Sistemi giudiziari europei a confronto: le criticità italiane
Testo riassuntivo della relazione presentata al Convegno
«I valori della Magistratura e il valore della Giustizia: prospettive di riforme efficaci e condivise»
organizzato da Autonomia e indipendenza
Roma - 25 settembre 2016
Sommario: 1. Il contributo dell’esperienza italiana all’elaborazione dei principi internazionali sull’indipendenza della magistratura. – 2. Il contributo fornito dai principi internazionali di soft law alla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia del potere giudiziario. – 3. L’efficienza del sistema-giustizia e il ruolo del Consiglio d’Europa. L’attività della CEPEJ. – 4. I dati CEPEJ e la loro lettura alla luce della peculiarità della situazione italiana. – 5. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore civile. La «signoria del giudice sul processo». – 6. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore civile. Le limitazioni al dilagare dei mezzi di impugnazione. – 7. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nel settore penale. Il problema della prescrizione. – 8. Le lezioni che si possono trarre dalla comparazione nei settori civile e penale. Il problema delle risorse. – 9. Un serio e nuovo problema di indipendenza e autonomia della magistratura: il rapporto sempre più conflittuale con la classe forense (e il Contempt of Court).
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Vorrei in primo luogo ringraziare gli amici di A&I per l’invito a questo importante convegno e per il tema che mi hanno assegnato. Un tema nella trattazione del quale posso avvalermi dell’esperienza acquisita nei lunghi anni di lavoro presso il Segretariato Generale dell’Unione Internazionale dei Magistrati.
Mi sia consentito qui ricordare che l’International Association of Judges – Union Internationale des Magistrats (IAJ-UIM) è un’associazione internazionale professionale senza fini politici, fondata nel 1953 a Salisburgo, alla quale aderiscono non singoli magistrati, ma le associazioni nazionali di magistrati, la cui ammissione è stabilita dal Consiglio Centrale. Il fine principale dell’Unione è la salvaguardia dell’indipendenza dell’ordine giudiziario, condizione essenziale della funzione giurisdizionale e garanzia dei diritti umani e delle libertà. L’UIM, il cui Segretariato Generale ha sede statutaria in Italia, comprende oggi 85 associazioni o gruppi rappresentativi nazionali provenienti dai cinque continenti [1] .
Come è noto, la comparazione del sistema giudiziario italiano con i principali ordinamenti europei ed extraeuropei fornisce un quadro caratterizzato da luci ed ombre. Sul punto è importante tenere presenti i due termini di riferimento essenziali, allorquando si discorre della costituzione e dell’azione del potere giudiziario, vale a dire: (a) l’indipendenza della magistratura e (b) l’efficienza del sistema-giustizia.
Per quanto attiene al primo profilo, cioè quello dell’indipendenza, non v’è dubbio che la magistratura italiana occupi un posto di rilievo nel panorama offerto dalla comparazione, come riconosciuto dal ruolo giocato da numerosi esponenti del nostro ordine giudiziario nella redazione di quella ormai fitta rete di principi di soft law che governano la materia a livello internazionale.
Si pensi, a tacer d’altro, al contributo prestato da Adolfo Beria d’Argentine nella stesura ed approvazione dei Basic Principles delle Nazioni Unite sull’indipendenza della magistratura [2] , nell’ormai lontano 1985, o all’attiva e fattiva partecipazione dell’allora Segretario Generale dell’UIM Massimo Bonomo nella preparazione della Carta Europea sullo Statuto del Giudice del Consiglio d’Europa nel 1998 [3] o, ancora, al determinante intervento del suo successore Antonio Mura nella preparazione della Rome Charter del 2014 in materia di posizione istituzionale e statuto del pubblico ministero [4] .
Mi sia consentito poi menzionare il contributo offerto dallo scrivente nel contesto dei lavori del comitato d’esperti incaricati dal Consiglio d’Europa di procedere alla stesura della Raccomandazione R (12) 2010 sui Giudici: Recommendation CM/Rec(2010)12 of the Committee of Ministers to member states on judges: independence, efficiency and responsibilities [5] , nonché la rilevante opera prestata da Raffaele Sabato quale membro, prima, Presidente e Past President, poi, del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei del Consiglio d’Europa (CCEJ), nella redazione di una notevole serie di preziosi pareri su tutti i profili salienti dell’attività giurisdizionale [6] .
Al riguardo non potrà tacersi che, specie in questi ultimi anni, il CCEJ ha assunto un ruolo crescente, non solo di «organo di studio» di questioni più o meno astratte, bensì anche di vero e proprio «parlamento» dei giudici europei: un’assise nella quale si discute sempre più di questioni molto concrete relative all’indipendenza e all’azione della magistratura nel nostro continente. Basti considerare, ad esempio, i rilevanti documenti sullo Status and situation of judges in member States [7] , veri e propri cahiers de doléances della magistratura europea nelle situazioni di maggior crisi, per non parlare della redazione della «Magna Charta of Judges», riassumente i punti più significativi delle opinions rese dal Consiglio Consultivo nel corso di questi anni [8] .
Anche sul (più ripido) versante della posizione istituzionale del pubblico ministero la situazione appare in pieno movimento.
Basti pensare, tanto per citare un esempio, alla distanza che corre tra, da un lato, la raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2000 sul tema «The Role of Public Prosecution in the Criminal Justice System» [9] , laddove si afferma, con disarmante truismo, che laddove l’ordinamento prevede l’indipendenza degli uffici di procura, tale indipendenza va effettivamente garantita [10] , e, dall’altro, la già ricordata Rome Charter, approvata dal Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei nel 2014, il cui punto IV statuisce, in maniera ben più incisiva, che «The independence and autonomy of the prosecution services constitute an indispensable corollary to the independence of the judiciary. Therefore, the general tendency to enhance the independence and effective autonomy of the prosecution services should be encouraged».
Anche qui, dunque, il modello italiano sembra essersi affermato, per lo meno a livello di consapevolezza dei pubblici ministeri del nostro continente.
2. Il contributo fornito dai principi internazionali di soft law alla difesa dell’indipendenza e dell’autonomia del potere giudiziario.
In relazione a quanto sin qui esposto, non va trascurato il rilievo che anche la «semplice» soft law può assumere nel quadro odierno.
Se è vero, infatti, che, ad esempio, nel 1989, la nostra Corte costituzionale ebbe buon gioco a validare la palese violazione inferta ai già citati Basic Principles delle Nazioni Unite (a mente dei quali «judges should enjoy personal immunity from civil suits for monetary damages for improper acts or omissions in the exercise of their judicial functions»: cfr. art. 16) da parte della nostra legge sulla responsabilità civile dei magistrati (l. 13 aprile 1988, n. 117), atteso il carattere «non cogente» dei cennati principi [11] , è altrettanto vero che proprio l’esperienza di organismi quali l’UIM dimostra che è su quegli stessi principi che vengono poggiate dichiarazioni, risoluzioni, raccomandazioni, che, talora, sortiscono l’effetto di smuovere mass media e opinione pubblica, determinando anche (pur se in casi certo non frequentissimi) risultati positivi. Valga, a titolo di mero esempio, la recente mobilitazione internazionale sul «caso Turchia», in conseguenza della svolta repressiva che ha fatto seguito al fallito colpo di Stato del luglio 2016 [12] .
