Un padre ignorato: Thomas Paine

When Bill Clinton and Al Gore stopped off at Monticello en route to Washington for their inauguration, Gore pointed to two portraits hanging in Mr. Jefferson's home and asked the guide, "Who are those two guys?" "Jefferson and Madison," the stunned historian answered. (Da un articolo di giornale americano)


Contrariamente a Tremonti, Berlusconi e tanti altri italiani, esistono americani, come nientemeno che Robert Dahl (sì, proprio quello del “pluralismo”), che si interrogano sulla questione “How Democratic is the American Constitution?” (Yale University Press, 2002).

Negli USA si tratta di un dibattito puramente accademico, l’”opinione di massa” si limita a rifiutarsi di farsi registrare alle elezioni, votando “by their feet”. Quest’ultimo è un sistema elettorale legittimo, riconosciuto e molto praticato in America, sin dalla fondazione.

La costituzione federale americana è vecchia di 219 anni, FORMALMENTE è ancora immutata, malgrado innumerevoli proposte e tentativi di emendamento, tutti finiti nel nulla. Le costituzioni degli Stati dell’Unione sono invece state sottoposte a processi di emendamento travolgenti, non di rado sono state innovate totalmente già tre, quattro, cinque volte in molti stati. I cambiamenti principali della costituzione federale sono dovuti a tre fonti: la costituzione materiale, il sistema giudiziario, le entità amministrative federali (“big government”).

La paternità della costituzione americana è stata sostanzialmente attribuita a Alexander Hamilton, John Madison e John Jay, autori anche dei Federalist Papers, che alcuni professori di politologia in Italia ancora prescrivono come medicina ai loro poveri studenti, non pochi dei quali a seguito della lettura si convincono che gli stessi possano essere utilizzati come commentario alla costituzione federale stessa. Ma non è proprio così. I Federalisti dei Federalist Papers nelle discussioni della Convenzione hanno imposto UNA costituzione formale ed una costituzione materiale, che sono entrate in conflitto in molti momenti vitali del primo stato di diritto al mondo, conflitti che si sono dimostrati risolvibili con nessun altro mezzo che una guerra civile durata sette anni, altrettanti quanti è durata la rivoluzione.

Come in Italia, anche per quanto riguarda l’America Robert Dahl ammette che esistono almeno due costituzioni, una formale, quella scritta che conosciamo, e quella materiale, che scaturisce dallo spirito della guerra di indipendenza. Tuttavia anche nel libro di Dahl il nome di Thomas Paine si cerca invano. Thomas Paine non ha monumenti né in America né in Europa lontanamente confrontabili con quelli di altri grandi personaggi storici americani. Di lui non parlano tanto né gli specialisti né i non specialisti di cose americane.

La guerra di indipendenza americana e il costituzionalismo americani hanno avuto trai loro promotori principali anche Thomas Paine, un ex impiegato doganale inglese emigrato nel nuovo mondo a seguito di un incontro con Benjamin Franklin in una loggia massonica di Londra. Thomas Paine tuttavia è stato molto, ma molto più che un soldato semplice in un esercito rivoluzionario, un costituzionalista della prima ora, un acutissimo e instancabile analista politico, un filosofo e un teologo ispirato da una salda educazione quacchera, è stato anche un inventore, un ingegnere e un matematico. E’ stato il primo ad usare la locuzione “United States of America”. Il concetto di repubblica costituzionale e la sua applicazione al caso concreto dell’indipendenza degli Stati Uniti dal giogo monarchico inglese, sono “sue invenzioni”, è stata la sua mente a crearle. Non dal nulla, in quanto molto del pensiero politico di Paine è rintracciabile nella storia dei Levellers inglesi (non in John Locke, come si sente dire spesso in Italia).

In varie fonti si tramanda che l’opera principale di Paine, “Common Sense”, sia stata venduta tra le 500,000 e le 600,000 volte nelle colonie inglesi d’America. Esiste anche una storiografia americana che attribuisce a Thomas Paine la paternità della prima versione della Dichiarazione di Indipendenza come anche della costituzione della Pennsylvania del 1776. In momenti bui della guerra rivoluzionaria, Washington ha fatto leggere ad alta voce scritti di Thomas Paine alle truppe. La risonanza delle idee di Paine fu inaudita, specialmente se si tiene presente che si sta parlando di un paese in cui i tre quarti della popolazione erano schiavi, non solo neri, ma anche bianchi, che andavano nel nuovo mondo con “contratti” di schiavitù “volontaria” noti come “indenture”. La maggior parte di loro ovviamente non sapeva né leggere né scrivere. Non ci sono tuttavia motivi seri per mettere in dubbio la diffusione di Common Sense, come anche non ci sono motivi per togliere a Thomas Paine una quota alla paternità del costituzionalismo americano. Ma di quale? Di quello scritto o di quello materiale? Perché poi di Paine si è cominciato a parlare sempre di meno?

Guardando da oggi alla storia del costituzionalismo democratico, sarà facile rendersi conto che Paine ha realizzato concretamente qualcosa che, per cento anni e più, è appartenuto al regno della più pura utopia politica in Europa ed è stato fatto oggetto di persecuzioni feroci da parte dell’”establishment”, non solo quello di inglese. Thomas Paine ha posto le fondazioni giuridiche, pratiche ed ideali del costituzionalismo democratico moderno, di tutti i costituzionalismi. Ancor di più: ha anche posto le fondamenta del superamento del costituzionalismo democratico e del suo passaggio in qualcos’altro, in qualcosa che si potrebbe chiamare lo “stato umano”.

Paine, contrariamente a Washington, a Hamilton, a Madison e a Jay, non apparteneva al notabilato inglese delle colonie, all’elite terriera o mercantile, non era proprietario di schiavi, ma un “popolano”, senza altri mezzi che una buona vena scrittoria, che non poteva mettere a buon frutto in patria, in quanto la monarchia inglese non digeriva affatto certe idee, che risalgono all’Inghilterra della Glorious Revolution, in particolare al movimento dei Levellers. Dopo aver ricevuto una formazione religiosa in una comunità quacchera e tecnica come meccanico, Paine era diventato un “impiegato dello stato” a tempo determinato, come diremmo oggi, che aveva imparato ad odiare lo stato (ovvero la monarchia inglese). Non è difficile immaginare i motivi: licenziato per due volte senza motivo, ovvero in quanto aveva scritto e presentato una petizione in parlamento per alzare lo stipendio da fame dei doganieri, costretto a sopravvivere con una one-man-band che lavorava tabacco, senza alcuna prospettiva, la persecuzione del quaccherismo da parte della monarchia, la sua origine irlandese. Bisogna prendere tutti questi elementi come fatti iniziali per capire la natura del suo contributo alla paternità della costituzione materiale americana, di cui troppi preferiscono non parlare. I motivi possibili per non parlare di questa paternità e di tanti altri particolari della vita di Thomas Paine, che sono veramente sorprendenti, sono ovviamente molti. Questo antimonarchico sfegatato infatti, sarebbe potuto diventare uno dei tanti monarcomachi della tradizione inglese. La vita invece, dopo averlo reso uno dei protagonisti della guerra di indipendenza americana, nel 1787 lo condusse a tornare in Europa e a trovarsi a Parigi nel bel mezzo della rivoluzione francese, non come uno qualsiasi, ma come membro a pieno titolo dell’Assemblea Nazionale, la prima delle assemblee costituenti francesi.

