrazione. I presunti tangentisti sono tra i principali beneficiati della prescrizione all’italiana. I termini scattano dal momento in cui il reato viene commesso, in genere molto prima che si apra la relativa indagine, e le pene lievi (leggermente inasprite dal nuovo testo anticorruzione del 2012) comportano altrettanto brevi tempi di scadenza. Il resto lo fanno i buoni avvocati che spesso i colletti bianchi possono permettersi. Risultato: in un Paese sempre punito dalle classifiche internazionali sulla trasparenza, tra i detenuti in carcere «si contano soltanto 11 accusati per corruzione, 26 per concussione, 46 per peculato, 27 per abuso d’ufficio aggravato» [35] .

 

 

8. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nei settori civile e penale. Il problema delle risorse.

 

Da un punto di vista più generale (e comune ai settori civile e penale), il raffronto con gli altri principali sistemi europei appare desolante sotto il profilo delle risorse messe a disposizione dei magistrati.

Da tutti i rapporti CEPEJ sullo stato della giustizia in Europa emerge che, se è vero che l’Italia figura tra i Paesi che spendono di più, in termini assoluti, per la giustizia, essa ricade ampiamente sotto la media europea per le spese per gli uffici giudiziari (cioè le precedenti depurate dalle prigioni, dal patrocinio a spese dello Stato e dalle spese per le procure). Non solo: tale dato appare in costante discesa negli ultimi anni.

Cosa ancora più preoccupante, l’Italia risulta agli ultimissimi posti per quanto riguarda il numero di cancellieri o personale di cancelleria per 100.000 abitanti (40, contro 66 della Germania, 58 del Portogallo, 54 dell’Austria, 52 della Russia, ecc., con una media europea pari a 62). La Germania, inoltre, ha, come già ricordato, 8.500 Rechtspfleger, ciò che rappresenta quasi la metà del numero totale dei giudici!

E’ fin troppo noto che da noi si è ritenuto di risolvere, come sempre, «a costo zero» i problemi della scarsità di personale con l’introduzione del p.c.t., il che ha significato, in buona sostanza, spostare sui giudici gran parte del lavoro del personale di cancelleria, così evitando di assumere nuove unità.

Inutile stendere qui un cahier de doléances sui fin troppo noti guasti introdotti dal p.c.t. nell’attività ordinaria del giudice, per non dire della vera e propria «devastazione» di un bene come la qualità della vita e del lavoro del giudice, così rilevante per una professione tanto delicata e pericolosa (in primis per chi la esercita!) come la nostra. Continui guasti, interruzioni, estrema lentezza, farraginosità, inutile ridondanza delle informazioni, continuo stress determinato dalla necessità di tenere d’occhio svariate funzioni, al fine di evitare che istanze, atti, documenti e provvedimenti vadano irrimediabilmente persi (con conseguenze drammatiche, ovviamente, per il giudice) e via discorrendo. Ma non basta ancora. E’ sin troppo noto che il p.c.t. ha dato luogo ad un’intera branca autonoma della procedura civile, che si declina in una quantità incredibile di contributi dottrinali e giurisprudenziali esclusivamente dedicati agli infiniti problemi creati ex novo dalle procedure telematiche, che si è andato ad innestare in un sistema come il nostro, caratterizzato dal trionfo dei bizantinismi e delle trappole processuali d’ogni genere e qualità.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti.

Il giudice civile italiano passa ormai una metà del suo tempo a risolvere i problemi a lui direttamente creati dal p.c.t. e l’altra metà… a risolvere quelli creati dal p.c.t. agli avvocati (istanze varie ed incredibili: dalla richiesta di cancellazioni di iscrizioni telematiche asseritamente errate, come se il giudice avesse un potere sull’organizzazione dei registri telematici, alle inevitabili domande di rimessione in termini per chi è atavicamente abituato a svegliarsi all’ultimo momento, salvo scoprire che il sistema non funziona, a richieste di «forzature» telematiche del sistema, come se il giudice fosse dotato di una sorta di magico e virtuale «pie’ di porco», e via salmodiando…).

Appare quindi incredibile (e per molti aspetti persino vergognoso) che la magistratura italiana abbia accettato e continui ad accettare un simile svilimento delle sue funzioni, caricandosi di occupazioni e preoccupazioni che distraggono inevitabilmente il giudice dal lavoro per il quale è stato selezionato ed è (mal) pagato: vale a dire risolvere i problemi di diritto, non quelli legati ad una tecnica che, per quanti sforzi possa fare, un giurista non arriverà mai a padroneggiare del tutto (una tecnica che, comunque, una volta eventualmente padroneggiata, assorbe il giurista in maniera pressoché esclusiva, e, dopo averne esaurito forze e risorse, non lo aiuta certo a risolvere i veri problemi che costituiscono l’intima essenza della sua missione!).

Ora, in tutti i sistemi stranieri che ho avuto modo di conoscere, nessun giudice: dico nessun giudice, accetterebbe di sottoporsi alle torture che il p.c.t. quotidianamente ci infligge. Il rapporto con il fascicolo (telematico o cartaceo che sia) passa attraverso una selva di cancellieri, assistenti, segretari, che, giustamente, svolgono le funzioni per le quali sono stati selezionati e vengono pagati.

 

 

9. Un serio e nuovo problema di indipendenza e autonomia della magistratura: il rapporto sempre più conflittuale con la classe forense (e il Contempt of Court).

 

Il punto finale e veramente fondamentale su cui vorrei attirare l’attenzione è dato oggi, in Italia, dal rapporto del giudice (in particolare di quello civile, posto che, in penale, un certo rispetto per le funzioni giurisdizionali forse ancora sussiste, non foss’altro per il timore che naturaliter incute un giudice ancora potenzialmente in grado di limitare la libertà personale degli individui) con la classe forense. E qui va constatato, innanzi tutto, che la magistratura italiana risulta particolarmente sfortunata.

In primis perché ci collochiamo in un sistema di civil law, nel quale, cioè, non appare neppure pensabile che il giudice (a differenza di ciò che accade in moltissimi sistemi di common law) possa egli stesso esercitare un diretto potere disciplinare nei confronti degli avvocati. Nei sistemi anglosassoni non è difficile trovare decisioni in cui si giustifica il potere disciplinare del giudice sull’avvocato come segue: «The primary duty of courts is the proper and efficient administration of justice. Attorneys are officers of the court and the authorities holding them to be such are legion. They are in effect an important part of the judicial system of this state. It is their duty honestly and ably to aid the courts in securing an efficient administration of justice. The practice of law is so intimately connected and bound up with the exercise of judicial power and the administration of justice that the right to define and regulate its practice naturally and logically belongs in the judicial department of our state government» [36] .

A ciò s’aggiunga che in molti (e importanti) ordinamenti europei, se la prima istanza disciplinare è nelle mani degli ordini professionali (o di organismi ad essi collegati), il secondo grado è sempre di competenza giurisdizionale (Francia, Germania, Paesi Bassi, Svezia, etc.), laddove da noi giudice disciplinare d’appello è il CNF e solo per questioni di diritto è possibile ricorrere in Cassazione, dopo il doppio passaggio tramite gli ampi «filtri» corporativi generosamente applicati in primo e secondo grado.

In secondo luogo va rilevato che l’Italia è il Paese europeo (e probabilmente mondiale) che annovera il più alto numero di avvocati per abitante e per giudice.

Ora, pur non volendo entrare nella polemica sull’eccessivo numero degli avvocati come causa di contenzioso inutile e di abusi nel processo (ciò di cui sono, prima ancora che fermamente convinto, quotidiano ed impotente testimone), non posso fare a meno di osservare che vi sono dati che dovrebbero far meditare.

Gli avvocati sono oggi in Italia 240.000 (contro, ad esempio, i 47.000 della Francia) ed aumentano al ritmo di 15.000 unità l’anno. Un terzo degli avvocati di tutta la UE è italiano. Il 93% dei giovani laureati in giurisprudenza finisce per fare l’avvocato, spesso come soluzione di ripiego.

Una situazione di questo genere ha determinato quasi inevitabilmente un’impennata nel tasso di aggressività di queste persone, tanto nei confronti dei colleghi, che nei riguardi del giudice: con un «effetto moltiplicatore» dovuto ad una campagna di quotidiana denigrazione della magistratura da parte dello stesso capo del governo (e dei numerosi organi di disinformazione in suo esclusivo possesso), ingaggiata a partire dalla metà degli anni Novanta dello scorso secolo e proseguita, come fin troppo noto, per un numero consistente di lustri.

Dopo quasi 33 anni di esercizio della professione, posso assicurare che la situazione è radicalmente mutata rispetto a quella dei miei esordi. Un tempo, la parte che perdeva la lite, al massimo, proponeva appello. Oggi, sembra quasi che gli avvocati, prima ancora che i loro clienti, non riescano (o non vogliano?) comprendere che il giudice – con tutta la buona volontà – non può dar ragione, per forza di cose, ad entrambi i contendenti. L’appello diviene così solo l’ultima risorsa. In primis l’avvocato (o, per lui, il cliente) sporge nei confronti del malcapitato magistrato – reo di avergli dato torto – denuncia, querela, esposto al CSM, o, sempre più spesso, ai capi degli uffici (e, con un po’ di fortuna per gli autori di siffatte bravate, se i destinatari delle missive appartengono alla categoria di quelli che chiamo magistrati amanti del quieto vivere, l’avvocato si vede pure data ragione, senza neanche che il capo si premuri di chiedere, non dico il parere del malcapitato magistrato, ma, neppure, quello dell’altra parte processuale!).