Non solo. Da un po’ di tempo a questa parte un altro attore fondamentale sullo scenario internazionale, vale a dire la Corte Europea dei diritti dell’uomo, ha iniziato ad utilizzare siffatti principi di soft law per arrivare a riconoscere la violazione dell’art. 6 della CEDU, sotto il profilo della carenza del requisito della presenza di un «tribunale indipendente e imparziale».
Posso citare qui, a mo’ di esempio, il caso Volkov vs Ukraine (2013), ove un paragrafo intero della motivazione [13] è dedicato ai documenti del Consiglio d’Europa sull’indipendenza della magistratura, al fine di non dichiarare conforme al citato parametro dell’art. 6 la composizione dell’organo disciplinare che aveva sanzionato un magistrato ucraino. E lo stesso è a dirsi per il caso Gerovska Popčevska v. the former Yugoslav Republic of Macedonia (2016), nella cui motivazione [14] si riportano ampi brani di un parere della Venice Commission del Consiglio d’Europa, oltre che di un’Opinion del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (CCEJ) in tema di organo di autogoverno e della già ricordata Magna Charta del CCEJ, al fine di riconoscere come presente una violazione del canone dell’indipendenza e imparzialità dell’organo disciplinare, qualora di esso faccia parte il Ministro della Giustizia [15] .
3. L’efficienza del sistema-giustizia e il ruolo del Consiglio d’Europa. L’attività della CEPEJ.
Passando invece al tema dell’efficienza del sistema-giustizia, va detto che qui l’esperienza italiana risulta assai meno soddisfacente. Su questo profilo, in particolare, si sono accesi i riflettori soprattutto dopo la creazione della CEPEJ del Consiglio d’Europa.
In proposito va detto che il Consiglio d’Europa svolge da tempo un ruolo fondamentale in relazione ai temi della giustizia nei 47 Stati membri. La ragione per la quale questo organismo si occupa di tale settore risiede in una delle disposizioni più importanti della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali. Questa, al già ricordato art. 6, prevede, come noto, che «In the determination of his civil rights and obligations or of any criminal charge against him, everyone is entitled to a fair and public hearing within a reasonable time by an independent and impartial tribunal established by law» [16] .
E’ dunque sulle espressioni «independent and impartial tribunal», da un lato, e «within a reasonable time», dall’altro, che si fondano gli assi portanti dell’azione sviluppata dal Consiglio d’Europa in questi ultimi decenni, in particolare a partire dalla caduta del muro di Berlino.
In relazione al primo punto dovranno qui menzionarsi le innumerevoli attività di supporto sviluppate, in specie dai primi anni Novanta dello scorso secolo, per l’assistenza all’elaborazione di una normativa, a livello sia costituzionale che ordinario, conforme ai principi del rule of law nei Paesi già membri del Patto di Varsavia, assieme ad una impressionante serie di iniziative nel settore della formazione di magistrati, avvocati, personale di giustizia, creazione di scuole, accademie, istituti di ricerca, etc. [17] .
Non potrà poi passarsi sotto silenzio, sempre in relazione al tema dell’indipendenza ed imparzialità della magistratura, la già sopra ricordata creazione, nei primi anni del nuovo millennio, del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei e del suo «parallelo» Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei. Anche qui un rapido sguardo alle pagine del sito ufficiale del Consiglio d’Europa (sempre nel settore dedicato alla creazione dello «Stato di diritto») fornirà una panoramica molto interessante sulle questioni (praticamente tutte quelle ad oggi rilevanti per chi opera nel settore della giustizia) che hanno formato oggetto dei pareri espressi tanto dal primo, che dal secondo dei due citati Consigli Consultivi [18] . Ma è nell’elaborazione degli strumenti internazionali sul tema dell’indipendenza del potere giudiziario che il Consiglio d’Europa ha raggiunto i risultati sicuramente più apprezzabili. Tra i tanti, vorrei richiamare ancora una volta la Raccomandazione del 2010 sul tema: «Indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici», cui ho già fatto cenno.
L’altro grande settore di attività, collegato in qualche modo al concetto del «délai raisonnable», è quello dell’efficienza della giustizia. Comparto, quest’ultimo, che ha visto la creazione, a partire dai primi anni di questo secolo, di un’apposita commissione (la CEPEJ), che è andata assumendo un ruolo via via determinante.
La CEPEJ (Commission Européenne pour l’efficacité de la justice/European Commission for the Efficiency of Justice) è, dunque, una commissione costituita presso il Consiglio d’Europa, allo scopo di migliorare l’efficienza ed il funzionamento della giustizia negli Stati membri, così come di realizzare l’applicazione degli strumenti elaborati a tal fine dal Consiglio d’Europa. I suoi compiti sono molteplici: analizzare i risultati dei sistemi giudiziari; individuarne i problemi; definire mezzi concreti per migliorare, da un lato, la valutazione dei risultati dei sistemi giudiziari e dall’altro, il relativo funzionamento; indicare agli organi competenti del Consiglio d’Europa quali siano i campi in cui l’elaborazione di uno strumento giuridico sarebbe auspicabile.
A tal fine la CEPEJ mette a punto degli indicatori, raccoglie ed analizza dati, definisce misure e strumenti di valutazione, redige dei documenti (rapporti, pareri, linee guida, piani d’azione, ecc.), intrattiene rapporti con istituti di ricerca e centri di documentazione, invita esperti e ONG, procede ad audizioni, sviluppa reti di professionisti della giustizia. Nel piano d’azione adottato a Varsavia il 16 maggio 2005, i Capi di Stato e di Governo degli Stati membri del Consiglio d’Europa hanno deciso di sviluppare le funzioni di valutazione e d’assistenza della CEPEJ al fine di aiutare gli Stati membri a rendere giustizia con equità e rapidità. Hanno altresì invitato il Consiglio d’Europa a rafforzare la cooperazione con l’U.E. nel campo giuridico, proprio per il tramite della cooperazione con la CEPEJ.
La CEPEJ è stata creata il 18 settembre 2002 tramite la Risoluzione Res(2002)12 del Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Essa riunisce esperti dei 47 Stati membri del Consiglio d’Europa ed è assistita da un Segretariato. I principali suoi settori d’attività sono i seguenti: (a) Evaluation of Judicial Systems [19] , che dà luogo alla pubblicazione dell’ormai famoso rapporto biennale sulla giustizia nel nostro continente; un rapporto oggi consultabile anche online, non solo nella «tradizionale» versione .pdf., ma anche in modo interattivo, dinamico e comparativo [20] ; (b) Judicial time management (ove opera il SATURN Centre for Judicial Time Management) [21] ; (c) Quality of justice (ove opera il gruppo di lavoro denominato CEPEJ-GT-QUAL) [22] .