Paine arriva a Filadelfia nel novembre del 1774, diventa membro della Philosophical Society fondata da Franklin e continua ad auto-formarsi mentre riesce a vivere come editore-scrittore del Pennsylvania Magazine. Alcuni dei suoi articoli li firma, altri li firma con pseudonimi (Vox Populi, Atlanticus, Aesop) per dare l’impressione che la rivista si serva di più autori. Subito va giù pesante su temi sociali di grande rilevanza. Ad appena tre mesi dal suo arrivo, pubblica un saggio contro la schiavitù, seguono numerosi saggi sui diritti delle donne e sul divorzio, sui diritti degli animali, contro i titoli nobiliari e numerosi saggi che hanno di mira la monarchia in quanto tale, non solo quella inglese. Ovviamente attira su di sé attenzioni che lo perseguiteranno per il resto della sua vita. Filadelfia è una città a maggioranza “Tory”, filoinglese e filomonarchica. E’ la citta di Alexander Hamilton e di John Quincy Adams, il secondo presidente degli Stati Uniti.

Paine scrive nell’autunno del 1775 Common Sense, che pubblica nel gennaio del 1776. George Washington, che fino ad allora nel conflitto tra la corona inglese e le colonie aveva sostenuto la parte di chi pensava di poter trovare un compromesso con la corona inglese, a seguito della lettura del pamphlet di Paine, si convince che l’indipendenza è un fatto di “buon senso”.

Il linguaggio di Paine è secco, diretto e quasi epigrammatico, ma, contrariamente a tanti altri pamphlet rivoluzionari, l’argomento di Paine non è fondato su valutazioni giuridiche volte a dimostrare l’incostituzionalità delle leggi tributarie del parlamento e della monarchia inglesi sulle colonie americane. Per Paine la causa dell’indipendenza delle colonie dall’Inhilterra è una causa che riguarda l’intera umanità, in cui la ribellione contro le leggi tributarie si trasfigura nel diritto all’autodifesa da parte di chi subisce i soprusi dei governi monarchici sugli “human rights”, sui diritti umani. Sul diritto umano all’autodifesa di fronte all’abuso del potere politico, Paine fonda tutti gli altri diritti, derivati dai diritti “naturali” degli inglesi per tradizione, diritti civili quali il diritto alla costituzione e il diritto alla rivoluzione. Se in ciò Paine non si discosta di molto dalla tradizione inglese dei Levellers, si discosta completamente da quella tradizione attribuendo il valore di unica fonte possibile della legittimazione costituzionale al “People”, al popolo. Sapendo chi era e che cosa aveva scritto Paine fino al 1776, la possibilità che egli utilizzando quella parola Paine pensasse al “popolo” astrattamente inteso come i futuri rivoluzionari francesi la “nazione”, è piuttosto ridotta. Partendo dal presupposto che il sistema di governo monarchico era un sistema di governo degenerato, Paine legittimava gli obiettivi costituzionali della guerra di indipendenza sul diritto umano individuale di ogni uomo di essere governato da un sistema di governo fondato sui diritti umani individuali. L’affermazione di principio non poteva restare senza strumenti procedurali: dieci anni prima della convocazione della Convenzione di Filadelfia, alla fine di “Common Sense” Paine descrive una procedura di formazione di un’assemblea costituente popolare di 26 membri, due per ciascuna “provincia”, che avrebbero scritto una “Continental Charter” o “Charter of the United Colonies”, che si sarebbe poi dissolta e avrebbe dato i poteri conferiti a quell’assemblea agli organi legislativi ed esecutivi di ciascuna “provincia”. Il funzionamento del tutto era condizionato sulla possibilità di quello che Paine chiamava “large and equal representation”. Paine tuttavia non è né trai firmatari della Dichiarazione di Indipendenza né sarà trai delegati, che nel 1787 a Filadelfia scriveranno la costituzione federale. Paine ha proposto una Dichiarazione di Indipendenza in cui ovviamente veniva abolita la schiavitù. Come sappiamo quella approvata, non contiene alcuna affermazione in merito alla schiavitù.

All’inizio della rivoluzione americana troviamo Thomas Paine come soldato semplice tra le truppe del Flying Camp della Pennsylvania, che intervenivano là dove ce ne era bisogno, poi aiutante di campo volontario del generale Greene. Paine continuava a scrivere pamphlet patriottici seduto vicino ad un fuoco d’accampamento e occasionalmente discuteva problemi matematici con ufficiali del genio di Greene. All’inizio del 1777 Paine viene eletto Secretary of State della Pennsylvania, non senza incontrare forti opposizioni. E’ vicino a Washington durante l’occupazione inglese di Filadelfia e nei momenti più bui della guerra si convince che Washington fosse l’uomo sbagliato per comandare le truppe rivoluzionarie. Nel 1778, diventato membro del Foreign Relations Committee, scopre che Sileas Deane, un agente del Congresso Continentale in Francia, che aveva la missione di procurare risorse finanziarie per la guerra, si era appropriato indebitamente di alcune somme. Accusato ingiustamente di aver rivelato segreti di ufficio, Paine preferì dimettersi e ritirarsi a vita privata, iniziando a lavorare come impiegato in uno studio legale invece che difendersi. Nel Novembre del 1779 Paine viene eletto Clerk dell’Assemblea Legislativa della Pennsylvania, carica che lascia prima della scadenza del termine per dedicarsi alla stesura di una storia della rivoluzione su richiesta di Franklin. Fa a malapena in tempo a mettere insieme dei materiali che invece gli viene affidata una delicata missione segreta in Francia, quella di chiedere al re di Francia aiuti finanziari e di portarli in America. L’accompagnatore di Paine, il colonnello Laurens, rischiò di compromettere tutta l’operazione con la sua inesperienza. Paine riuscì tuttavia a portare gli aiuti in America e a farli avere a Washington. Washington ebbe tutta la gloria risultante dalla riuscita dell’operazione. Paine pagò di tasca sua le spese di viaggio. Malgrado il successo dei suoi scritti, Paine versava continuamente in una situazione finanziaria al limite del collasso, in quanto per motivi religiosi si rifiutava di farsi pagare diritti di autore. Gli emolumenti dalle sue cariche pubbliche erano veramente minimi. Nel 1781 Paine era in condizioni economiche talmente disperate da dover ricordare a Washington che cosa aveva fatto la nazione americana. Paine aveva dato tutto sé stesso e tutto quello che aveva per la causa americana. Washington lo aiutò a fargli avere un piccolo appezzamento di terreno a Bordentown, nei pressi di New York, su cui Paine si costruì una casetta, ma Paine dopo la rivoluzione si andava isolando sempre di più. Washington nel Settembre del 1783 lo invitò a festeggiare la fine della guerra al suo quartier generale di Rocky Hill per ricordare ai membri del Congresso i loro doveri con la sua mera presenza. Cosa che Paine fece e che gli procurò un altro appezzamento di terreno a New Rochelle, con una casa signorile. Paine ovviamente accettò il regalo, ma tornò ad abitare a Bordentown, dove aveva trovato amici sinceri che gli erano stati vicini nel momento del bisogno. Altri due stati mostrarono la loro riconoscenza a Paine, consentendogli una decente indipendenza. Per ultimo toccò al Congresso, che tuttavia si trovò di fronte la vecchia storia di Sileas Deane. Una Commissione del Congresso nel 1784 propose il pagamento di un indennità di 6,000 dollari a favore di Paine, che i suoi nemici riuscirono a fare ridurre a 3,000.