Molti, addirittura, si «portano avanti», minacciando velatamente (a volte neanche troppo!) il giudice prima ancora che egli emetta la decisione. Sempre più spesso, poi, quanto sopra è preceduto da quella che io chiamo le «esercitazioni di tiro a segno» nei confronti del c.t.u., rispetto al quale l’avvocato comincia, per così dire, ad allenarsi, per poi alzare il tiro verso il giudice, se soltanto s’azzarderà a seguire la consulenza sgradita.

Ed è qui che il problema dell’efficienza (la necessità di limitare drasticamente il numero spropositato di domande e, per converso, di resistenze in giudizio infondate) viene a ricongiungersi inevitabilmente con quello dell’indipendenza del giudice. Dell’indipendenza non tanto (e non solo) «esterna» della magistratura nel suo complesso, bensì di quella, non meno importante, «interna» del singolo magistrato, chiamato a prendere decisioni talora scomode, nella più totale solitudine, sovente senza neppure l’appoggio morale di quei «superiori», che invece dovrebbero aiutarlo a tenere la schiena dritta di fronte a manovre aggressive (e, in fin dei conti, estorsive ed aggressive).

Posto, dunque, che l’attacco al giudice è divenuto ormai un modus operandi quasi quotidiano di un numero ogni dì crescente di avvocati, vi è il serissimo rischio che un numero crescente di colleghi e colleghe, per quieto vivere, finisca, come dire, per «adattarsi». In fondo con un minimo di esperienza è facilissimo capire quale, tra i due legali, potrà (per usare un eufemismo) «dare fastidio»: basta vedere il piglio (e la scorrettezza) con cui taluni menano fendenti verso l’avversario, attaccano i testi in udienza, o, addirittura, il c.t.u. (parlando a nuora perché suocera intenda…). Paradossalmente posso dire che in quasi 33 anni di attività non ho mai sentito la mia indipendenza minacciata da colleghi, dall’esecutivo, o dal legislativo. Da alcuni anni, invece, comincio a sentirmi in taluni casi fortemente imbarazzato, minacciato dall’atteggiamento di certi avvocati (e avvocatesse: almeno in questo settore, va detto che la parità di genere è stata… veramente conquistata!).

Sovente mi è capitato di parlare di questi problemi con colleghi di common law, ed anzi ho avuto anche il privilegio di essere chiamato a presiedere con loro udienze, ad esempio, in Australia, toccando con mano tremante e con mente sconcertata la profondità dell’abisso che ci separa. Ora, in quei sistemi il problema cui ho fatto riferimento non si pone nel modo più assoluto. E ciò per l’evidente ragione che lì il giudice non ha il mero potere di segnalare eventuali comportamenti scorretti ad un Consiglio dell’Ordine che, inevitabilmente (per lo meno, così accade da noi), insabbierà il caso, ma può procedere direttamente contro l’avvocato (o la parte, o un terzo) per Contempt of Court [37] .

Proprio per questa ragione posso vantare la piccola soddisfazione di essere riuscito a far inserire nell’ Explanatory Memorandum della già citata Raccomandazione R (12) 2010 la considerazione per cui (cfr. art. 21 del citato Memorandum) «The Recommendation calls for all necessary measures to be taken to protect and promote the independence of judges. These measures could include laws such as the “contempt of court” provisions that already exist in some member states (Recommendation, paragraph 13)».

In conclusione, non potendo certo sperare che i nostri illuminati governanti traggano esempio da quei saggi principi normativi che danno al giudice di common law il potere di difendersi da sé contro gli attacchi alla sua indipendenza, non rimane che augurarsi che, considerati i tempi bui in cui viviamo, il nostro organo di autogoverno sappia, quanto meno, scegliere capi degli uffici che, lungi dal rifugiarsi nel placido ruolo di «passacarte disciplinari», sappiano darsi la forza e il coraggio necessari ad aiutare i loro giudici a tenere, come dico io, «la schiena dritta» davanti alla crescente tracotanza del ceto forense, se vogliamo continuare a contare su di una magistratura composta d’individui veramente indipendenti ed autonomi.

 

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 [1]  Per ulteriori informazioni rinvio al sito web dell’UIM, all’indirizzo http://www.iaj-uim.org.

 [5]  Su cui cfr. Oberto, La raccomandazione del Consiglio d’Europa sul tema: «Indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici», https://www.giacomooberto.com/coe_raccomandazione_2010/Oberto_raccomandazione_2010_CoE.htm.

 [10]  Cfr. art. 14: «In countries where the public prosecution is independent of the government, the state should take effective measures to guarantee that the nature and the scope of the independence of the public prosecution is established by law». Va riconosciuto, in tutta onestà, che nemmeno Monsieur de la Palice avrebbe saputo far di meglio!

 [11]  Cfr. Corte cost., 18 gennaio 1989, n. 18. Sul tema si fa rinvio a Oberto, La responsabilité civile des magistrats en Italie, https://www.giacomooberto.com/Oberto_La_responsabilite_civile_des_magistrats_en_Italie.htm.

 [12]  Per una panoramica delle reazioni cfr. l’apposita pagina web predisposta dall’Unione Internazionale dei Magistrati: http://www.iaj-uim.org/solidarity-news-and-documents-about-yarsav/.

 [13]  Cfr. http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-115871 (in partic. p. 21 della motivazione).

 [14]  Cfr. http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-159769 (v. la parte della motivazione posta sotto il titolo «international materials»).

 [15]  Sul ruolo della Corte di Strasburgo nella tutela dell’indipendenza della magistratura prima dei due arresti citati nel testo si fa rinvio a Oberto, Judicial Independence and Judicial Impartiality: International Basic Principles and the Case-Law of the European Court of Human Rights (Turin – 2012), https://www.giacomooberto.com/munich2012/independence.htm.

 [16]  Sul punto si fa rinvio a Oberto, Judicial Independence in its Various Aspects: International Basic Principles and the Italian Experience, dal 14 febbraio 2013 disponibile al seguente indirizzo web: http://giacomooberto.com/reportkiev2013.htm.

 [17]  Una semplice occhiata alla pagina dedicata al tema «rule of law» nel sito web del Consiglio d’Europa – http://www.coe.int varrà a fornire una prima, ancorché approssimativa, idea al riguardo.

 [20]  Cfr. la CEPEJ-STAT dynamic database, disponibile al seguente sito web: http://www.coe.int/T/dghl/cooperation/cepej/evaluation/2016/STAT/default.asp.

 [21]  Cfr. http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/cepej/Delais/default_en.asp. Sul tema v. anche Oberto, Study on Measures Adopted in Turin’s Court (“Strasbourg Programme”) along the lines of “SATURN Guidelines for Judicial Time Management”, https://www.giacomooberto.com/study_on_Strasbourg_Programme.htm; Id., La CEPEJ e il Tribunale di Torino (breve relazione sull’attivita svolta dal Réseau des Tribunaux référents de la CEPEJ e dal Groupe de pilotage du Centre pour la gestion du temps judiciaire « SATURN »), https://www.giacomooberto.com/cepej_per_sito.htm.

 [22]  Cfr. http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/cepej/quality/default_en.asp. Sul tema v. anche Oberto, Enquiry into the “Customer Satisfaction Survey in Turin Courts” (2013 Edition), https://www.giacomooberto.com/Oberto_report_survey_satisfaction_2013.htm.

 [24]  Sul tema sia consentito rinviare a Oberto, La motivazione delle sentenze civili in Europa: spunti storici e comparatistici, dal 17 gennaio 2009 disponibile al seguente sito web:  https://www.giacomooberto.com/milano2008/sommario.htm (v. in particolare i §§ 6-16).

 [25]  Cfr. artt. 202 e 203 c.p.c. francese; sul punto v. anche Oberto, Les éléments de fait réunis par le juge : l’administration judiciaire de la preuve dans le procès civil italien, in Revue internationale de droit comparé, 1998, p. 779 ss.

 [26]  Cfr. http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Relazione_Corti_Supreme_08.pdf (ricerca a cura dell’Ufficio Massimario della Suprema Corte di Cassazione).

 [27]  Cfr. https://www.supremecourt.uk/decided-cases/index.html. Si noti che, per quel che riguarda la Corte suprema degli Stati Uniti, nel 2009 solo 8.159 casi (civili e penali) sono approdati all’esame della più alta istanza giudiziaria americana con un aumento del 5,4% rispetto all’anno precedente. Di questi, peraltro, solo una piccolissima parte viene esaminata, essendo necessario che almeno 4 dei 9 giudici chiedano di esaminare il ricorso.

 [28]  Cfr. Cass., Sez. Un., 15 ottobre 2003, n. 15399.

 [29]  Cfr. Corte cost., 29 dicembre 2000, n. 585; v. anche Corte cost., 31 dicembre 1986, n. 301.

 [30]  Cfr. Cass., 8 gennaio 2007, n. 91.