4. I dati CEPEJ e la loro lettura alla luce della peculiarità della situazione italiana.
In Italia la CEPEJ è nota soprattutto per gli impietosi dati comparativi con le altre realtà europee (47 Paesi membri del Consiglio d’Europa) sulla durata dei processo, ma anche perché, come correttamente la nostra ANM ha già da tempo avvertito [23] , da quegli stessi dati emergono risultati più che lusinghieri sull’operosità dei magistrati italiani, da sempre ai primissimi posti, pur collocandosi l’Italia tra i Paesi con il minor numero di magistrati, rispetto alla popolazione, e, soprattutto, rispetto agli avvocati.
Come pure noto, a singolare contrappunto della ricordata presa di posizione dell’ANM, sono comparsi, specie negli ultimi tempi, velenosi articoli su giornali prezzolati dai nemici della legalità, all’insegna dello slogan per cui i dati della CEPEJ non sarebbero comparabili tra di loro (tra l’altro: chissà perché quelli sui tempi della giustizia sì e quella sulla produttività dei magistrati no…). Qui occorre tenere presente, però, che stiamo pur sempre parlando di processi, sentenze e provvedimenti giurisdizionali: dunque di dati che, pur nell’enorme varietà di riti, leggi e tradizioni del nostro continente, alla fine della fiera svolgono lo stesso tipo di funzione. In secondo luogo, se proprio vogliamo introdurre i relativi adattamenti, per rendere più veritiera la comparazione, allora si dovrà considerare che questi adattamenti risultano comunque a vantaggio della produttività dei magistrati italiani.
Basti tenere presente, tanto per iniziare, che i colleghi francesi non trattano per nulla in primo grado il contenzioso commerciale (riservato ai Tribunaux de commerce, composti esclusivamente da rappresentanti delle associazioni produttive), così come quello del lavoro (riservato ai Conseils de prud’hommes, composti esclusivamente dei rappresentanti sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori). Inoltre (e trattasi di questione certamente non trascurabile) le sentenze d’oltralpe, sostanzialmente, non sono motivate [24] , mentre l’istruttoria delle cause civili procede pressoché esclusivamente in base a documenti ed attestations, con quasi totale esclusione delle quanto mai time consuming escussioni testimoniali [25] .
I colleghi tedeschi, dal canto loro, vantano una schiera di Rechtspfleger (una sorta di super-cancellieri, estranei al ruolo della magistratura, collocata idealmente e ordinamentalmente tra quest’ultima e il personale di cancelleria) composta da un numero di unità pari, addirittura, alla metà di quello totale dei giudici. Tali soggetti hanno competenze sostanzialmente esclusive in materie quali la volontaria giurisdizione nei settori della famiglia, persone, incapacità, successioni, registro di commercio, registro fondiario, procedure esecutive, decreti ingiuntivi, ingiunzioni europee di pagamento, ecc.
I colleghi di common law, e segnatamente quelli d’oltre Manica, poi, sono affiancati da vere e proprie legioni di magistrates, cioè di giudici onorari non professionali. Dai dati del rapporto biennale CEPEJ 2014 (riferito al 2012) risulta che in tutto il Regno Unito si contano 2.300 professional judges contro 9.500 part time non professional judges e 24.000 full time non professional judges, il che porta ad un risultato di oltre 14 giudici non professionali per ogni magistrato di carriera!
A fronte di simili dati il vero problema è costituito dal fatto che, in questo sistema politico-mediatico dominato dall’ignoranza e dalla superficialità, in cui è sempre l’argomento ad effetto a prevalere sul ragionamento pacato, il sacrosanto messaggio veicolato dall’ANM – puramente e semplicemente – non riesce a passare. Nei nostri talk shows ormai dominati dalle scimmie urlatrici, l’unica «idea» che sembra transitare è riassumibile nel seguente «sillogismo»: «Qual è lo stato della giustizia? Comatoso. Chi fa i processi? I giudici. Ergo la responsabilità di tale stato di cose è per forza dei giudici».
Detto altrimenti, sembra proprio che oggi occorra abituarsi – piaccia o meno – ad operare per l’efficienza della giustizia quella stessa distinzione che noi civilisti siamo soliti fare per le obbligazioni dei professionisti: quella, cioè, tra efficienza «dei mezzi» ed efficienza «del risultato». Sotto il profilo dei mezzi siamo efficientissimi, molto meno sotto quello dei risultati.
Si tratta di vedere, allora, quali lezioni possiamo trarre dalla comparazione con i sistemi stranieri e quali sono, per l’appunto, le criticità nostre, messe in evidenza da tale comparazione.
Il primo dato ad emergere dalla comparazione, specie per ciò che attiene alla procedura civile, è quella situazione che definirei di «signoria sul processo», di cui dispongono i colleghi stranieri e che a noi manca, nel modo più assoluto.
Intendo riferirmi con tale espressione non solo ai poteri sul processo dei giudici di common law, ma anche a quelli dei sistemi di rilevanti Paesi che si iscrivono nell’area della famiglia romano-germanica. Basti pensare alla Francia, ove il giudice (e non l’avvocato!) si trova, come dicono là, «au coeur du procès» ed ha poteri istruttori e di assegnazione di termini per far marciare velocemente la procedura secondo la tempistica che ritiene più opportuna. E ciò accade a partire, quanto meno, da quello che si chiamava un tempo il nouveau code de procédure civile, in vigore oltralpe dal lontano 1975; da noi, invece, come (poco) noto (se non agli addetti ai lavori), si perdono per lo meno 7-8 mesi prima che la causa, già pendente per la notifica della citazione e l’iscrizione a ruolo (con conseguente inizio del «ticchettio» degli orologi «Strasburgo» e «Pinto»), possa cominciare ad essere effettivamente trattata dal giudice! Né ai guasti prodotti in questi anni dall’art. 183 c.p.c. può ritenersi ponga rimedio oggi l’art. 183-bis c.p.c. di nuovo conio: la decisione del passaggio al rito semplificato dovrebbe essere rimessa al solo giudice, senza alcuna trattazione della questione, sulla base della sola lettura degli atti introduttivi, che andrebbero depositati senza il passaggio attraverso l’ormai inutile (a maggior ragione oggi, con le innovazioni del p.c.t.) rito della prima udienza di trattazione.
E’ dal lontano 1984 che il Consiglio d’Europa richiede agli Stati membri la creazione di un giudice civile «intervenzionista».