Con quel piccolo capitale Paine si dedicò non a sviluppare la sua carriera letteraria o politica, ma una carriera completamente diversa. Già da anni andava studiando problemi di ingegneria dei ponti e si era messo in testa di costruire un ponte con un telaio di acciaio ad un’unica campata, un’innovazione notevole per quei tempi. Tuttavia continua a pubblicare scritti politici.

Nel 1787, quando vengono nominati dagli Stati i delegati alla convenzione di Filadelfia, Paine, nonostante fosse una delle personalità politiche più famose d’America, non viene nominato come delegato da nessuno. Eppure aveva anche esperienza. La costituzione della Pennsylvania del 1776, scritta sotto la supervisione di Franklin, porta la sua impronta. L’impronta di Paine è anche sulla legge di liberazione degli schiavi approvata dall’assemblea legislativa della Pennsylvania nel 1780. Il radicalismo delle pubblicazioni di Paine a seguito della fine della guerra avevano certamente contribuito ad una silenziosa levata di scudi dell’establishment contro di lui. Paine frequentava la Society for Political Inquiries fondata da Franklin, in cui si riunivano Washington, Wilson, Robert Morris, il Governatore Morris, Clymer, Rush, Bingham, Bradford, Hare e Rawle, ma non apriva mai bocca. Era diventato un uomo politicamente solo, dalla cui parte stava solo il vecchio Franklin, che non aveva più la forza di discutere a favore del radicalismo della visione del costituzionalismo democratico che aveva fatto volare la rivoluzione. Ad appena qualche anno dalla fine delle ostilità, i tempi stavano cambiando in tutt’altra direzione. Paine era dell’opinione che l’indipendenza era solo un successo parziale, che la vera liberazione poteva venire solo quando la giovane nazione si fosse liberata non solo dell’influenza politica di potenze straniere, ma anche dei propri pregiudizi. Invece questi andavano crescendo giorno dopo giorno. I pregiudizi sono quelli del partito federalista, dietro al quale si nasconde esattamente il contrario del suo nome, come spesso succede in politica. Hamilton e Adams si sono spesi in lungo e in largo per evitare che la costituzione americana includesse politicamente quello che chiamavano dispregiativamente “mob”, gli umili, quegli umili che avevano combattuto al comando di Washington contro la più grande potenza militare del mondo.


Nel 1787 Paine pianifica di tornare in Europa, per vedere i suoi genitori in Irlanda e per presentare la sua invenzione, il suo ponte d’acciaio, in Inghilterra e in Francia. Pensa di rimanere all’estero per almeno un anno. Invece resterà lontano dall’America per quindici anni. Arrivato in America a 38 anni, la lascia all’età di 52. A Thetford, il suo paese natale trova suo padre morto già da un anno. Parla di fronte alla congregazione quacchera, spiegando ad essa che l’idea che l’aveva indotto a partecipare alla rivoluzione era stata quella di stabilire un sistema di governo rappresentativo per dimostrare la possibilità dell’alternativa a quello monarchico, che considerava disumano e che avrebbe fatto la stessa cosa in qualsiasi paese del mondo diverso dall’America. Il manoscritto del saggio contro la schiavitù l’aveva portato con sé al momento della sua partenza da Thetford. Common Sense non era altro che una “testimonianza” contro il levarsi della boria degli ottimati contro la presenza del divino negli umili. Così, mentre a Filadelfia la Convenzione si apprestava a scrivere quella costituzione per la quale Paine aveva dato tutto sé stesso, Paine parlava in una congregazione quacchera di una repubblica universale, della quale quella americana era solo il primo passo.

Nel 1788 Paine è impegnato a far brevettare la sua invenzione in Inghilterra e in Francia e mantiene una corrispondenza intensa con Thomas Jefferson, allora ambasciatore americano americano a Parigi. In autunno del 1789 troviamo Paine a Parigi, dove viene salutato da Lafayette con onori regali come nuovo ambasciatore americano. Paine ovviamente non aveva nessun incarico ufficiale, ufficialmente era in Francia per brevettare il suo ponte. Il rappresentante ufficiale degli Stati Uniti in Francia era il governatore Morris di Filadelfia, uno dei più acerrimi e vecchi nemici di Thomas Paine. Morris faceva di tutto per tenere in disparte Paine, che nondimeno era ricercato e festeggiato nei circoli rivoluzionari parigini, tanto che Lafayette scelse Paine per fare avere in dono a George Washington la chiave della Bastiglia, che ancora oggi si trova in casa di Washington a Mount Vernon. Il progetto del ponte di Paine tuttavia si arena, in quanto la ditta a cui Paine ne aveva commissionato la costruzione fallisce.