 [31]  Cfr. il nouvel article L. 331-2 del Code de l’organisation judiciaire; informazioni al riguardo sono disponibili ad es. in https://www.dictionnaire-juridique.com/definition/dernier-ressort.php. Da notare che il sistema francese, pur prevedendo dal 1° gennaio 2017 l’abolizione dei juges de proximité e il trasferimento delle relative controversie ai Tribunaux d’instance, continua a stabilire (cfr. art. R223-1 del Code de l’organisation judiciaire, come stabilito dal Décret n° 2008-522 del 2 giugno 2008 - art. (V), che «Le tribunal d’instance connaît des actions mentionnées au premier alinéa de l’article L. 223-1 en dernier ressort jusqu’à la valeur de 4 000 euros et à charge d’appel jusqu’à celle de 10 000 euros. Il connaît à charge d’appel des actions mentionnées au deuxième alinéa de cet article. Il connaît, en dernier ressort jusqu’à la valeur de 4 000 euros et à charge d’appel jusqu’à celle de 10 000 euros, des actions mentionnées au troisième alinéa du même article».

 [32]  «There is a need for a permission from a higher court in order to be able to appeal. There is a time limit of 21 days within which   a party can appeal. Time limitations relating to appeals from Court of Appeal to House of Lords is 1 month from the date when the order was made or 3 months if permission is granted form Court of Appeal. The permission   can be granted by a lower court or appeal court and there are two grounds for the appeal to be granted. According to Civil Procedure Rules CPR 52.3 the appeal must have a real prospect of success and there is some other compelling reason why the appeal should be granted.  There are a few exceptions when there is no need for a permission to be granted. If the lower court allows the appeal when it made the decision, the application to appeal should be made orally, if the appeal was not granted, the applicant should apply to appeal court in the form of appellant’s notice. The appeal court will then consider the application, if this is refused the appellant has the right for this application to be reconsidered orally however if this is refused there is no further right to appeal against this decision» (cfr. http://www.inbrief.co.uk/court-judgements/right-to-appeal/).

 [34]  Cfr. Di Monte, Il “nuovo” filtro in appello e i persistenti dubbi sulla modifica dell’art. 342 c.p.c., http://www.diritto.it/docs/36292-il-nuovo-filtro-in-appello-e-i-persistenti-dubbi-sulla-modifica-dell-art-342-c-p-c/download?header=true.

 [35]  Cfr. il  Resoconto stenografico dell’Assemblea della Camera dei Deputati, del giorno 24 marzo 2015 (seduta n. 398 – XVII Legislatura), in http://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0398&tipo=stenografico.

 [36]  Cfr. Corte Suprema Utah, In Re Integration & Governance of Utah St. Bar, 632 P. 2d 845 (1981).

 [37]  Cfr. ad esempio quanto stabilito nel Regno Unito dal Contempt of court act del 1981:

«12

2 Offences of contempt of magistrates’ courts.

(1)A magistrates’ court has jurisdiction under this section to deal with any person who—

(a)wilfully insults the justice or justices, any witness before or officer of the court or any solicitor or counsel having business in the court, during his or their sitting or attendance in court or in going to or returning from the court; or

(b)wilfully interrupts the proceedings of the court or otherwise misbehaves in court.

(2)In any such case the court may order any officer of the court, or any constable, to take the offender into custody and detain him until the rising of the court; and the court may, if it thinks fit, commit the offender to custody for a specified period not exceeding one month or impose on him a fine not exceeding [F14£2,500], or both.

(…)

(4)A magistrates’ court may at any time revoke an order of committal made under subsection (2) and, if the offender is in custody, order his discharge.

(…)

14. Proceedings in England and Wales.

(1)In any case where a court has power to commit a person to prison for contempt of court and (apart from this provision) no limitation applies to the period of committal, the committal shall (without prejudice to the power of the court to order his earlier discharge) be for a fixed term, and that term shall not on any occasion exceed two years in the case of committal by a superior court, or one month in the case of committal by an inferior court.

(2)In any case where an inferior court has power to fine a person for contempt of court and (apart from this provision) no limit applies to the amount of the fine, the fine shall not on any occasion exceed [F20£2,500]».

RAI NEWS: MATTARELLA VA DA MACRON A CONSEGNARE IL CADAVERE DELL'ITALIA ALLA UE

 

EUROPA La visita ufficiale Mattarella da Macron, garante asse con Parigi per una nuova Ue Tweet Macron e Mattarella in una foto di repertorio (GettyImages) 04 luglio 2021 La prima visita di Stato dopo quella di Giorgio Napolitano nell'ottobre del 2012, la prima all'estero di Sergio Mattarella dopo la pandemia: è cominciata questo pomeriggio fra le bandiere italiane che sventolano tra quelle francesi dagli Invalides agli Champs-Elysées la tre giorni del presidente della Repubblica a Parigi. Una missione di importanza cruciale, che vuole essere anche il sigillo ad un legame che oggi Parigi ha definito "unico" fra i due Paesi e ad un rapporto personale di amicizia con Emmanuel Macron che ha permesso ai due Paesi di superare il momento più difficile degli ultimi anni. Era il primo maggio di due anni fa quando Mattarella sbarcò in Francia dopo i mesi di gelo fra i due governi, culminati nel richiamo a Parigi dell'ambasciatore Christian Masset. Erano i tempi dei malintesi e delle incomprensioni, ma i due presidenti della Repubblica seppero voltare pagina con una memorabile visita ai luoghi dove abitò Leonardo da Vinci nei suoi ultimi mesi di vita. Oggi, più di due anni dopo, il ministro per gli Affari Europei, Clément Beaune, l'uomo più vicino a Macron nel governo, ha parlato di "un legame europeo unico fra i nostri due Paesi, essenziale ed ancora sottovalutato". La visita, che entrerà nel vivo domani mattina quando Mattarella sarà ricevuto all'Eliseo, proseguirà nel pomeriggio quando il presidente pronuncerà un discorso alla Sorbona. Al suo arrivo, oggi, primo appuntamento al museo della ceramica di Sèvres, alle porte di Parigi, poi il rientro nell'hotel del centro di Parigi dove il capo dello Stato ha ricevuto la gradita visita di Giorgio Armani. Tanti i temi e i risvolti di questo rapporto tra Francia e Italia che si rafforza e che sarà suggellato entro l'anno anche da un trattato di cooperazione rafforzata, quel 'trattato del Quirinale' messo in cantiere in un incontro bilaterale fra i due governi quando a guidare quello italiano c'era Paolo Gentiloni. "Sono quarant'anni che non c'erano relazioni così buone tra Francia e Italia", ha detto lo studioso Jean-Pierre Darnis intervistato in questi giorni da Le Figaro. Al posto numero 1 dell'agenda di Roma e Parigi degli ultimi mesi c'è stata l'iniziativa del grande piano di rilancio europeo per uscire dalla crisi della pandemia, una rivoluzione rispetto all'approccio rigorista che era stato rappresentato a lungo dalla Germania. E per vincere la sfida più grande, i due governi si sono presentati insieme. Con l'arrivo di Mario Draghi alla guida del governo, i rapporti fra Roma e Parigi grazie anche al rapporto particolarmente caldo con Macron si sono ulteriormente rafforzati, a tutti i livelli. Antichi dissidi come quello sulla presenza in Francia degli ex brigatisti degli anni di piombo sono stati risolti negli ultimi mesi, con Macron che ha risposto alle richieste di estradizione italiane che si ripetevano invano da 25 anni. Anche la rivalità in Libia ha ceduto il passo alla comune constatazione che a trarne vantaggio sarebbero state soltanto Turchia e Russia. - See more at: http://www.rainews.it/dl/rainews/articoli/mattarella-a-Parigi-da-Macron-tra-noi-un-legame-unico-b4062aa5-db43-4fcd-bf39-3b2c37cc65e8.html

Supermario: l'ultima spiaggia della peggior classe dirigente dell'occidente, altro che nuova speranza

 

Super Mario

With the former ECB President Mario Draghi at the helm, Italy is finally making a comeback as a major European player.

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EU Commission President Ursula von der Leyen and Italien PM Mario Draghi
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Since Mario Draghi took the reins of the Italian government last February, following the political crisis triggered by the former prime minister, Matteo Renzi, and the subsequent collapse of the second government led by Giuseppe Conte, Italy appears to be moving once again to the center stage, especially when it comes to its role in Europe. This impression might have been enhanced by the victory of an Italian rock band at the Eurovision Song Contest in May or by the strong performance—so far—of the Italian soccer team at the European Championship. But it is first and foremost thanks to the new government’s leader, who combines very deep technical expertise with shrewd political acumen, accumulated in various high-level positions in the Italian public administration and international institutions, and who enjoys a level of credibility and trust among fellow European leaders rarely granted to Italian prime ministers in the recent past.

The expectations are high both in Italy and in Europe for the man who “saved the euro in the middle of a crisis with one phrase,” as the British Prime Minister Boris Johnson put it at the latest G7 summit, or “Super Mario,” as the press started to call him during his tenure as president of the European Central Bank. And indeed, his achievements in the first 100 days of government are promising: Italy was by mid-June in the top three countries in the European Union, together with Germany and France, in terms of number of people fully vaccinated, has submitted its National Recovery and Resilience Plan to the European Commission with a view to receiving about €209 billion in grants and loans, and is planning an impressive series of long-awaited reforms, from public procurement and concessions to competition and justice.