Il Principio n. 3 dell’allegato alla Raccomandazione n° R (84) 5 adottata dal Comitato dei Ministri il 28 febbraio 1984 (Principes de procédure civile propres à améliorer le fonctionnement de la justice), stabilisce che «Le juge devrait, au moins lors de l’audience préliminaire, mais si possible à tous les stades de la procédure, jouer un rôle actif afin d’assurer, dans le respect des droits des parties et du principe de leur égalité, un déroulement rapide des procédures. Notamment, il devrait avoir, d’office, les pouvoirs de demander aux parties toutes clarifications utiles, de les faire comparaître personnellement, de soulever des questions de droit, de rechercher les preuves au moins dans les cas où le fond du litige n’est pas à la disposition des parties, de diriger l’administration des preuves, d’exclure des témoins si leur déposition éventuelle manque de pertinence par rapport à l’affaire, de limiter le nombre, s’il est excessif, des témoins appelés à déposer sur les mêmes faits. Ces pouvoirs devraient être exercés sans pour autant déborder l’objet de l’action».
Eppure sappiamo che ancora oggi, da noi, eminenti processualisti s’ostinano ad affermare che una norma che lasciasse (horribile dictu!) al giudice la definizione anche solo di una parte delle regole procedurali violerebbe, addirittura, l’art. 111, primo comma, Cost., secondo cui «La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge». Come se la legge non potesse «regolare il processo» proprio demandando al giudice, di volta in volta, il concreto svolgimento delle varie fasi, magari sulla base di alcuni (pochissimi) principi generali (ad es.: rispetto del contraddittorio, la «parità di armi», etc.) scolpiti nella legge stessa. Chiunque abbia un minimo di dimestichezza con la pratica del processo civile sa bene che nella stragrande maggioranza dei casi le difese delle parti si possono esplicare ed esplicitare in maniera assolutamente semplice e piana, senza la necessità di sprecare mesi e mesi di rinvii e di imbrattare centinaia di pagine.
Sempre l’esperienza straniera ci dimostra che la signoria del giudice sul processo si esplica anche, in moltissimi sistemi, tramite il c.d. leave to appeal, cioè il permesso che lo stesso giudice che ha emesso il provvedimento (o, eventualmente, un giudice superiore) può dare (o negare), oltre tutto sulla base di sistemi di «filtro» che nulla hanno della complessità degli inutili, bizantini e barocchi procedimenti che recenti riforme hanno voluto introdurre anche da noi. Sul punto basterà rinviare all’analisi comparata redatta nel 2008 dalla Cassazione italiana, da cui emerge che le Corti Supreme dei principali Paesi europei si debbono confrontare con un numero di ricorsi, in civile come in penale, di gran lunga inferiore rispetto a quello che travolge la nostra Corte Suprema [26] . Se si pensa anche solo alla (geograficamente e culturalmente) vicina Francia, non si può non restare sbigottiti nel considerare che la Cour de cassation ha, nel 2015, ricevuto in totale 28.232 affaires (decidendone 25.523), contro gli oltre 83.000 della Cassazione italiana (che ne ha eliminati nello stesso periodo un numero grosso modo analogo). Per non dire della Corte Suprema del Regno Unito, che emette meno di cento sentenze l’anno [27] !
Un tema in qualche modo legato a questo è quello dell’eventuale eliminazione di un grado di merito.
Ora, se è vero che l’appello è conosciuto e garantito in tutti gli ordinamenti europei, è anche vero che esso riceve salvaguardia a livello sovranazionale dal protocollo n. 7 CEDU, unicamente per le sentenze penali di condanna (e, oltre tutto, con alcune limitazioni). Nel civile il doppio grado di giurisdizione di merito non è prescritto da alcuna disposizione di livello costituzionale. Questo, almeno, è il costante insegnamento non solo della giurisprudenza della Corte di Cassazione civile [28] , ma anche della Corte costituzionale [29] . Del resto, proprio dalla mancanza di una garanzia costituzionale del principio del doppio grado di giurisdizione discende l’ammissibilità di eventuali deroghe allo stesso, come la tassatività delle ipotesi di rimessione al primo giudice (ex artt. 353-354 c.p.c.) [30] .
Al di là di queste considerazioni, il vero problema è dato dal fatto che, nel nostro ordinamento, il principio del doppio grado di merito non riceve, sostanzialmente, alcuna limitazione, a differenza di ciò che accade in molti sistemi europei. Così, ad esempio in Francia sono inappellabili le sentenze di valore inferiore ai 4.000 euro [31] . Di notevole interesse sono poi le norme che, sempre Oltralpe, permettono al giudice d’appello (cfr. art. 526 del Code de procédure civile) e di cassazione (cfr. art. 1009-1 del Code de procédure civile) di «radier une affaire du rôle» quando la parte appellante o ricorrente non prova di aver dato spontanea esecuzione alla decisione oggetto di gravame.
Ancora più sorprendenti sono i dati che ci pervengono dal Regno Unito, dove ogni appeal è, come già detto, soggetto ad una apposita e rigorosissima permission [32] . Non stupisce, quindi, che i dati statistici denotino un limitatissimo ricorso all’appello: «Only a small number of the millions of cases commenced each year are subject to a successful appeal. For example, 1,553,983 civil (non-family) cases started in 2011, whilst just 1,269 appeals were filed in the Court of Appeal Civil Division in the same period» [33] .
Per quanto attiene all’Italia, i dati statistici ministeriali (anno 2013) mostrano che, in civile, «soltanto il 20% delle sentenze rese in primo grado sono impugnate e che circa il 77% di queste ultime sono confermate»; ciò significa che, grazie all’appello, viene riformato solo il 4,5% delle sentenze di primo grado. Invertendo il punto d’osservazione, si può affermare che, in mancanza del secondo grado di giudizio, il solo 4,5% delle controversie sarebbe definita da una pronuncia «non corretta» o che comunque sarebbe stata riformata in appello. Seppur non si volesse considerare che in tale percentuale confluiscono tutte le sentenze «non confermate», e dunque anche quelle che modificano meramente la ripartizione delle spese o che investono il solo quantum debeatur, senza ribaltare le posizioni sostanziali già definite in primo grado, il 4,5% resterebbe comunque un dato troppo esiguo per giustificare l’enorme dispendio di risorse ed energie impiegate per garantire il grado d’appello. Il 4,5% di sentenze non riformate in assenza del secondo grado di giudizio sarebbe un «costo» sostenibile per poter, non solo ridurre drasticamente i tempi del processo e finalmente raggiungere una durata ragionevole, ma anche riallocare in maniera intelligente le risorse economiche ad oggi assorbite dalle corti d’appello [34] .
Passando a considerare ora il processo penale, è fin troppo noto che uno degli ostacoli più gravi alla realizzazione di un sistema efficiente in Italia è costituito dalle regole sulla prescrizione.