Nel Novembre del 1790 Edmund Burke pubblica le sue Reflexions on the Revolution in France. In The Rights of Man, del 1791, Thomas Paine sferra un attacco violentissimo contro Burke, che in Inghilterra solleva un vespaio, in quanto è chiaro che, riproponendo le idee e il linguaggio di Common Sense e smontando completamente le argomentazioni di Burke sulla rivoluzione francese, all’età di 55 anni, Paine aveva intenzione di incitare alla sollevazione contro la monarchia i suoi concittadini irlandesi ed inglesi. Paine aveva una conoscenza diretta e personale delle persone e dei fatti, che avevano condotto alla rivoluzione in Francia. La dedica a George Washington in The Rights of Man contemporaneamente rappresentava un “J’accuse” contro l’esito federalista della rivoluzione americana. Washington è in considerevole imbarazzo di fronte alle reazioni europee alla nuova opera di Paine. Nel 1791 Paine fonda a Parigi la Societè Republicaine, che inizia la sua attività affiggendo un manifesto repubblicano per tutta Parigi, e inizia un sodalizio con Condorcet, che diventerà uno dei suoi punti di riferimento più importanti in Francia. Un altro manifesto repubblicano di Paine viene pubblicato in Inghilterra. Paine diventa una personalità di massimo rilievo politico, del tutto comparabile con quelle dei più famosi giacobini francesi.

Nel 1792 Paine pubblica la seconda parte di The Rights of Man in Inghilterra e viene incriminato per sedizione. The Rights of Man aveva sino ad allora venduto ca. 200,000 copie. La corona fu costretta a intervenire direttamente sugli editori di Paine vietando loro la stampa e sequestrando le copie di The Rights of Man nei loro magazzini. E’ chiaro che il motivo per intervenire direttamente su Paine derivava dal fatto che la monarchia non veniva più criticata sulla base di un’utopia, ma sulla base della realtà esistente di un governo rappresentativo fondato costituzionalmente negli Stati Uniti, che, come faceva notare Paine, costava al contribuente americano 600,000 sterline l’anno mentre la monarchia inglese 17 milioni di sterline l’anno. Quindi, la monarchia aveva tutte le ragioni per temere che The Rights of Man diventasse in Inghilterra la causa di quello che Common Sense era stato in America. In Francia, la traduzione di The Rights of Man di Lanthenas si dice che fosse “in ogni casa”.

Nell’agosto del 1792 Thomas Paine, insieme al suo compagno di viaggio Anacharsis Cloots e a Washington, Hamilton e un’altra dozzina di americani, ottiene la cittadinanza onoraria francese per decisione della Commissione Straordinaria dell’Assemblea Nazionale. Nel Settembre 1792 ben quattro departements eleggono Paine a delegato all’assemblea costituente francese, che avrebbe steso la prima delle costituzioni rivoluzionarie (che, come tutte le altre, non verrà mai attuata). Paine optò per la delega del dipartimento di Pas de Calais e in assemblea si espresse, lui, il simbolo dell’anti-monarchismo, contro l’esecuzione di re Luigi XIV, per ragioni umanitarie e per ragioni di opportunità politica. Non per ultimo non poteva fare decapitare il re che aveva aiutato finanziariamente la rivoluzione americana. In realtà l’umanismo di Paine gli comandava di combattere l’ancien regime, ma secondo lui la decapitazione del re di Francia e di sua moglie non contribuiva in alcun modo alla causa. Paine chiese all’Assemblea Nazionale che i reali venissero mandati in esilio in America. Per un momento, Paine credette di poter fare in Francia ciò che il suo paese elettivo gli aveva negato e di fare un altro passo per fare avvicinare il mondo all’utopia di una repubblica universale. All’Assemblea Nazionale Paine non era uno dei tanti deputati tra tanti, ma il membro della Commissione dei Sei (tra cui anche l’abate Sieyés), che aveva il compito di scrivere la costituzione. Paine tuttavia non aveva fatto i conti con la possibilità di un esito completamente diverso della rivoluzione francese rispetto a quella americana, ovvero con l’avvento del terrore. Entro il 1792 cinque di quei sei membri della Commissione di cui faceva parte Paine, tra cui l’amico Herault de Seychelles, erano già morti. Alla fine erano rimasti membri della Commissione Paine e Sieyès. Quest’ultimo si veniva riallineando progressivamente su posizioni meno radicali. Così venne risolta la disputa trai rivoluzionari francesi tra quelli che chiedevano l’imitazione delle costituzioni americane e quelli che invece volevano fare di testa loro, tra quelli che erano per il bicameralismo e quelli che invece erano per il monocameralismo invocando l’”unità” assoluta della repubblica. Alla fine del 1792 Paine viene condannato in contumacia in Inghilterra per alto tradimento. Alla sua condanna in Inghilterra segue un’ondata di arresti di radicali democratici e di terrore in tutto il paese. Paine era diventato una preda politica attaccabile da più parti simultaneamente, non per ultimo dai suoi nemici in America.

All’inizio del 1793 la Convenzione considera una proposta di costituzione scritta da Condorcet, ovviamente con il supporto decisivo di Paine. Robespierre e i Montagnardi faranno di tutto per discreditare quel progetto, ma non si limiteranno alle discussioni teoriche. In Aprile il partito costituzionalista di Paine e Condorcet proporrà anche una sua Dichiarazione dei diritti individuali e riuscirà a fare ratificare la costituzione in Agosto. Quando viene il momento di dissolvere la Convenzione, Robespierre riesce a fare sospendere la costituzione con la scusa della guerra tra la Francia e le potenze monarchiche europee. In una lettera di maggio del 1793 Paine confessa a Danton di disperare ormai che la rivoluzione porti alla tanto agognata libertà ed alla repubblica europea, non tanto a causa di interventi esterni o di interventi dalle forze del vecchio regime, ma a causa della confusione e delle rivalità trai rivoluzionari stessi. Robespierre propone alla Convenzione misure legislative per il controllo degli stranieri in Francia. Paine e l’altro americano eletto alla Convenzione, Anacharsis Cloots, capiscono di essere entrati nella mira dei Montagnardi, come Condorcet, che è costretto a fuggire dalla Convenzione e morirà di lì a poco in circostanze oscure.

Nel Dicembre 1793 Paine viene fatto imprigionare nel carcere di Lussemburgo da Robespierre. Ad accusarlo in Assemblea era stato Marat con l’accusa di quaccherismo. Dal carcere di Lussemburgo Paine si salvò dalla ghigliottina per puro caso. Uscì stremato solo nel Novembre del 1794, quando ormai Robespierre aveva già lasciato la scena da un pezzo. Oggi sappiamo che Paine, più che di Robespierre, è stato la vittima di una cospirazione orchestrata ai suoi danni dal Governatore Morris, il quale sapeva in anticipo ciò che gli sarebbe accaduto e che ha chiesto al governo di Washington di lasciare la sua vicenda nel silenzio e nel segreto, insinuando che in ogni caso Paine era cittadino francese e che quindi non interessava più gli Stati Uniti. Ovviamente Paine era finito in carcere proprio perché non era francese, per presunte violazioni della legge francese sugli stranieri.