What are the main ingredients of Mario Draghi’s recipe for Italy’s recovery and foreign policy, at the European and international level?

Achieving Mission Impossible

Draghi’s government is based on a broad coalition formed by all the main political parties, with the exception of Giorgia Meloni’s far-right Brothers of Italy. During his first months in office, Draghi has proved to be able to manage such a diversified political composition, which holds together Enrico Letta’s center-left Democratic Party with Matteo Salvini’s extreme-right Lega, Silvio Berlusconi’s center-right Forza Italia with the populist Five Star Movement, presently engaged in a power struggle between former Prime Minister Giuseppe Conte and the movement's founder, Beppe Grillo, plus a number of smaller parties, including Matteo Renzi’s Italia Viva and others. It might seem a mission impossible, but not for Super Mario, who managed to gain support by forming a government that is composed of both technical and political members—but assigning the responsibility for the key economic, infrastructure, and digital matters to trustworthy technocrats.

He has also managed with a steady hand any demands coming from political leaders that could weaken the coalition, from Letta’s proposal to introduce a tax for millionaires to be devolved to young people to Salvini’s campaign for an early lifting of coronavirus restrictions. Most of these have been swiftly brushed aside by the prime minister, conscious that the size of his parliamentary majority means that he can play one leader off against the other. For this reason, many observers have started to talk about a “Pax Draghiana,” which would most probably survive the election of the next president of the Italian Republic in 2022 and see out the current legislative period until elections in 2023.

Once-in-a-Lifetime Opportunity

Some observers may be inclined to compare the current situation in Italian politics with previous occasions, when a “government of experts” was formed as a solution to an acute political crisis. The last one was in 2011, which was led by Mario Monti and succeeded Silvio Berlusconi’s government. And yet, this is a completely new situation in many respects. In particular, Draghi’s government is not associated with a “blood and tears” economic policy and this allows him to enjoy also a good level of public support. European Commission President Ursula von der Leyen recently handed over the scorecard on Italy’s National Recovery and Resilience Plan in the picturesque setting of Cinecittà, which will make Italy the first recipient of loans and grants agreed within the framework of the Next Generation EU package, with €25 billion arriving in Rome already in July. As Draghi has clearly stated, this is a once-in-lifetime opportunity for Italy to recover through the application of huge resources but also dramatic reforms, which should be implemented with a tight program over the summer.

This renewed steadiness at home, together with Draghi’s strong personal relationships with his fellow European leaders, and particularly with German Chancellor Angela Merkel, are excellent credentials for a more assertive presence of Italy in the European arena. After the resetting of European alliances towards the Visegrád countries and the criticism of Europe promoted by the Conte I government formed by the Lega and the Five Star Movement in 2018 and the difficult rehabilitation pursued in the midst of the pandemic pursued by the Conte II government, it is time for Italy’s comeback as a relevant player at the European level.

This starts first and foremost with a consolidation of traditional alliances on key priorities of the European agenda: health, migration, Libya, climate change. And in fact, these topics were prominent during Draghi’s first two official visits to Spain’s Prime Minister Pedro Sánchez and Chancellor Merkel, which had also the clear intention of reinforcing the Mediterranean and the German-Italian axes in Europe. The Italian President Sergio Mattarella is covering the French flank, with a view to normalizing and relaunching the relationship after the disagreements over industrial interests and Libya that characterized the most recent years.

The Two Pillars

More and more, Italy seems to be destined to play an active role in Europe, at a level equal to its historical, demographic, and economic weight, and to assert itself both as a third party to the Franco-German engine and a pivot for Europe’s Mediterranean policy. This outcome is also favored in the current European context, without the United Kingdom and with the uncertainty linked to the forthcoming elections in Germany and France as a destabilizing factor for those two countries.

Draghi’s Italy is also resolute in reaffirming its traditional international position alongside its transatlantic ally, the United States, regarded as both a glue to ensure unity among the big European states while preventing an excessive Franco-German centrality, and as an external supporter of Italy's role in Europe and in the Mediterranean. In Draghi’s view, Europeanism and Atlanticism are closely entwined: not only are they the “two pillars of Italian foreign policy” as he declared at the latest G7 summit after his bilateral meeting with US President Joe Biden, but Atlanticism is also a necessary bond for Europeanism. Draghi’s appeal for a stronger transatlantic link is also a message to those political forces in his coalition that had shown a tendency in the recent past to privilege ties with systemic rivals such as China and strategic competitors such as Russia, namely the Five Star Movement and the Lega.

Last but not least, Draghi is preparing to display his powers of bringing people together as president of the forthcoming G20 summit in October 2021, where he will try to strike a deal on sensitive and crucial issues such as climate change, global finance, and vaccines. In some ways he could thus be seen as taking on Merkel’s role as the finder of compromises and forger of alliances, just as she is leaving the global political stage.

Draghi’s honeymoon is a temporary passage in Italian political life, born from a political crisis caused by the public health emergency. It is destined to give way to the normal dynamics of political confrontation and different approaches in the management of public affairs. Nevertheless, it appears that the current Italian prime minister is both willing and able to make the most of it, internally and externally, to trigger reforms and ensure a sustainable recovery. A wealthy and reliable Italy, solidly European and transatlantic with a Mediterranean projection, cannot but benefit its citizens, and be an asset to the European Union and its international partners. 

Nicoletta Pirozzi leads the EU politics and institutions program at the Istituto Affari Internazionali (IAI) in Rome.

IL COLLASSO DELLA UE SI STA TRASCINANDO DAI REFERENDUM COSTITUZIONALI DEL 2005 ED ORA E' GIUNTO AD UN CAPOLINEA: LA MACCHINA NON PUO' FUNZIONARE SENZA ESSERE RESPONSABILE VERSO I POPOLI EUROPEI.

 

How real is the danger of an EU collapse? My verdict: It’s receding

John Bruton *, former Prime Minister of the Republic of Ireland

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The International Institute for Middle-East and Balkan Studies (IFIMES) in Ljubljana, Slovenia, regularly analyses events in the Middle East and the Balkans. John Bruton, former Prime Minister of the Republic of Ireland has analyzed the situation in European Union and its future. His article entitled How real is the danger of an EU collapse? My verdict: It’s recedingis published below.

How real is the danger of an EU collapse? My verdict: It’s receding

Popular sentiment and necessity are pulling Europe in opposite directions. The popular sentiment that drove the EU forward over the last 60 years is weakening just as the Union needs to take on new tasks if it is to avoid a collapse in European finance. This is due to a combination of general social trends and two very specific pressures.

The general social trend is historical forgetfulness. Europe at peace for almost 70 years has forgotten why European unity was such a priority. Nationalist sentiment is indulged as if it were free of consequence.

Another social trend is a lack of understanding among the general public in all EU countries of how much their livelihoods depend on economic decisions elsewhere, and of how unrealistic an “ourselves alone” policy now is. This failure in understanding has a structural cause. Electoral politics are still local and national, whereas the issues they have to tackle are often global. Politicians are forced to pretend they can find national solutions to economic difficulties, whereas national actions will never provide more than part of the answer. Public opinion has no adequate democratic vehicle for educating or expressing itself beyond national boundaries. There is no electoral pressure to learn what people in other European countries are worried about, or to think outside national terms.

The two specific pressures now putting stress on the EU are the euro crisis and the growing desire of the UK to have a different type of relationship with the EU. The euro crisis is forcing the EU to deal with all the issues that were postponed when the original design of the euro was agreed. The EU’s powers, budget, own resources and procedures for decision making were left in completely inadequate state relative to the scale of the crisis. So the crisis has had to be tackled outside the traditional community method of EU governance where proposals would have been prepared holistically and adopted by majority.

The crisis is instead being dealt with on an inter-governmental basis, the way Europe dealt with its problems as long ago as the Congress of Vienna of 1815 and even before that. Decisions have to be unanimous between 27 (or in the eurozone’s case 17) heads of government, who each have the “day job” of running their own country. They are able to turn to EU issues over long weekends, but even then their mandates oblige them to look at EU issues primarily through the prism of national interest. The brinkmanship and bargaining, that is an inevitable part of such an approach makes it impossible to present any broad visions to the European public. The euro crisis is being made all the harder to manage by the fact that the UK is not in the euro, but must co-operate if EU institutions are to be used to solve euro area problems. Meanwhile, the UK is pursuing an entirely different agenda of its own. This difficulty is illustrated by the fact that the euro’s Fiscal Compact treaty had to be brought into effect outside EU structures because the UK wasn’t satisfied with concessions regarding its own particular interests. This type of conflict is liable to occur again in the future. The risk is that these pressures will undermine the instinct for compromise, that enabled a smaller EU to overcome the much smaller problems of the past. Existential threats do now face the European Union, so it’s worth beginning with what Europeans might lose if the EU were to founder.