Al riguardo da più parti si osserva che i numerosi Stati con i quali dividiamo moneta e politica disciplinano la misura del tempo con modalità diametralmente opposte a quelle da noi vigenti. E ciò sotto distinti profili.
Così, per quanto attiene al dies a quo, in Francia, in Germania, o in Gran Bretagna, ad esempio, il tempo inizia a cancellare la pretesa punitiva dal momento in cui il reato viene scoperto e cessa di avere rilevanza nel momento in cui lo Stato esercita l’azione penale; da quel momento in poi, il tempo non gioca più a favore dell’imputato, che non avrà, quindi, alcun interesse ad allungare i tempi del processo. In Italia il tempo inizia a erodere la pretesa punitiva da quando il reato è stato commesso, ed è insensibile all’esercizio, da parte dello Stato, della leva della azione penale; da quel momento in poi, decorrenza del tempo e imputato diventano alleati. Evidente la differenza, evidenti le conseguenze. In Italia, difatti, una volta esercitata l’azione penale, l’imputato ha tutto l’interesse ad allungare la durata del processo, nell’ottica di ottenere l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione. In Francia, in Germania o in Gran Bretagna, attivata la leva dell’azione penale, l’imputato ha un unico interesse, la celebrazione del processo, nella consapevolezza che la sua durata non cancellerà, mai, il reato commesso. Esiste, quindi, un rapporto inversamente proporzionale tra la misura del tempo che estingue il reato e la durata del processo.
Rilevante è poi anche il profilo dell’interruzione. In Francia, ad esempio, il termine per perseguire i reati più gravi (crimes) è di dieci anni, ma il decorso della prescrizione può essere interrotto da qualsiasi atto di istruzione e di azione giudiziaria. In Germania i tempi sono ancora più lunghi, ma, ad esempio, nel caso di reati compiuti da membri del Parlamento federale o di un organo legislativo di un Land, la prescrizione viene computata non da quando è stato commesso il reato, ma a partire dal momento in cui viene avviato il procedimento a carico del parlamentare.
Sarà qui utile ricordare che il rapporto del GRECO (il Gruppo di Stati del Consiglio d’Europa contro la corruzione) del 2 luglio 2009 sollecita l’Italia «ad adottare misure tali che la pronunzia giudiziale di merito sui reati contro la pubblica amministrazione pervenga in tempi ragionevoli, sottolineando che l’estinzione dei reati per prescrizione, pur in presenza di compendi probatori solidi e affidabili, costituisce motivo di sfiducia della collettività nella giustizia».
Tale richiamo è stato rinnovato nel rapporto anticorruzione della Commissione Europea del 3 febbraio 2014, che ha sottolineato l’inadeguatezza della c.d. «legge Severino» del 2012 su questo fronte. Il rapporto cita uno studio secondo il quale i procedimenti per corruzione estinti nel nostro Paese per scadenza dei termini di prescrizione sono intorno al 10% ogni anno, contro una media negli altri Stati UE dallo 0,1 al 2%. Nel 2012, per esempio, sono stati dichiarati prescritti 113.000 procedimenti penali, il 7% di tutti quelli giunti a una conclusione. Un dato in calo (erano 207.000 nel 2003), ma pur sempre «un’intollerabile abdicazione» dello Stato, secondo le parole dell’allora Presidente della Cassazione Giorgio Santacroce all’inaugurazione dell’anno giudiziario 2014.
In Cassazione, sottolinea l’ufficio studi della Camera, il 13,7% delle prescrizioni riguarda i reati contro la pubblica amministrazione. I presunti tangentisti sono tra i principali beneficiati della prescrizione all’italiana. I termini scattano dal momento in cui il reato viene commesso, in genere molto prima che si apra la relativa indagine, e le pene lievi (leggermente inasprite dal nuovo testo anticorruzione del 2012) comportano altrettanto brevi tempi di scadenza. Il resto lo fanno i buoni avvocati che spesso i colletti bianchi possono permettersi. Risultato: in un Paese sempre punito dalle classifiche internazionali sulla trasparenza, tra i detenuti in carcere «si contano soltanto 11 accusati per corruzione, 26 per concussione, 46 per peculato, 27 per abuso d’ufficio aggravato» [35] .
Da un punto di vista più generale (e comune ai settori civile e penale), il raffronto con gli altri principali sistemi europei appare desolante sotto il profilo delle risorse messe a disposizione dei magistrati.
Da tutti i rapporti CEPEJ sullo stato della giustizia in Europa emerge che, se è vero che l’Italia figura tra i Paesi che spendono di più, in termini assoluti, per la giustizia, essa ricade ampiamente sotto la media europea per le spese per gli uffici giudiziari (cioè le precedenti depurate dalle prigioni, dal patrocinio a spese dello Stato e dalle spese per le procure). Non solo: tale dato appare in costante discesa negli ultimi anni.
Cosa ancora più preoccupante, l’Italia risulta agli ultimissimi posti per quanto riguarda il numero di cancellieri o personale di cancelleria per 100.000 abitanti (40, contro 66 della Germania, 58 del Portogallo, 54 dell’Austria, 52 della Russia, ecc., con una media europea pari a 62). La Germania, inoltre, ha, come già ricordato, 8.500 Rechtspfleger, ciò che rappresenta quasi la metà del numero totale dei giudici!
E’ fin troppo noto che da noi si è ritenuto di risolvere, come sempre, «a costo zero» i problemi della scarsità di personale con l’introduzione del p.c.t., il che ha significato, in buona sostanza, spostare sui giudici gran parte del lavoro del personale di cancelleria, così evitando di assumere nuove unità.
Inutile stendere qui un cahier de doléances sui fin troppo noti guasti introdotti dal p.c.t. nell’attività ordinaria del giudice, per non dire della vera e propria «devastazione» di un bene come la qualità della vita e del lavoro del giudice, così rilevante per una professione tanto delicata e pericolosa (in primis per chi la esercita!) come la nostra. Continui guasti, interruzioni, estrema lentezza, farraginosità, inutile ridondanza delle informazioni, continuo stress determinato dalla necessità di tenere d’occhio svariate funzioni, al fine di evitare che istanze, atti, documenti e provvedimenti vadano irrimediabilmente persi (con conseguenze drammatiche, ovviamente, per il giudice) e via discorrendo. Ma non basta ancora. E’ sin troppo noto che il p.c.t. ha dato luogo ad un’intera branca autonoma della procedura civile, che si declina in una quantità incredibile di contributi dottrinali e giurisprudenziali esclusivamente dedicati agli infiniti problemi creati ex novo dalle procedure telematiche, che si è andato ad innestare in un sistema come il nostro, caratterizzato dal trionfo dei bizantinismi e delle trappole processuali d’ogni genere e qualità.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti.