Nel 1794 Paine viene visitato in carcere da Lanthenas e da altri amici francesi. A Lanthenas consegna la prima parte di The Age of Reason, l’opera filosofico-teologica più importante e più sconosciuta di Paine. In agosto di quell’anno il nuovo ambasciatore americano a Parigi, James Monroe, viene a sapere quasi casualmente del destino di Paine e riesce a farlo liberare dal Lussemburgo. Paine, ormai 58enne, è fortemente debilitato, ha un forte ascesso ad un fianco e si salva la vita solamente grazie all’ospitalità della famiglia Monroe. Nel dicembre del 1794 viene richiamato da Thibaudeau alla Convenzione, ma a causa della situazione di salute Paine non può riprendere il suo posto prima di luglio, quando appare di fronte alla Convenzione per un’ultimo discorso. Non porta rancore né nei confronti dei francesi, che l’hanno imprigionato accusandolo di essere americano, né nei confronti degli inglesi. Porta tuttavia una ferita molto più profonda del suo ascesso nei confronti del silenzio di Washington, che secondo Paine non aveva fatto assolutamente nulla per farlo liberare. Il governo americano in effetti era disinformato intenzionalmente dal Governatore Morris sulla reale situazione di Paine. Morris remava con la coalizione dei federalisti contro il mantenimento dell’alleanza pre-rivoluzionaria e rivoluzionaria con la Francia e verso un’alleanza con l’Inghilterra.

La prima parte di The Age of Reason viene pubblicata in America all’inizio del 1795 e causa una sollevazione contro Paine, che viene accusato di ateismo. The Age of Reason contiene un’esposizione della fede religiosa di Paine, il deismo, che non ha nulla a che fare con l’ateismo. Paine applica in modo radicale schemi di ragionamento e di argomentazione sviluppati in Common Sense e in The Rights of Man per dimostrare l’inconsistenza e la disumanità del sistema di governo monarchico all’Antico e al Nuovo Testamento nonché ai Vangeli. La parola più usata da Paine è mitologia. La sua ricerca è volta ad estrarre da quella mitologia un nucleo morale e teologico, in cui il divino viene identificato nell’esistente. Le varie dottrine religiose per Paine non sono altro che “ridondanze” intorno a questo nucleo centrale. Alla fine del 1795 Paine pubblica la seconda parte di The Age of Reason, in cui dimostra che tutte le religioni rivelate sono imposizioni e frodi. Le affermazioni di Paine sulle gerarchie religiose, di qualsiasi religione esse siano, sollevano contro di lui una reazione immediata e compatta. L’America, che aveva vinto la sua rivoluzione contro il pregiudizio monarchico, malgrado la tolleranza nei confronti di tutte le religioni, non era affatto pronta a riflettere fino in fondo su tutti i suoi pregiudizi religiosi.

Nel 1796 Paine pubblica Agrarian Justice, un pamphlet in cui presenta un sistema di welfare fondato sull’idea che l’ereditarietà della proprietà terriera ha creato un sistema sociale ed economico che egli definisce “orrido”, assolutamente ingiusto. Prima dell’avvento del diritto di proprietà la terra era un bene comune dell’umanità. Paine ritiene che i proprietari terrieri dovrebbero indennizzare i non proprietari per la perdita dei loro diritti sulla proprietà comune pagando contributi in un fondo nazionale, che avrebbe erogato 15 sterline ad ogni persona (quindi anche alle donne) all’età di 21 anni e quindi una pensione a vita di 10 sterline l’anno a partire dal 50° anno d’età. L’occasione per questo piano di welfare era la riforma agraria a cui si apprestava il Direttorio. Paine avevà già concepito piani di welfare simili a questo nelle edizioni precedenti di The Rights of Man, anticipando di 150 anni quello che sarebbe avvenuto in Europa dopo la seconda guerra mondiale. Nello stesso anno Paine fondò a Parigi la Theophilantropic Society, un’associazione dedita alla diffusione di una versione del deismo secondo la quale il miglior modo per diffondere l’amore per Dio è diffondere l’amore per l’uomo e per i suoi diritti individuali.

Monroe nel 1797 torna in America. Paine, sessantunenne e completamente povero, va a vivere con la famiglia di Nicolas de Bonneville, l’editore parigino, che aveva stampato il suo manifesto repubblicano nel 1791. Vorrebbe tornare in America, ma teme che la sua nave venga intercettata da qualche nave inglese. Nel 1797 Paine aveva subito in Inghilterra una nuova condanna in contumacia per blasfemia a causa delle idee espresse in The Age of Reason. A Paine viene confiscato il brevetto per il ponte d’acciaio e un migliaio di sterline su un deposito bancario.

Nel 1799 i giornali di Bonneville vengono chiusi dalla controrivoluzione napoleonica. Sia i Bonneville sia Paine si trovano in condizioni disperate.

Nel 1801 Napoleone stringe un concordato con la chiesa cattolica, la cui prima vittima è la società teofilantropica di Paine. Paine contatta Jefferson chiedendogli di farlo tornare in America su una nave “pubblica”. La partenza tuttavia non riesce prima del 1802. Paine fa seguire Madame Bonneville ed i suoi tre figli nel 1803.

Al suo arrivo, Paine si trovò immediatamente confrontato con quella che chiamava “l’inquisizione americana”, che lo attaccava per le idee espresse in The Age of Reason.

Paine viveva nella casa di New Rochelle e aveva ceduto ai Bonneville la sua casa di Bordentown. Tra il 1803 e il 1805 è impegnato, oltre che a coltivare contatti politici e scientifici, ad aiutare i Bonneville, tanto che nel 1806 è costretto a vendere la sua proprietà a Bordentown per aiutarli. L’ambiente religioso ostile e le difficoltà convincono Paine che tornare in America era stato un errore. Sarebbe stato meglio restare nella sua stanzetta a Parigi, con le sue carte e i suoi modelli di invenzioni. Ma non era tutto, aveva problemi di salute seri e lo spettro del Governatore Morris ancora lo perseguitava. Recatosi ad un seggio elettorale in occasione di un’elezione, a Paine venne addirittura impedito di votare con il motivo che non era un cittadino americano, ma francese. Paine muore a New York l’8 giugno 1809 povero, abbandonato dai politici e dai letterati della repubblica, alla cui nascita aveva tanto contribuito, assistito solamente da Madame Bonneville. Una sorte non di molto diversa toccherà ad altri artefici della costituzione federale: il Governatore Morris, non più rieletto, dopo la presidenza di Jefferson cade nell’oblio più completo; sia Hamilton sia Jefferson moriranno in bancarotta. Monticello, la casa di Jefferson, verrà pignorata dai creditori di Jefferson.