The European Union is an historically unprecedented international institution-building project. It is the first ever voluntary coming together of sovereign states, pooling some of their sovereignty so that they could do more together than separately. It has no comparable historical precedent. Almost every other political unification or state building in history has involved the use of force. The creation of most European states, including the UK, and the maintenance of the unity of U.S. involved force. By contrast, the EU came together peacefully and voluntarily without coercion of any kind. Some argue that the EU was only necessary to cement the post-war reconciliation of Germany and France, and that now that that’s achieved and a free trade area created the Union has done its job and it needs no further development. This is wrong for two reasons. First, the queue of states lining up to join the EU shows that it still provides a political and economic umbrella under which the reconciliation between states and their mutual security can be assured. That’s why the Baltic states, Poland and other central European countries joined, and it is the reason several Balkan states and even Georgia and Ukraine, might like to do so. It is also why Greece, to the surprise of many, has favoured Turkish membership.

The United States of America is remarkably successful in many ways, but there is no queue of other American states lining up to join. Even Puerto Rico has not done so after more than 100 years of Washington rule and non-voting representation in Congress.

Second, the EU is the world’s most advanced effort to provide a measure of democratic supervision of globalisation, with two key differences between the EU and other efforts like those of the United Nations and the World Trade Organisation to supervise globalisation. The EU has a directly-elected Parliament which co-legislates for the EU alongside the 27 member governments, who often decide issues by majority. These are characteristics not generally found in other international organisations. These other organisations operate on a purely inter-governmental basis, which means that there has to be unanimity to get a decision and that democratic involvement only arises after a deal has already been negotiated in private. And that democratic involvement is ratification in national parliaments without the possibility of further negotiation or amendment. The result of these two important differences is that organisations like the WTO and the UN can do much less than can the EU. The EU offers a unique model for democratic rule-making, at supra national level, something which will become more necessary as we advance further into the 21st century.

The world’s failure to deal with climate change is a good example of the weaknesses of inter-governmental global governance. If the different regions of the world were like the EU and could negotiate seriously, because they carry with them large blocs of countries on a basis of genuine political legitimacy, Copenhagen and other failed climate change summits would not have happened. If the EU were to break up, either because of the collapse of the euro or because a major country like the UK feels it has to exercise its right to leave the EU, and either event were to set off a breakdown of the trust that keeps the EU together, we would have lost a unique instrument for building security in Europe and for problem solving in the wider world.

There are two existential threats to the EU, the euro crisis, and the UKs possible desire to leave, and both demand deeper analysis. A break-up the euro is undoubtedly by far the more serious threat to the EU because the scale of the economic losses is potentially so much greater, and the means of controlling those losses much less. As 2013 dawned,the euro crisis appeared slightly less acute than before. The announcement of a new bond buying policy by the European Central Bank calmed the markets, even though there can be no doubt that the markets will test the ECB’s will power at some stage. Meanwhile, the link between the solvency of European banks and the solvency of European states has not been removed. It isn’t clear yet that the European Stability Mechanism (ESM) will invest directly in Spanish banks, or that the Irish state will be relieved of some of the burden it undertook to prevent Europe-wide contagion at the time of the collapse of an Irish bank to which non-Irish banks had lent inordinately. A default by any EU state would wreck the banks of that state, because each state’s banks tend to be big purchasers of its bonds. The collapse of one bank in any eurozone state would force its government to inject capital into other banks to avoid a run on banks generally and the spreading of contagion to other countries. The confidence loss caused by a major bank getting into difficulty could lead to a dramatic collapse in state revenues, leaving it with a much increased budget deficit, just as it was having to recapitalise the bank.

To resolve these problems, four things have to happen more or less at the same time.

  • Greek government debt will have to be forgiven.
  • The ESM has to be seen as big enough to stand on a contingency basis, behind Spain and other countries that may get into difficulty.
  • New mechanisms to supervise and if necessary rationalise Europe’s banks have to be put in place.
  • The reforms agreed to reduce deficits and promote growth by opening up to freer competition jobs and services markets will have to be fully implemented in letter and spirit to show creditors that debt-forgiveness or an enlarged ESM doesn’t mean throwing good money after bad.

Some progress has been made, but it’s far from certain the Greek debt issue has been adequately tackled. There’s still a risk that dealing with the problem is being postponed until after Germany’s September elections. It’s a delay that may add to the overall cost of the solution, although it does allow time for Greek reforms to establish credibility. And that the time must also be used to educate public opinion in creditor countries like Germany of the true consequences of a euro break-up. One of the reasons growth potential has been so low in Greece, Italy and Spain is the lack of competition or flexibility in key sectors. This has also masked deep unfairnesses in society, with some groups able to overcharge for their services but others are driven into marginal, badly paid and precarious jobs. There are also major failures in the educational systems of many southern European countries, where disproportionately large numbers leave school early or fail to complete courses.

The EU has now enacted a raft of legislation, including the Fiscal Compact treaty, to ensure that countries reduce their deficits and liberalise their labour and service markets. But education is outside the EU’s mandate. Looking to the wider picture, Germany is not yet satisfied with progress so far, and wants an EU Commissioner given the power to veto national budgets, and enforce reforms. Yet Germany itself and France, along with other core countries could be doing a lot more to open up digital, financial, energy, retail and professional services markets. Germany set a good example in labour market and pension reform at the beginning of this century, but there are other reforms it could initiate now that would help other EU countries to sell more goods and services into the German market and so trade their way out of their economic problems.

In Germany and elsewhere, political resistance to further debt forgiveness for Greece is understandable but a Greek exit from the euro would be far more dangerous. That needs to be explained to public opinion in Germany and all EU countries. A Redemption Fund such as that proposed by the German government Council of Economic Advisors would be one way of allowing the possible mutualisation of some sovereign debt; and just the possibility of that could stabilise sovereign debt markets even if never activated. But the negotiations that might lead to this are proceeding very slowly and in the meantime things could easily go wrong. Even a disorderly default by a country within the euro would have far less severe consequences than the exit of a country from the euro. Some northern Europeans believe that an orderly exit of Greece from the euro might be contemplated if accompanied by a huge fund that would be much bigger than the existing ESM to stand behind all other troubled eurozone states. The hope is that this would be enough to prevent a Greek exit from leading to a loss of confidence in the financial positions of the rest of the eurozone. It’s a view that is profoundly mistaken.

The whole EU edifice rests on law; the EU has no police force to enforce its will and relies on member states respecting the European Court of Justice’s interpretation of EU law and then implementing its decisions, however unpleasant that may be. The exit of a country from the euro would quite simply be a flagrant breach of treaty obligations which have all the force of law. The euro was established on the basis that it is irreversible, so Greek exit, particularly if condoned or even encouraged by other members, would say loudly that the euro is not irreversible. That would lead to constant speculation in the markets as to who would be next. And as speculation increased, so too would the size of the funds or guarantees needed to check it. That in turn would lead to a heightened risk that some creditor countries that would have to provide funds and guarantees might decide to exit the euro themselves and re-establish their own currencies. It’s a spiral that would quickly end the euro.

Break-ups of currency unions have happened before, in Austria-Hungary after World War I and in Eastern Europe in the 1990s when the rouble zone broke down. As Anders Aslund of the Washington-based Peterson Institute of International Economics put it recently, the consequences were truly disastrous. And if it were to happen to the euro, new currencies would have to be established, with the relative value of these currencies unknowable; some would lose value very quickly, and the worth of others would shoot upwards. Exports would in some cases become dramatically uncompetitive, and in others they would be so cheap there would be accusations of dumping, currency manipulation and calls for the immediate re-introduction within Europe of import duties. That would end the Single Market and be tantamount to the break-up of the European Union itself. The open markets on which a country like Ireland built its whole economy over the last 50 years would be gone.

In some EU countries the banking system would break down, and people would have no access to credit for even the most basic transactions. In others, people would cease to trust the value of their own money. Money is based, after all, on a promise so if people can no longer trust the states that stand behind the promise underlying their money, the basis for money itself is gone. This isn’t fiction; it is what happened when the rouble zone broke up in the 1990s and explains why incomes fell by 50% in former rouble zone countries. And exporter/creditor nations within the rouble zone like the Russian Federation suffered just as much hardship as importer nations like Latvia and Estonia. The political stresses entailed in such a scenario for the 500m people of the EU and their governments would be such that trust between European nations could easily break down.

We have already seen some signs of this, but these are being held in check by hopes that Europe’s problems can still be resolved collectively. But a break-up of the euro would show that it has been impossible to resolve matters on a collective basis, and it would then be a case of every nation for itself. As if Europe doesn’t have enough problems, one important country, the United Kingdom of Great Britain and Northern Ireland, is preparing to renegotiate the terms of its EU membership and hold a referendum on the outcome, which potentially would decide whether the UK stays or leaves.

The first thing to be said is that the UK is entirely free to do this. Unlike other Unions such as the United States or the UK itself, the European Union is a treaty-based Union which states are free to leave so long as they fulfil their normal obligations under international law which arise when any country withdraws from any international treaty. The UK has from the outset been an uneasy member of the EU. Winston Churchill envisaged a United States of Europe, but he didn’t envisage the UK, which at that time still had a global Empire, being part of it. The UK did not attend the 1955 conference in Messina which led to the treaty of Rome, and when it eventually joined the Common Market, a decision endorsed by a referendum, the idea was sold to the electorate as an economic arrangement when even the most cursory reading of the Rome treaty would have shown it to be much more than that. The UK is now threatening as it is legally entitled to do, to veto the EU’s 2014-20 budget unless there is an absolute freeze on the size of the budget. The difficulty with this stance is not legal, it is political. The EU Single market, which guarantees free movement of people, goods and services, was created as a political deal. Europe’s weaker economies opened up their markets to stronger ones and lifted their protection of local businesses in return for the promise of structural funds to modernise their economies. These funds are provided through the EU budget provides, and although some of the budget still also goes on agricultural support that has fallen from almost 80% to only 30%.