Il giudice civile italiano passa ormai una metà del suo tempo a risolvere i problemi a lui direttamente creati dal p.c.t. e l’altra metà… a risolvere quelli creati dal p.c.t. agli avvocati (istanze varie ed incredibili: dalla richiesta di cancellazioni di iscrizioni telematiche asseritamente errate, come se il giudice avesse un potere sull’organizzazione dei registri telematici, alle inevitabili domande di rimessione in termini per chi è atavicamente abituato a svegliarsi all’ultimo momento, salvo scoprire che il sistema non funziona, a richieste di «forzature» telematiche del sistema, come se il giudice fosse dotato di una sorta di magico e virtuale «pie’ di porco», e via salmodiando…).
Appare quindi incredibile (e per molti aspetti persino vergognoso) che la magistratura italiana abbia accettato e continui ad accettare un simile svilimento delle sue funzioni, caricandosi di occupazioni e preoccupazioni che distraggono inevitabilmente il giudice dal lavoro per il quale è stato selezionato ed è (mal) pagato: vale a dire risolvere i problemi di diritto, non quelli legati ad una tecnica che, per quanti sforzi possa fare, un giurista non arriverà mai a padroneggiare del tutto (una tecnica che, comunque, una volta eventualmente padroneggiata, assorbe il giurista in maniera pressoché esclusiva, e, dopo averne esaurito forze e risorse, non lo aiuta certo a risolvere i veri problemi che costituiscono l’intima essenza della sua missione!).
Ora, in tutti i sistemi stranieri che ho avuto modo di conoscere, nessun giudice: dico nessun giudice, accetterebbe di sottoporsi alle torture che il p.c.t. quotidianamente ci infligge. Il rapporto con il fascicolo (telematico o cartaceo che sia) passa attraverso una selva di cancellieri, assistenti, segretari, che, giustamente, svolgono le funzioni per le quali sono stati selezionati e vengono pagati.
9. Un serio e nuovo problema di indipendenza e autonomia della magistratura: il rapporto sempre più conflittuale con la classe forense (e il Contempt of Court).
Il punto finale e veramente fondamentale su cui vorrei attirare l’attenzione è dato oggi, in Italia, dal rapporto del giudice (in particolare di quello civile, posto che, in penale, un certo rispetto per le funzioni giurisdizionali forse ancora sussiste, non foss’altro per il timore che naturaliter incute un giudice ancora potenzialmente in grado di limitare la libertà personale degli individui) con la classe forense. E qui va constatato, innanzi tutto, che la magistratura italiana risulta particolarmente sfortunata.
In primis perché ci collochiamo in un sistema di civil law, nel quale, cioè, non appare neppure pensabile che il giudice (a differenza di ciò che accade in moltissimi sistemi di common law) possa egli stesso esercitare un diretto potere disciplinare nei confronti degli avvocati. Nei sistemi anglosassoni non è difficile trovare decisioni in cui si giustifica il potere disciplinare del giudice sull’avvocato come segue: «The primary duty of courts is the proper and efficient administration of justice. Attorneys are officers of the court and the authorities holding them to be such are legion. They are in effect an important part of the judicial system of this state. It is their duty honestly and ably to aid the courts in securing an efficient administration of justice. The practice of law is so intimately connected and bound up with the exercise of judicial power and the administration of justice that the right to define and regulate its practice naturally and logically belongs in the judicial department of our state government» [36] .
A ciò s’aggiunga che in molti (e importanti) ordinamenti europei, se la prima istanza disciplinare è nelle mani degli ordini professionali (o di organismi ad essi collegati), il secondo grado è sempre di competenza giurisdizionale (Francia, Germania, Paesi Bassi, Svezia, etc.), laddove da noi giudice disciplinare d’appello è il CNF e solo per questioni di diritto è possibile ricorrere in Cassazione, dopo il doppio passaggio tramite gli ampi «filtri» corporativi generosamente applicati in primo e secondo grado.
In secondo luogo va rilevato che l’Italia è il Paese europeo (e probabilmente mondiale) che annovera il più alto numero di avvocati per abitante e per giudice.
Ora, pur non volendo entrare nella polemica sull’eccessivo numero degli avvocati come causa di contenzioso inutile e di abusi nel processo (ciò di cui sono, prima ancora che fermamente convinto, quotidiano ed impotente testimone), non posso fare a meno di osservare che vi sono dati che dovrebbero far meditare.
Gli avvocati sono oggi in Italia 240.000 (contro, ad esempio, i 47.000 della Francia) ed aumentano al ritmo di 15.000 unità l’anno. Un terzo degli avvocati di tutta la UE è italiano. Il 93% dei giovani laureati in giurisprudenza finisce per fare l’avvocato, spesso come soluzione di ripiego.
Una situazione di questo genere ha determinato quasi inevitabilmente un’impennata nel tasso di aggressività di queste persone, tanto nei confronti dei colleghi, che nei riguardi del giudice: con un «effetto moltiplicatore» dovuto ad una campagna di quotidiana denigrazione della magistratura da parte dello stesso capo del governo (e dei numerosi organi di disinformazione in suo esclusivo possesso), ingaggiata a partire dalla metà degli anni Novanta dello scorso secolo e proseguita, come fin troppo noto, per un numero consistente di lustri.
Dopo quasi 33 anni di esercizio della professione, posso assicurare che la situazione è radicalmente mutata rispetto a quella dei miei esordi. Un tempo, la parte che perdeva la lite, al massimo, proponeva appello. Oggi, sembra quasi che gli avvocati, prima ancora che i loro clienti, non riescano (o non vogliano?) comprendere che il giudice – con tutta la buona volontà – non può dar ragione, per forza di cose, ad entrambi i contendenti. L’appello diviene così solo l’ultima risorsa. In primis l’avvocato (o, per lui, il cliente) sporge nei confronti del malcapitato magistrato – reo di avergli dato torto – denuncia, querela, esposto al CSM, o, sempre più spesso, ai capi degli uffici (e, con un po’ di fortuna per gli autori di siffatte bravate, se i destinatari delle missive appartengono alla categoria di quelli che chiamo magistrati amanti del quieto vivere, l’avvocato si vede pure data ragione, senza neanche che il capo si premuri di chiedere, non dico il parere del malcapitato magistrato, ma, neppure, quello dell’altra parte processuale!).
Molti, addirittura, si «portano avanti», minacciando velatamente (a volte neanche troppo!) il giudice prima ancora che egli emetta la decisione. Sempre più spesso, poi, quanto sopra è preceduto da quella che io chiamo le «esercitazioni di tiro a segno» nei confronti del c.t.u., rispetto al quale l’avvocato comincia, per così dire, ad allenarsi, per poi alzare il tiro verso il giudice, se soltanto s’azzarderà a seguire la consulenza sgradita.