Quindi, perché Thomas Paine non viene annoverato volentieri trai padri costituenti né quelli americani e tantomeno di quelle degli stati “sociali” post-totalitari europei?

Ci sono tanti motivi, ovviamente. Il motivo fondamentale tuttavia è uno solo: Paine ha fondato saldamente il potere costituente sui diritti umani individuali, intesi non in senso astratto, non come “subjektiv-oeffentliche Rechte”, che devono essere “concretizzati” e “delimitati” da un potere legislativo onnipotente ed onnivoro, ma come diritti individuali di singoli nei confronti di singoli, che si uniscono in un’associazione di individui politicamente uguali al fine di raggiungere obiettivi di civiltà umana altrimenti non raggiungibili. Se necessario, anche imbracciando le armi. Ha affermato questo sulla base di un corollario: non si tratta di teorie filosofiche, ma Common Sense.

Paine non ha mai affermato che la rivoluzione americana o la rivoluzione francese abbiano prodotto una qualità di civiltà umana insuperabile, ha solamente legittimato le conquiste di civiltà umanitaria dei rivoluzionari nei confronti dei sistemi dell’ancien regime, di tutti i rivoluzionari, non solo dei loro leader “ottimati”. Ha affermato che le conquiste rivoluzionarie, ottenute contro le monarchie e le aristocrazie, hanno portato a livelli qualità di vita politica ed umana prima inimmaginabili persone che prima potevano essere solo oggetto di disprezzo e di sopruso, ma che l’opera della liberazione dell’uomo dal disprezzo e dal sopruso da parte dei poteri costituiti non è mai e non può essere mai finita. Di qui il diritto alla rivoluzione come diritto umano.

Il potere costituente come diritto umano individuale non può che essere l’altra faccia della medaglia del diritto individuale di rivoluzione. Se fosse stato Thomas Paine a scrivere la Dichiarazione di Indipendenza, avrebbe scritto una Dichiarazione di Indipendenza delle ragioni ultime dell’umanità da qualsiasi forma di stato e di governo, in quanto ogni forma di governo legittima non può che essere un costrutto derivato da diritti umani individuali viventi. Paine ha fondato un’idea di autogoverno e di costituzionalismo democratici fondati su un umanismo integrale, che vive di diritti umani individuali e reali.

Naturalmente è legittimo chiedersi in che misura i movimenti religiosi di destra, che hanno oggi hanno preso il predominio sul sistema politico degli USA, possano essere considerati compatibili con la visione dello sviluppo politico elaborata da Paine e da lui pagata a carissimo prezzo sulla sua stessa pelle. La risposta è semplice: niente affatto, si tratta di una totale perversione delle ragioni e degli obiettivi dei rivoluzionari americani. Una perversione che è segno chiaro del degrado della democrazia americana rispetto alle sue origini. Ancora più perverso è che proprio questa interpretazione perversa della democrazia dei loro padri gli Americani di oggi pretenderebbero di esportare nel mondo.

L’hanno esportata anche in Italia nel 1943, creando una catastrofe, la catastrofe della Prima Repubblika.

Robert Dahl in “How Democratic is the American Constitution?” (2002) conclude che la costituzione federale americana va riformata in senso “più democratico”, ma non affronta il nocciolo fondamentale del problema.

Come si dovrebbe strutturare nel 21° secolo una procedura costituente “giusta”, ovvero rispondente a criteri di fairness? O a quanto acquisito dagli “standard” di procedura costituzionale elaborati dalla storia, dalla dottrina giuridica e dalla politologia? Basterebbe oggi ripetere la Convenzione di Filadelfia? E’ un’esperienza ripetibile? Basta di nuovo nominare 26 delegati ad una convenzione? Si può legittimare una costituzione praticamente non emendabile solo facendola ratificare da una maggioranza di legislature statali? E’ vero che non esistono “standard” per il potere costituente, come volentieri affermano giuristi italiani? Oppure: il fabbisogno nazionale di potere costituente è sorto e si è esaurito con l’Assemblea Costituente del 1947, come alcuni giuristi italiani pretendono di poter affermare legittimamente?

Questi standard esistono e come. Che sono standard non lo sappiamo grazie ad Hamilton, Madison e Jay – il che non toglie niente né alla grandezza né alle debolezze del tutto umane di certi personaggi –, ma grazie alla vita ed alle opere di Thomas Paine.

L’Occidente, dopo aver vinto la Guerra Fredda, si illude di aver garantito la vittoria di un modello politico superiore, certamente in senso economico, ma anche in senso morale e filosofico. Ma quanto è grande e quanto pesa l'insoddisfazione verso i risultati e le procedure politiche della democrazia ritualizzata di massa rispetto agli standard di giustizia politica imposti da un’interpretazione “common sense” dei diritti umani? Le democrazie occidentali sono diventate stati disumanizzati non meno delle monarchie degenerate di cui parlava Paine. I motivi fondamentali sono due: l’uno l'impossibilità di realizzare quella “large and equal representation” su cui Paine tanto faceva conto, l’altro è l’insostenibilità finanziaria dello stato sociale.

La constitution octroyee della Convenzione europea, alias Trattato Costituzionale Europeo, è l’esempio perfetto della degenerazione politica occidentale. Un Trattato puramente intergovernativo e partitocratico scritto da persone che si sono cooptate a vicenda, che non ha più praticamente nulla a che fare con il Trattato di Roma e che, contrariamente a quanto affermato nel suo articolo 1, non ha assolutamente nulla a che fare con una qualche "volontà popolare", è stato spacciato per qualcosa di compatibile con gli standard del costituzionalismo democratico. Là dove il Common Sense si è potuto esprimere in merito, l’ha rispedito al mittente; là dove è stata la Sovranità Parlamentare (alias Potere Politico, alias Partitocrazia) a parlare, l’ha “ratificato”.

Restano intatte le fondazioni del costituzionalismo democratico e l'esperienza storica, che dimostrano che il tentativo di “costruire” per mezzo di costituzioni delle società e delle economie più giuste, non è hybris, se viene fatto bene, può funzionare. Se viene fatto male, alla fine della rivoluzione viene fuori sempre un Napoleone.