The UK’s EU budget stance is unfair to the new EU member states. In the past, when countries like Ireland, Spain, Greece, Portugal, and even the UK itself, joined the EU, they all qualified for very substantial structural funds for agricultural modernisation, general infrastructure, training, communications and so on. Now, with 12 new central European countries that are relatively far poorer, they are to be told, if the UK sets the freeze it wants, that they won’t get even a fraction of the help other accession countries received. An example of the unfairness came recently from an Estonian government minister who said farmers there have to compete with west European farmers who are getting three times the subsidies. Unless there are drastic cuts elsewhere, this sort of anomaly can only be put right by increasing the whole EU budget.

The UK government has made the budget a red line issue without any debate about what the money is actually spent on, or about what sort of budget is needed if the EU Single Market is to be preserved. The UK wants access to the EU marketplace but isn’t prepared to pay any entry fee. And much the same problem arises in the renegotiation of EU membership current UK government wants. In preparation for this, it is doing a comprehensive audit of all EU laws to identify areas of activity that could be taken back from the EU and administered under UK law. Some good ideas for handing back powers to member states may emerge from this that other members could agree on. But there may also be very real problems if the UK comes up with proposals that suit it but not others. Britain may want to take back yet specified powers, but retain full access for goods and service exports because half of its exports go to the eurozone, whereas only 15% of eurozone exports go to the UK.

All markets are political constructs. The EU Single Market is a product of common rules, regulations and conventions without which nobody could rely on what they were buying. That’s why there have to be common quality standards, as otherwise one country could impose standards, designed to exclude competitors. Rulemaking powers that could be abused in this way cannot be handed back for national decision-making without endangering the whole single market. Competition in any market also has to be fair, and someone has to regulate that. If competitors have different environmental, or product liability standards, or if some companies are operating monopolies or cartels, competition will not be fair. These are matters that cannot be handed back to national authorities and it is important that UK public opinion should understand this.

If the UK decides to draw up a list of EU rules it would prefer to make in Westminster rather than Brussels, the other 26 governments could do the same but would probably come up with very different lists. The process could quickly become bogged down in a serial re-opening of ancient compromises on issues that have little relevance to the urgent existential threat the EU now faces. And If the UK makes proposals that require treaty change, that change will have to be approved in all 27 countries. The UK announcement that it is going to have a referendum on the outcome of the renegotiation may well lead to other countries doing the same, especially if treaty change is involved. Referenda are unmanageable events, and the UK’s renegotiation risks giving an opportunity to others to engage in brinkmanship of their own.

Some people in the UK look back at the precedent of 1975, when Labour prime minister Harold Wilson re-negotiated the EU membership terms accepted a few years earlier by his conservative predecessor Edward Heath. On that basis, continued UK membership of the EU was approved in a referendum. Today they argue that as this tactic worked once it will work again. But this time it will be much more difficult; in 1975 the UK had to negotiate with just eight other fairly similar member states. This time, once Croatia joins in mid-2013, it will face 27 others, with the possibility of some sort of serious political accident much greater. The impression being given is that many in the UK are not thinking very deeply about these things, and that the EU is still regarded by many in the UK as a homogeneous foreign country, not a highly diverse Union. Britain’s membership is seen more as a disposable convenience than as a long-term commitment. If the price of satisfying UK voters is to cause more problems for the “foreigners” in “Europe”, that isn’t seen by some politicians in Britain as such a bad thing.

With genuinely urgent things to do like safeguarding the very existence of the EU, other member states may prove disinclined to devote time to a case-by-case analysis of requests for repatriation of powers or of new UK opt outs. And the European Court of Justice would certainly have difficulty reconciling a special EU menu for one country with the basic freedoms for all on which the EU is based. And then there’s the old question of whether UK ministers and MEPs should continue to have voting rights on things they opt out of. If, as seems likely the UK is still dissatisfied with the results of its renegotiation, the Westminster government will have little option but to recommend to the people in a referendum that the UK withdraws from the EU. Britain’s eurosceptic Tory politicians look to be setting themselves up in exactly that position for 2016. How, then, could the UK protect these interests if it is outside the EU? One possibility is to join Norway, Iceland and Liechtenstein in the European Economic Area, which would guarantee full access for UK goods and services to the EU market. But the price for that would be having to implement all EU legislation that was relevant to the single market, and contribute to the EU budget, but without having any say in EU decisions. This would be worse from a eurosceptic point of view than the UK’s present position, even though it would guarantee continued access for the UK to the EU goods and services market.

The other possibility is to follow Switzerland and negotiate a series of bi-lateral trade deals with the EU. The UK would not be entering such negotiations from a position of strength, because it relies more on the EU market than does the EU on the UK market. Switzerland has negotiated full access to the EU market for goods, but not for services. Services are the UK’s key export sector, so a Swiss-style deal would not be attractive, least of all to the City of London. If Britain were to negotiate a Customs Union with the EU, like Turkey, it would find its trade policies with the rest of the world still determined in Brussels, but with less input from London. Again, under a Customs Union it would only have a guarantee of access to the EU market for goods but not for services. Britain might, of course, simply leave the EU without negotiating any special deal. That would leave it paying tariffs on its exports to all EU member states. In the case of Ireland, it would mean the re-introduction of customs posts along the border and would undermine years of peacemaking by successive Irish and UK Governments.

There has never been passport control within the island of Ireland, but if as a non-EU country the UK wanted immigration controls against immigrants from any EU states it would have to introduce passport checks all along the Irish border, reminiscent of conditions during the worst of the Troubles. Prime Ministers like John Major and Tony Blair invested so much in negotiating a settlement of the “Irish Question”, so it’s amazing that the impact in Ireland of any withdrawal from the EU receives no attention at all from the UK’s eurosceptics. The pressures causing fractures within the EU derive from a lack of understanding among the general public of the extent to which their livelihoods depend on economic developments in other countries. Political leaders make little effort to explain this because to do so would undermine the nationalist myths which brought most states into being in the first place. And because it is often convenient to blame the EU for necessary but unpalatable decisions.

For these reasons, little effort is made to forge pride in the EU’s achievements. No venue has been created in which an EU-wide public opinion might be formed, even though the EU needs more democratic cement to hold itself together. European Parliament elections are not truly European because they are 27 different elections with different electoral systems after campaigns in which national issues predominate. The European Parliament has itself refused to contemplate the election of some members from EU-wide party lists, which might have begun a process of creating an EU-wide debate because it would have meant pan-European political campaigns.

Under present procedures, both the President of the European Commission and the President of the European Council are selected in private meetings of heads of government. They don’t have to win the votes of EU citizens, so the citizens know they can’t vote the “government” of the EU in or out of office in the way they can nationally. This lack of democratic legitimacy is increasingly problematic because the policy response to the euro crisis requires decisions on redistributing resources to be taken at EU level. It is vital that the EU is made visibly more democratic and that Europeans come to feel they can have the same direct say in who governs the EU that they have in their own country. Some 10 years ago, as a member of the Convention that drafted what eventually became the Lisbon treaty, I suggested that the President of the European Commission should be chosen directly by the people of the EU in a multi-candidate election in which every EU citizen would vote, rather than be selected by 27 heads of government, meeting in private. This proposal received almost no support although it has recently been adopted as policy by the ruling German centre-right CDU party and by the European People Party, the largest in the European Parliament.

If my proposal had been accepted when originally proposed, the EU would now be in a much stronger democratic position to devise a more coherent response to the euro crisis. The UK press would not be able to argue that EU leaders were “unelected”. A European Commission headed by a President with a full EU-wide democratic mandate would have more authority to propose solutions. And although the Council of 27 heads of government would still play a vital role, the EU would be less constrained by the electoral timetables of individual countries. Another useful proposal is that European political parties should say in advance who their candidate would be for Commission president before the European elections. A difficulty with this is that it would subordinate the Commission to shifting coalition politics within the European Parliament. The direct election of the Commission President by using a transferrable vote system of Proportional Representation would be a better way to involve people in the affairs of the EU.

Some might argue that an EU presidential election wouldn’t work because of different languages, or because candidates would not be well enough known throughout Europe. Others fear the people might choose an unsuitable or unrepresentative candidate, but that could be catered for by allowing candidate, but that could be catered for by allowing candidates to stand only if first been nominated by a minimum number of European MEPs and national MPs drawn from a sufficiently large number of EU countries. A “European Demos” will not just happen of its own accord. Like markets, a Demos is a political construct that has to be created by a political act. Democracy is more than an added ingredient in the construction of European Unity. In the 21st century it must become its motor.