Ed è qui che il problema dell’efficienza (la necessità di limitare drasticamente il numero spropositato di domande e, per converso, di resistenze in giudizio infondate) viene a ricongiungersi inevitabilmente con quello dell’indipendenza del giudice. Dell’indipendenza non tanto (e non solo) «esterna» della magistratura nel suo complesso, bensì di quella, non meno importante, «interna» del singolo magistrato, chiamato a prendere decisioni talora scomode, nella più totale solitudine, sovente senza neppure l’appoggio morale di quei «superiori», che invece dovrebbero aiutarlo a tenere la schiena dritta di fronte a manovre aggressive (e, in fin dei conti, estorsive ed aggressive).
Posto, dunque, che l’attacco al giudice è divenuto ormai un modus operandi quasi quotidiano di un numero ogni dì crescente di avvocati, vi è il serissimo rischio che un numero crescente di colleghi e colleghe, per quieto vivere, finisca, come dire, per «adattarsi». In fondo con un minimo di esperienza è facilissimo capire quale, tra i due legali, potrà (per usare un eufemismo) «dare fastidio»: basta vedere il piglio (e la scorrettezza) con cui taluni menano fendenti verso l’avversario, attaccano i testi in udienza, o, addirittura, il c.t.u. (parlando a nuora perché suocera intenda…). Paradossalmente posso dire che in quasi 33 anni di attività non ho mai sentito la mia indipendenza minacciata da colleghi, dall’esecutivo, o dal legislativo. Da alcuni anni, invece, comincio a sentirmi in taluni casi fortemente imbarazzato, minacciato dall’atteggiamento di certi avvocati (e avvocatesse: almeno in questo settore, va detto che la parità di genere è stata… veramente conquistata!).
Sovente mi è capitato di parlare di questi problemi con colleghi di common law, ed anzi ho avuto anche il privilegio di essere chiamato a presiedere con loro udienze, ad esempio, in Australia, toccando con mano tremante e con mente sconcertata la profondità dell’abisso che ci separa. Ora, in quei sistemi il problema cui ho fatto riferimento non si pone nel modo più assoluto. E ciò per l’evidente ragione che lì il giudice non ha il mero potere di segnalare eventuali comportamenti scorretti ad un Consiglio dell’Ordine che, inevitabilmente (per lo meno, così accade da noi), insabbierà il caso, ma può procedere direttamente contro l’avvocato (o la parte, o un terzo) per Contempt of Court [37] .
Proprio per questa ragione posso vantare la piccola soddisfazione di essere riuscito a far inserire nell’ Explanatory Memorandum della già citata Raccomandazione R (12) 2010 la considerazione per cui (cfr. art. 21 del citato Memorandum) «The Recommendation calls for all necessary measures to be taken to protect and promote the independence of judges. These measures could include laws such as the “contempt of court” provisions that already exist in some member states (Recommendation, paragraph 13)».
In conclusione, non potendo certo sperare che i nostri illuminati governanti traggano esempio da quei saggi principi normativi che danno al giudice di common law il potere di difendersi da sé contro gli attacchi alla sua indipendenza, non rimane che augurarsi che, considerati i tempi bui in cui viviamo, il nostro organo di autogoverno sappia, quanto meno, scegliere capi degli uffici che, lungi dal rifugiarsi nel placido ruolo di «passacarte disciplinari», sappiano darsi la forza e il coraggio necessari ad aiutare i loro giudici a tenere, come dico io, «la schiena dritta» davanti alla crescente tracotanza del ceto forense, se vogliamo continuare a contare su di una magistratura composta d’individui veramente indipendenti ed autonomi.
[1] Per ulteriori informazioni rinvio al sito web dell’UIM, all’indirizzo http://www.iaj-uim.org.
[3] Cfr. https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?p=&Ref=DAJ/DOC(98)23&Language=lanEnglish&Ver=original&BackColorInternet=DBDCF2&Back ColorIntranet=FDC864&BackColorLogged=FDC864&direct=true.
[4] Cfr. https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?p=&Ref=CCPE(2014)4&Language=lanEnglish&Ver=original&BackColorInternet=DBDCF2&Back ColorIntranet=FDC864&BackColorLogged=FDC864&direct=true.
[5] Su cui cfr. Oberto, La raccomandazione del Consiglio d’Europa sul tema: «Indipendenza, efficienza e responsabilità dei giudici», https://www.giacomooberto.com/coe_raccomandazione_2010/Oberto_raccomandazione_2010_CoE.htm.
[8] Cfr. https://wcd.coe.int/ViewDoc.jsp?p=&Ref=CCJE-MC(2010)3&Language=lanEnglish&Ver=original&BackColorInternet= DBDCF2&BackColorIntranet=FDC864&BackColorLogged=FDC864&direct=true.
[9] Cfr. https://rm.coe.int/CoERMPublicCommonSearchServices/DisplayDCTMContent?documentId=09000016804be55a.
[10] Cfr. art. 14: «In countries where the public prosecution is independent of the government, the state should take effective measures to guarantee that the nature and the scope of the independence of the public prosecution is established by law». Va riconosciuto, in tutta onestà, che nemmeno Monsieur de la Palice avrebbe saputo far di meglio!
[11] Cfr. Corte cost., 18 gennaio 1989, n. 18. Sul tema si fa rinvio a Oberto, La responsabilité civile des magistrats en Italie, https://www.giacomooberto.com/Oberto_La_responsabilite_civile_des_magistrats_en_Italie.htm.
[12] Per una panoramica delle reazioni cfr. l’apposita pagina web predisposta dall’Unione Internazionale dei Magistrati: http://www.iaj-uim.org/solidarity-news-and-documents-about-yarsav/.
[13] Cfr. http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-115871 (in partic. p. 21 della motivazione).
[14] Cfr. http://hudoc.echr.coe.int/eng?i=001-159769 (v. la parte della motivazione posta sotto il titolo «international materials»).
[15] Sul ruolo della Corte di Strasburgo nella tutela dell’indipendenza della magistratura prima dei due arresti citati nel testo si fa rinvio a Oberto, Judicial Independence and Judicial Impartiality: International Basic Principles and the Case-Law of the European Court of Human Rights (Turin – 2012), https://www.giacomooberto.com/munich2012/independence.htm.
[16] Sul punto si fa rinvio a Oberto, Judicial Independence in its Various Aspects: International Basic Principles and the Italian Experience, dal 14 febbraio 2013 disponibile al seguente indirizzo web: http://giacomooberto.com/reportkiev2013.htm.
[17] Una semplice occhiata alla pagina dedicata al tema «rule of law» nel sito web del Consiglio d’Europa – http://www.coe.int varrà a fornire una prima, ancorché approssimativa, idea al riguardo.
[18] Cfr., rispettivamente, http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/ccje/default_EN.asp e http://www.coe.int/t/DGHL/cooperation/ccpe/default _en.asp.
[20] Cfr. la CEPEJ-STAT dynamic database, disponibile al seguente sito web: http://www.coe.int/T/dghl/cooperation/cepej/evaluation/2016/STAT/default.asp.