L'obiettivo di fondare uno stato più umano è più attuale che mai. Le cosidette democrazie occidentali ne sono ancora distanti anni luce. Non serve a nulla che rimandino a quanto c'è di peggio su questo pianeta e che continuino a fare ignorare Thomas Paine. E' Common Sense, si vede ad occhio nudo. Basta usarlo.

La via verso uno stato più umano passa per costituzioni, scritte, attuate e controllate da chi è l'unico titolare legittimo del potere costituente. Ciò di cui si può discutere sono solo le procedure.

Non si possono più eleggere assemblee costituenti con leggi elettorali proporzionali? Bisognerà inventare procedure di formazione di assemblee costituenti nuove.

Non si possono più fare fare le costituzioni alle assemblee legislative? Bisognerà formare assemblee costituenti elettive, ma permanenti.

Non si possono più fare emendare le costituzioni alle assemblee legislative piuttosto che agli esecutivi? Bisognerà inventare procedure di emendamento puramente referendarie completamente al fuori del controllo degli altri organi costituzionali.

Bisogna che i controllori vengano controllati dai controllati in modo più efficace che con le sole elezioni? Bisognerà radicare le procedure finanziarie e fiscali in controlli e procedure legislative tributarie referendarie trasparenti, aperte, non riservate al Burosaurus Rex.

Su un punto uno stato umano può e deve essere completamente diverso dallo stato sociale: deve essere fondato sulla responsabilità individuale, non mediata da organizzazioni pubbliche fondate sul monopolio della coazione illimitata.

CHE COS’E’ LA DEMOCRAZIA FISCALE?