(first published by the EUROPE’s WORLD, Spring 2013, reposted with the author’s permission)

*John Bruton was Taoiseach (prime minister) of the Republic of Ireland, leading the “Rainbow Coalition” of his own Fine Gael party, Labour and the Democratic Left from 1994-97. He was the EU’s Ambassador to the to the U.S. (2003-09) and is a former Vice-President of the EPP

LA SVIZZERA HA RIFIUTATO L'EUROFIGHTER E UN NUOVO TRATTATO CON LA UE IN QUANTO SA LA VERITA': LA UE NON SOPRAVVIVERA'.

 

What's the future of EU-Swiss relations now talks have collapsed?

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FILE - Aug. 27, 2020 - A poster of the Swiss People's Party (SVP) on immigration reading ''Enough is enough!'' is displayed in Lausanne, Switzerland.   -   Copyright  LAURENT GILLIERON/AP

Switzerland, a small nation of 8.6 million at the heart of Europe, is surrounded by European Union countries.

While it has chosen to remain outside the 27-nation bloc, it has maintained a close relationship with the EU, which is by far its largest trading partner.

About two-thirds of Swiss imports come from the bloc, while half of the country's exports go to the EU.

An estimated 1.4 million EU nationals live in Switzerland, while 450,000 Swiss citizens are residents in EU countries.

No fewer than 120 deals between Brussels and Bern were concluded over recent decades, ranging from agriculture to police cooperation.

So why has the Swiss government just pulled out of a seven-year negotiation with the EU to modernise the pair's relationship?

The collapse of talks on Wednesday may seem like a huge paradox, considering the breadth and depth of the cooperation between the two, their economic and political ties as well as their geographic and cultural proximity.

Beyond the headlines, Euronews looks into the unique and sometimes thorny relationship between Brussels and Switzerland.

What's the history of EU-Switzerland relations?

It all started in 1972 when Switzerland and the ancestor of the EU -- known as the European Economic Community -- concluded their first free trade agreement over industrial goods and agricultural products. The deal is still in force today.

In 1990, the deal was complemented by a new agreement simplifying customs controls and trade formalities.

Two years later, Switzerland requested the opening of negotiations to join the bloc -- known at the time as the European Economic Community.

But the push for membership talks was halted after Swiss voters rejected joining the European Economic Area in a referendum at the end of that year.

The rejection marked a "key turning point" in EU-Swiss relations, said Paolo Dardanelli, a reader in comparative politics at the University of Kent.

He said that was because Switzerland from that point on was "on its own" and "had to find a way, a modus vivendi with the EU."

In 1997 and in 2001, federal popular initiatives on opening membership negotiations with the EU were opposed by about three-quarters of Swiss voters.

Why is Switzerland opposed to EU membership?

The rejection of European integration can be seen as the continuation of the country's long tradition of neutrality. Under that principle, Switzerland refrained from participating in World War II and in the Cold War, for instance.

Nowadays, however, neutrality is not as prominent as it used to be, Dardanelli told Euronews, and what dominates is a strong attachment to preserving national sovereignty.

Swiss citizens are also concerned that joining the EU would not be compatible with their cherished direct democracy system.

John Heilprin/AP
Local residents participate in an open-air voting in Glarus, Switzerland, Sunday, May 1, 2011.John Heilprin/AP

"In Switzerland, you can vote on anything really. You can collect signatures and vote on changing the constitution and any other aspect" of policy-making, Dardanelli explained.

"The Swiss would want to be part of the EU economically but they don't want to be part of the EU politically," said Laurent Goetschel, director of the think tank Swisspeace and professor of political science at the University of Basel.

What is the current framework for cooperation?

In light of Switzerland's refusal to join the bloc, cooperation developed on the basis of ad hoc agreements.

In 1999, Switzerland and the EU signed a package of seven agreements, covering among other things the free movement of persons. This gave citizens on each side the right to live and work in the EU or Switzerland, provided they had a job or other sources of income.

Another set of sectoral agreements came in 2004, establishing Switzerland's participation in the EU's borderless Schengen area.

In total, there are currently more than 120 agreements between Switzerland and the EU.

These agreements automatically apply to new member states when they join the EU, except for the accord on the free movement of people, which is renegotiated with each new country.

Under this framework, cooperation has thrived. Switzerland and the EU are key economic partners, with trade exchanges amounting to about €1 billion every working day.

Switzerland is also the bloc's fourth-largest trading partner after China, US and the UK.

An estimated 25% of Switzerland's workforce is made up of EU citizens, of which 343,809 are cross-border workers.

What are the sticking points in the relationship?

Issues surrounding the status of workers in connection with immigration are the main source of tensions between Switzerland and the EU.

The wealthy nation boasts much higher wage levels and social protection than its EU neighbours and is wary of so-called "wage-dumping," especially when cross-border workers are employed in Switzerland under foreign contracts, Dardanelli explained.

"Switzerland tries to protect the wages and the working conditions of its workforce," the scholar said including by so-called "flanking measures".

Meanwhile, "the EU wants to eliminate those to create a level playing field in terms of competition," Dardanelli added.

Salvatore Di Nolfi/AP
Swiss border guards check vehicles crossing the Swiss-French border at Bardonnex, Switzerland, Monday Feb. 8, 2021.Salvatore Di Nolfi/AP

Tensions over the free movement of workers culminated in 2014 with a popular referendum.

"In 2014, an initiative to restrict immigration, which was directly against the agreement with the EU, was put to the vote and was narrowly endorsed," Dardanelli noted.

The move angered Brussels, even if the measure was never fully implemented.

One of the problems, Dardanelli said, is that "these agreements are divided into packages and that they are linked to each other. So legally, if you denounce one, the other ones also fall."

A compromise was found to save the face of the government while salvaging cooperation with the EU but that also meant that "what people voted for was not really put into practice," Dardanelli noted.

The softened text adopted by the Swiss parliament in 2016 gave nationals priority in the jobs market and made it harder for Swiss employers to hire EU citizens.

Taxation and banking secrecy, cornerstones of the powerful Swiss financial system, were long among the flashpoints of the relationship.

But these issues have been addressed through several agreements concluded in recent years. In 2015, Bern and Brussels signed an agreement on the automatic exchange of taxation information. From 2018, Switzerland and each EU member state started automatically exchanging banking data.

Beyond these specific policy areas, what Switzerland wants above all is to maintain its national independence and sovereignty.

"Ideally, the EU would like Switzerland just to adapt itself automatically to the norms and legislations that the EU adopts. Switzerland finds it difficult to do because it feels as it becomes just a vassal state to the EU," Dardanelli said.

What led to the collapse of the talks on Wednesday?

The long-time frictions between Switzerland and the EU again came into play during recent negotiations.

For a long time, the EU pressed Switzerland to go beyond ad hoc cooperation agreements and pushed for an umbrella framework deal, insisting no new bilateral accords could be signed until then. But those talks came to an abrupt halt on Wednesday.

The negotiations essentially stumbled over EU demands for its citizens to have full access to the Swiss labour market. Switzerland resisted such a move, arguing it might result in non-Swiss citizens getting social security rights.

Access of EU firms to the Swiss market was another "hot potato", said Goetschel.

But what dominated was "general scepticism about the framework agreement, which was about the dynamic adaptation of Swiss legislation to legislative developments in the European Union, and also a certain role of the European Court of Justice". The Swiss "are allergic to what we call foreign judges", the expert noted.

Ultimately, "the government came to the conclusion that such a treaty would not have enough chances in a popular referendum", Goetschel said.

"This to me is quite interesting because those who lean towards Europe have over the years been extraordinarily over-optimistic about their chances of getting things through. And now they have changed tune, they think they can't get it through even though some polls are saying 64% would support it," said Clive Church, an emeritus professor of European studies at the University of Kent.

"So it seems to me that there are concerns about sovereignty and there are concerns about political management that underlie the more empirical questions," Church told Euronews.

What happens next?

Swiss leaders said the country hoped to remain a close partner of the 27-nation bloc.

But the EU has suggested that a lack of common rules could cause Switzerland to lose its “privileged” connection with the bloc’s electricity system and that failure to reach an accord was "hampering access of Swiss air carriers to the EU’s internal market”.

The bloc furthermore said that cooperation in the health sector or labour market would suffer.

"The EU could also be nastier in other fields. So for example, they could prevent Switzerland from participating in the next Horizon research programme or allow it only under certain conditions that would be to the disadvantage of Switzerland," Goetschel told Euronews.

On a more positive note, Dardanelli said there was "still a lot of goodwill on the two sides to find a way forward".

"So I imagine this to an extent is also a bit of an act of brinkmanship on the part of Switzerland trying to signal to the EU that it doesn't want to be pushed on these issues", noting that the country will expect the EU to compromise further.

Yet Brexit has further complicated the picture, according to Dardanelli.

Before Britain left the bloc, "the EU was quite accommodative, but because of Brexit, it has become much more worried about making exceptions and creating new loopholes that then could be exploited," the scholar told Euronews.

Switzerland's relationship with the EU has also drawn comparisons with that of Britain, especially now, Church noted, in that "it put sovereignty above everything, including economic gain".

LE CLASSI (IN)DIRIGENTI ITALIANE HANNO SCOMMESSO ANCORA UNA VOLTA SUL CAVALLO SBAGLIATO: LA UE E' IN SFACELO.