[21] Cfr. http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/cepej/Delais/default_en.asp. Sul tema v. anche Oberto, Study on Measures Adopted in Turin’s Court (“Strasbourg Programme”) along the lines of “SATURN Guidelines for Judicial Time Management”, https://www.giacomooberto.com/study_on_Strasbourg_Programme.htm; Id., La CEPEJ e il Tribunale di Torino (breve relazione sull’attivita svolta dal Réseau des Tribunaux référents de la CEPEJ e dal Groupe de pilotage du Centre pour la gestion du temps judiciaire « SATURN »), https://www.giacomooberto.com/cepej_per_sito.htm.
[22] Cfr. http://www.coe.int/t/dghl/cooperation/cepej/quality/default_en.asp. Sul tema v. anche Oberto, Enquiry into the “Customer Satisfaction Survey in Turin Courts” (2013 Edition), https://www.giacomooberto.com/Oberto_report_survey_satisfaction_2013.htm.
[23] Cfr. il documento dell’ANM dal titolo Le verità dell’Europa sui magistrati italiani, https://www.google.it/search?hl=it&as_q=&as_epq=Le+verit%C3%A0+dell%E2%80%99Europa+sui+magistrati+italiani&as_oq=&as_eq=&as_nlo=&as_nhi=&lr=&cr=&as_qdr=all&as_sitesearch=&as_occt=any&safe=images&as_filetype=&as_rights=.
[24] Sul tema sia consentito rinviare a Oberto, La motivazione delle sentenze civili in Europa: spunti storici e comparatistici, dal 17 gennaio 2009 disponibile al seguente sito web: https://www.giacomooberto.com/milano2008/sommario.htm (v. in particolare i §§ 6-16).
[25] Cfr. artt. 202 e 203 c.p.c. francese; sul punto v. anche Oberto, Les éléments de fait réunis par le juge : l’administration judiciaire de la preuve dans le procès civil italien, in Revue internationale de droit comparé, 1998, p. 779 ss.
[26] Cfr. http://www.cortedicassazione.it/cassazione-resources/resources/cms/documents/Relazione_Corti_Supreme_08.pdf (ricerca a cura dell’Ufficio Massimario della Suprema Corte di Cassazione).
[27] Cfr. https://www.supremecourt.uk/decided-cases/index.html. Si noti che, per quel che riguarda la Corte suprema degli Stati Uniti, nel 2009 solo 8.159 casi (civili e penali) sono approdati all’esame della più alta istanza giudiziaria americana con un aumento del 5,4% rispetto all’anno precedente. Di questi, peraltro, solo una piccolissima parte viene esaminata, essendo necessario che almeno 4 dei 9 giudici chiedano di esaminare il ricorso.
[31] Cfr. il nouvel article L. 331-2 del Code de l’organisation judiciaire; informazioni al riguardo sono disponibili ad es. in https://www.dictionnaire-juridique.com/definition/dernier-ressort.php. Da notare che il sistema francese, pur prevedendo dal 1° gennaio 2017 l’abolizione dei juges de proximité e il trasferimento delle relative controversie ai Tribunaux d’instance, continua a stabilire (cfr. art. R223-1 del Code de l’organisation judiciaire, come stabilito dal Décret n° 2008-522 del 2 giugno 2008 - art. (V), che «Le tribunal d’instance connaît des actions mentionnées au premier alinéa de l’article L. 223-1 en dernier ressort jusqu’à la valeur de 4 000 euros et à charge d’appel jusqu’à celle de 10 000 euros. Il connaît à charge d’appel des actions mentionnées au deuxième alinéa de cet article. Il connaît, en dernier ressort jusqu’à la valeur de 4 000 euros et à charge d’appel jusqu’à celle de 10 000 euros, des actions mentionnées au troisième alinéa du même article».
[32] «There is a need for a permission from a higher court in order to be able to appeal. There is a time limit of 21 days within which a party can appeal. Time limitations relating to appeals from Court of Appeal to House of Lords is 1 month from the date when the order was made or 3 months if permission is granted form Court of Appeal. The permission can be granted by a lower court or appeal court and there are two grounds for the appeal to be granted. According to Civil Procedure Rules CPR 52.3 the appeal must have a real prospect of success and there is some other compelling reason why the appeal should be granted. There are a few exceptions when there is no need for a permission to be granted. If the lower court allows the appeal when it made the decision, the application to appeal should be made orally, if the appeal was not granted, the applicant should apply to appeal court in the form of appellant’s notice. The appeal court will then consider the application, if this is refused the appellant has the right for this application to be reconsidered orally however if this is refused there is no further right to appeal against this decision» (cfr. http://www.inbrief.co.uk/court-judgements/right-to-appeal/).
[33] Cfr. https://www.judiciary.gov.uk/about-the-judiciary/the-judiciary-the-government-and-the-constitution/jud-acc-ind/right-2-appeal/.
[34] Cfr. Di Monte, Il “nuovo” filtro in appello e i persistenti dubbi sulla modifica dell’art. 342 c.p.c., http://www.diritto.it/docs/36292-il-nuovo-filtro-in-appello-e-i-persistenti-dubbi-sulla-modifica-dell-art-342-c-p-c/download?header=true.
[35] Cfr. il Resoconto stenografico dell’Assemblea della Camera dei Deputati, del giorno 24 marzo 2015 (seduta n. 398 – XVII Legislatura), in http://www.camera.it/leg17/410?idSeduta=0398&tipo=stenografico.
[37] Cfr. ad esempio quanto stabilito nel Regno Unito dal Contempt of court act del 1981:
«12
2 Offences of contempt of magistrates’ courts.
(1)A magistrates’ court has jurisdiction under this section to deal with any person who—
(a)wilfully insults the justice or justices, any witness before or officer of the court or any solicitor or counsel having business in the court, during his or their sitting or attendance in court or in going to or returning from the court; or
(b)wilfully interrupts the proceedings of the court or otherwise misbehaves in court.
(2)In any such case the court may order any officer of the court, or any constable, to take the offender into custody and detain him until the rising of the court; and the court may, if it thinks fit, commit the offender to custody for a specified period not exceeding one month or impose on him a fine not exceeding [F14£2,500], or both.
(…)
(4)A magistrates’ court may at any time revoke an order of committal made under subsection (2) and, if the offender is in custody, order his discharge.
(…)
14. Proceedings in England and Wales.
(1)In any case where a court has power to commit a person to prison for contempt of court and (apart from this provision) no limitation applies to the period of committal, the committal shall (without prejudice to the power of the court to order his earlier discharge) be for a fixed term, and that term shall not on any occasion exceed two years in the case of committal by a superior court, or one month in the case of committal by an inferior court.
(2)In any case where an inferior court has power to fine a person for contempt of court and (apart from this provision) no limit applies to the amount of the fine, the fine shall not on any occasion exceed [F20£2,500]».