 

Imposing ‘imaginary’ values risks EU collapse, Slovenian PM claims

As Slovenia takes over the EU presidency, its prime minister warns that the west cannot impose its liberal views on central Europe

The first gay pride parade held in Maribor
The first gay pride parade held in Maribor, the second largest city in Slovenia. The country’s prime minister has backed Hungary’s right to outlaw the promotion of homosexuality to children. Photograph: SOPA Images/LightRocket/Getty Images
in Ljubljana

First published on Sun 4 Jul 2021 10.15 BST


Slovenia’s prime minister Janez Janša, a rare EU ally of Hungary’s right to outlaw the promotion or portrayal of homosexuality to children, has claimed that imposing “imaginary European values” on central Europe could lead to the union’s collapse.

Janša, who publicly backed Donald Trump in his attempt to overthrow the US presidential election result, leads Slovenia as it takes the EU’s rolling presidency, steering the bloc’s agenda for the next six months. He is a deeply controversial figure, whose political career includes being jailed while battling for Slovenia’s independence from Yugoslavia and an overturned conviction for corruption.

The EU is facing daunting challenges as it seeks to rebuild out of a pandemic which badly damaged trust in its institutions, recalibrate its relationship with the US, prepare for the economic and political challenge posed by China and accustom itself to a starkly different relationship with its former member state, the United Kingdom. But speaking to a group of reporters from European newspapers, including the Observer, as Slovenia took over chairing the council by which member states help prioritise and form legislation, Janša drew on his experience of the Yugoslav federation when asked about the greatest risk to the EU.

Slovenia’s prime minister Janez Jansa.
Slovenia’s prime minister Janez Jansa. Photograph: Luka Dakskobler/SOPA Images/REX/Shutterstock

A fortnight ago the Dutch prime minister Mark Rutte had led the charge against Hungary’s populist prime minister Viktor Orbán over a bill that will ban gay people from being shown in educational materials, on prime-time TV or in films and productions aimed at children. Rutte, who framed the clash as one of fundamental values, challenged Hungary’s leader to drop the law or take the country out of the EU.

But Janša said the imposition of an alien outlook by western member states was the “fastest road to collapse” of the bloc.

“There are differences that need to be taken into account and respected and I think there’s a clear division between national and European competences.

“You don’t judge a person based on imaginary European values, and dual standards are used, then I think this is the fastest road to collapse. Up to 30 years ago Slovenia lived in the former Yugoslavia and it was supposedly federal. There were five or six nations, three religions, six republics, two autonomous provinces and the country fell apart for different reasons but the last nail in the coffin was when some people started using special criteria for themselves, applying double standards.

“The EU without central Europe is not a European union – it will be just a shell and we should all be aware of it,” he said.

There are growing concerns in Brussels at the undermining of democratic norms in Slovenia. Janša has been accused of creating a climate of fear for journalists in his country, in part through his personal attacks on individuals through Twitter, earning him the nickname Marshal Tweeto, in reference to the former president of Yugoslavia, Josep Tito. The European commission has also appealed to the prime minister to stop withholding funds to the Slovenian press agency, a public service media outlet he has accused of “spreading lies”.

At a rocky launch of the presidency on Thursday, the European commission president Ursula von der Leyen had invited Janša to tell reporters gathered for a press conference when his government would appoint two officials to scrutinise the spending of billions of EU recovery funds.

Slovenia has failed to appoint prosecutors to the European public prosecutor’s office, which is tasked with challenging abuse of EU cash. It was confirmed last week that Slovenia will receive €2.5bn (£2.15bn) from an €800bn EU recovery and resilience fund. The European chief prosecutor, Laura Codruța Kövesi, has described Slovenia as a “huge risk” as a result.

Further souring the mood of the day, the commission’s vice-president, Frans Timmermans, had refused to join the traditional group photograph after Janša brandished a photograph of two Slovenian judges pictured with left-of-centre politicians to illustrate the bias of the country’s judiciary at a meeting with the 27 EU commissioners.

Janša brushed off the incident. “It wasn’t us that started the conversation and if you dislike the truth it is your problem, it is not a problem with the truth,” he said.

The 62-year-old instead argued that the newest members of the EU – Slovenia joined in 2004 – were being roughly treated by the commission: “We are not a colony – we are not second-class members of the EU,” he said. “We insist we need the same treatment… Yes, there are attempts that at least smaller countries in the EU are treated as second class. We exited the former country we were part of because we were treated as second class.”

While the Lisbon treaty enshrines human dignity, freedom, democracy, equality and the rule of law as fundamental rights, Janša claimed those critical of his own policies as well as that of Orbán and Poland’s rightwing prime minister Mateusz Morawiecki were seeking to impose a particular interpretation. Of a debate two weeks ago where Rutte had made his comments, Janša said: “There was no one opposing that all people are born equal, that we have equal rights. But there are certain distinctions when it comes to adoption of children, bringing up of children.”

Three years ago France’s president Emmanuel Macron had urged Europeans to defend their values by rejecting “illiberal democracy”, a vision of the EU that Janša said failed to recognise the different stages of economic and political development in the union.

“The fundamental difference is not between liberal and illiberal democracy,” Janša said. “The main difference is between democracy and technocracy and bureaucracy. So I believe the term used, illiberal democracy, was not the right one.”

“Because this concerns a division that does not exist: all shades of democracy, if I fight for the affection of my voters, in a free world, everyone is equal.”

During his two-hour briefing of reporters, Janša insisted that he was being madly maligned by “mainstream media”. He noted that there were few rightwing voices in the Slovenian national media and showed a 10-minute video which he said illustrated that it was the opposition parties guilty of undermining the independence of the media. “The fundamental charter of human rights also has the freedom of expression and the freedom of the media is subordinate to that,” he said.

CONTINUA AD ALLARGARSI A TUTTI I SETTORI ECONOMICI LA DEMOTIVAZIONE AL LAVORO

 

Tecnologia inadeguata, dipendenti demotivati

Il 65% ritiene che la propria organizzazione non abbia valutato correttamente le proprie specificità

Tecnologia inadeguata, dipendenti demotivati

Secondo un recente studio Ricoh, nelle medie imprese europee le frustrazioni legate alla tecnologia incidono negativamente sul morale e sul coinvolgimento dei dipendenti.

Oltre un terzo (36%) dei lavoratori delle medie aziende europee fatica a sentirsi motivato quando lavora da casa a causa di problematiche legate alla tecnologia.

A dirlo è un nuovo studio Ricoh che ha coinvolto 573 dipendenti di aziende europee con un organico compreso tra le 251 e le 1.000 unità. La ricerca sottolinea come la mancanza di investimenti in soluzioni per la trasformazione digitale sta danneggiando il morale dei lavoratori, in quanto essi faticano a trovare il tempo per svolgere attività a valore aggiunto o comunque gratificanti a livello personale. Questo comporta il rischio che i migliori talenti cerchino di cambiare azienda per trovarne una più innovativa e meglio preparata alle nuove modalità di lavoro.

Il 65% degli intervistati sostiene che la propria organizzazione abbia implementato processi digitalizzati semplicemente per ricalcare quanto fatto da clienti e partner, senza però considerare le proprie esigenze e specificità. Entrando più nel dettaglio: il 39% del campione d’indagine lamenta di non riuscire ad accedere alle informazioni necessarie per interagire in modo adeguato con i clienti e solo un quarto (26%) sostiene che la propria impresa abbia investito in piattaforme di e-commerce o in soluzioni digitali con l’obiettivo di migliorare la customer experience.

Sfide ancora aperte

Dalla ricerca emerge inoltre come, nonostante la tecnologia permetta di lavorare in modo più smart e produttivo, il carico di lavoro per i dipendenti sia addirittura aumentato. Questo perché molto spesso nella scelta e nell’implementazione delle nuove soluzioni non si tiene conto delle peculiarità dell’organizzazione e delle modalità operative in essere.

Inoltre, il passaggio al lavoro da remoto pone nuove questioni in relazione alla sicurezza delle informazioni. Il 45% dei dipendenti dice di essere preoccupato circa la possibilità di condividere accidentalmente file digitali riservati con destinatari non autorizzati a visionarli.

David Mills, CEO di Ricoh Europe, commenta così i risultati dello studio: “È preoccupante come dopo più di un anno di lavoro da remoto, e con la luce che si intravede alla fine del lungo tunnel della pandemia, la motivazione dei dipendenti continua a peggiorare a causa delle sfide poste dall’Information Technology. Non si tratta di mancanza di impegno da parte delle aziende. Il problema è che molte investono nella tecnologia fine a se stessa oppure per seguire le orme di un partner o di un cliente. Il primo passo per qualsiasi investimento tecnologico deve essere invece quello di identificare ciò di cui si ha davvero bisogno, tenendo conto del punto di vista dei dipendenti e dei clienti. Solo in questo modo è possibile compiere investimenti che consentono alle imprese di ottenere vantaggi immediati e alle persone di lavorare meglio”.

Lettera aperta al signor Luigi di Maio, deputato del Popolo Italiano

ZZZ, 04.07.2020 C.A. deputato Luigi di Maio sia nella sua funzione di deputato sia nella sua funzione di ministro degli esteri ...