 
In tutti i paesi altamente industrializzati è iniziata, sulla scia della discussione attorno alla crisi finanziaria dello stato sociale, una discussione intorno alla democrazia fiscale. In Italia rimando al libretto di Giulio Tremonti sul federalismo fiscale, che risale al 1990 e alla più recente opera (2005) sulla “sussidiarietà” fiscale di Luca Antonimi (non pretendo di dare qui una bibliografia italiana esaustiva, c’è sicuramente qualche contributo importante più o meno recente, che adesso mi sfugge).
Che questa discussione possa anche non avere nulla a che fare con lo stato sociale in sé e per sé, non viene dimostrato meglio che dall’Italia, dove lo stato sociale esiste a livelli embrionali, ma la crisi finanziaria dello stato è di vastissime proporzioni sin dalla fine degli anni 70.
Nel lungo termine, lo sviluppo economico storicamente è accompagnato ovunque da una crescita gigantesca del settore pubblico allargato (non solo a livello centrale ma anche locale: amministrazioni, aziende più o meno statali per la produzione e la distribuzione di servizi pubblici, enti ed agenzie ecc.). L’economista tedesco Adolf Wagner ha formulato nel secolo scorso una “legge” in base alla quale il settore pubblico allargato, che è per lo più improduttivo, tende a crescere in modo esponenziale rispetto al tasso di crescita del settore economico produttivo. Le cause ipotizzate dagli economisti per questa crescita dentro al processo di crescita sono molteplici. Si tratta di una discussione molto complessa, tutt’altro che finita, che ho riassunto per semplici cenni semplificativi (MOLTO semplificativi).
Sempre in modo molto semplificativo, dalle discussioni intorno alla c.d. “legge di Wagner” si possono evincere i seguenti fatti stilizzati:
● Una crescita più che proporzionale del settore pubblico allargato tende a limitare seriamente il potenziale di sviluppo economico. La radicalizzazione di questo giudizio conduce all’idea normativa dello “stato minimo”.
● La mancanza di un settore pubblico allargato funzionale tende anche essa a limitare seriamente il potenziale di sviluppo economico. La radicalizzazione di quest’idea conduce all’idea dello “stato sociale”.
● Il settore pubblico allargato deve avere una “dimensione ottima” come qualsiasi altra organizzazione economica. Questa è un’idea NORMATIVA, che si trova realizzata parzialmente in pochissimi stati al mondo, il più grande dei quali è la Svizzera.
In Italia la crescita tendenzialmente più che proporzionale del settore pubblico allargato è stata accompagnata da una corsa forsennata verso “investimenti politici” fallimentari, la cui domanda è stata creata dalla prepotenza su di una società civile arretrata e poco cosciente di sé stessa da parte di un regime oligarchico partitocratico, che, dalla sua nascita nei CLN tra il 1942 e il 1943 fino a maturare in Tangentopoli, ha instaurato la prassi del CLIENTELISMO DI MASSA a sistema di governo invece o sotto le sembianze di una democrazia costituzionale. Questo regime con Tangentopoli è entrato in una crisi finanziaria, che ha a sua volta accelerato la crisi finanziaria della prima repubblika. La prima repubblika non è nata solo dalla lotta della resistenza, come spesso si sente dire, per buona parte è stata (e le sue rimanenze ancora sono) una creatura della Guerra Fredda: è stata pensata e creata per combattere e vincere la Guerra Fredda. Finita la Guerra Fredda, la prima repubblika ha perso la sua ragione primaria di esistenza. Purtroppo non ne ha ancora trovata un’altra. Ma non è l’unico residuato della Guerra Fredda che dà ancora forti rompicapo, ne esiste un altro, che dà rompicapo ancora più forti, la Comunità Europea, l’altra creatura della Guerra Fredda senza più un compito definito, che non sa che cosa fare di sé stessa. Non è un caso che l’Unione Europea venga ancora finanziata con i proventi dell’unione doganale e con contributi diretti degli stati membri sulla base del PIL, e che essa faccia da paravento ai governi nazionali per l’”armonizzazione” dell’IVA e di altre imposte indirette. Un’Unione Europea che venisse finanziata con imposte dirette non potrebbe più essere un’operazione puramente intergovernativa ad esclusivo appannaggio delle partitocrazie degli stati membri, ma dovrebbe saper rendere conto ai Cittadini del mercato comune con ben altri strumenti che il solo Parlamento e la sola Corte dei Conti europea.
Non si tratta di divagazioni sul tema: i sistemi fiscali non sono entità astratte ed indipendenti dalle condizioni politiche interne ed esterne, locali ed internazionali, ma le plasmano e ne sono plasmati a loro volta.
L’esigenza di una democrazia fiscale deriva dalla constatazione di un dato di fatto incontrovertibile: i Cittadini di TUTTI i paesi occidentali più avanzati, a causa della diffusione della cultura e della mentalità democratica risalente al concetto di eguaglianza politica dei Cittadini diffuso dall’Illuminismo settecentesco, percepiscono oramai il fatto fiscale come CONDIZIONALE, ovvero come contribuzione CONDIZIONATA alla resa di servizi della natura più disparata. I sistemi fiscali, massimamente il diritto tributario italiano, invece sono basati sull’incondizionalità più assoluta: ovvero il diritto tributario pretenderebbe di poter legittimare le richieste dello stato SENZA CONDIZIONI di alcun tipo.
In Italia, specialmente dopo la fondazione della repubblica da parte dell’assemblea costituente, assistiamo addirittura ad un peggioramento brutale di questa “cultura” fiscale autoritaria e antidemocratica: la legalizzazione della tassazione sulla base di diffuse presunzioni legali, totalmente gratuite, risultanti dalla sfiducia dello stato nel comportamento fiscale del Cittadino. Il comportamento fiscale del Cittadino a sua volta è dettato dalla sfiducia nel comportamento fiscale delle organizzazioni pubbliche in Italia. Si tratta di un circolo vizioso senza uscita.
Un sistema fiscale incondizionale per poter funzionare veramente, ovvero per essere percepito come socialmente legittimo, deve soddisfare almeno due condizioni:
1)      Chi comanda incondizionalmente sulla contribuzione deve dimostrare di essere in grado di essere almeno tanto bravo o più bravo a raggiungere risultati di chi li raggiunge utilizzando i metodi “volontari” del mercato;
2)      Il modo in cui vengono formati gli obiettivi ritenuti socialmente desiderabili deve essere trasparente, ovvero chiunque dovrebbe POTENZIALMENTE potersi fare un’idea personale di come le risorse comuni si suppone debbano essere utilizzate, come sono state utilizzate e come non dovrebbero più essere utilizzate.
Queste due condizioni (che io ritengo minimali in regimi che pretendono di chiamarsi democratici) non vengono soddisfatte in nessuno dei paesi che si ritengono “democrazie avanzate”. In Italia tuttavia esse vengono soddisfatte ancora meno che altrove. In tutte le democrazie sedicenti avanzate (eccezione fatta sempre per la Svizzera) il sistema fiscale è un corpo estraneo all’interno degli ordinamenti costituzionali democratici, un istituzione sociale che, dall’invenzione dell’autocrazia su questo pianeta, non ha fatto passi evolutivi in avanti (eccetto, come sempre, in Svizzera). Perché? Perché il concetto incondizionale, autocratico di sistema fiscale non è compatibile con il principio fondamentale del costituzionalismo democratico, ovvero che in uno stato costituzionale democratico ogni potere DEBBA essere limitato, analogamente a tutti gli altri poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario, costituente). Il potere fiscale in tutte le democrazie avanzate è illimitato, quindi sono illimitati gli errori del suo abuso e illimitate le conseguenze dei suoi abusi.
Qualsiasi stato, sedicente democratico o meno, può accampare diritti di prelievo, di fatto di espropriazione, illimitati sui redditi privati, sul risparmio privato, sulla proprietà privata. Il problema è che l’esercizio di questi poteri illimitati è in conflitto con i principi di controllo del comportamento delle organizzazioni pubbliche sancito dai principi del costituzionalismo democratico, “controlli” che si suppone vengano esercitati per mezzo dei sistemi elettorali. Negli stati autoritari ed autocratici il problema dei controlli elettorali non si pone. Nelle c.d. democrazie avanzate invece si assiste ad uno svuotamento progressivo degli strumenti elettorali come strumenti di controllo dei Cittadini sulla politica e ad un conseguente svuotamento dei principi del costituzionalismo democratico con lo stesso fine generale.
In effetti in Occidente la manipolazione delle costituzioni da parte di chi si suppone dovrebbe essere controllato e delimitato da esse è diventata non più l’eccezione, ma la regola. Con il Trattato Costituzionale Europeo siamo arrivati addirittura al paradosso che la costituzionè stata scritta in una convenzione di cooptati delle partitocrazie europee da chi sarebbe dovuto esserne assoggettato e che lo stesso non abbia neanche previsto alcuna procedura di emendamento che richieda l’iniziativa o l’intervento referendario del Cittadino Europeo, che esiste solo sulla carta del Trattato di Maastricht, ma per il resto non conta assolutamente nulla. Praticamente questo significa una cosa sola: la fine del costituzionalismo democratico, iniziato ca. 200 anni fa con la costituzione americana.
L’Italia ha una tradizione di burocrati miopi, arretrati ed incompetenti che arriva da lontano, ancora prima che essa esistesse formalmente, come minimo le sue radici risalgono fino al Regno di Sardegna. MALGRADO l’esistenza di una democrazia repubblicana formale a partire dal 1948, lo stato italiano a tutti i livelli, da quello comunale a quello nazionale e a quello internazionale, è caratterizzato dallo stesso fattore: l’intrasparenza. Esso è un conglomerato di scatole nere, talora risultanti semplicemente dalla pura e semplice confusione legislativa e organizzativa, talora risultanti da una precisa volontà di oligarchie partitocratiche e delle loro rispettive clientele.
Il dramma della storia post-bellica dell’Italia è che la formazione degli obiettivi ritenuti socialmente desiderabili sono stati selezionati da un sistema partitocratico inserito in un contesto internazionale di “sovranità limitata” in modo del tutto ideologico, sulla base di quello che di volta in volta le burocrazie del giorno hanno voluto far credere alla politica che essa dovesse ritenere fattibile e che cosa no.
In questo modo ha avuto inizio ed è stato sancito de facto, se non de jure, lo scollamento tra la crescita esponenziale del settore pubblico allargato ed i reali bisogni dei Cittadini, dalla vera e concreta domanda di beni pubblici del Cittadino, è stato creato uno stato che produce incondizionatamente più disservizi che servizi e non si trova il verso di fargli imparare a produrre servizi, che impone ai Cittadini il consumo di tutta una serie di servizi non richiesti e che altrimenti non sarebbero richiesti da nessuno, che produce e distribuisce questi suoi servizi per lo più non a clienti “finali” quali sono (o dovrebbero essere???) i Cittadini, ma alle congreghe intermedie, ai partiti stessi e alle loro clientele speciali, ai sindacati e alle loro clientele speciali, ai gruppi di interesse speciali, alle corporazioni e a chi da esso viene eletto a degno della sua attenzione. E’ il regno della pura discrezionalità a discapito dei migliori interessi più generali del Cittadino.
Il Cittadino non ha più alcuna funzione reale in un tale sistema, nessun posto e nessun potere. Esso è ridotto ad organo atrofizzato della costituzione, benché tutti i politici ci raccontino dalla mattina alla sera che fanno quello che fanno per metterlo “al centro” di tutto. Sì, al centro di tutto: ma solo quando lo dicono loro e come lo dicono loro.
Nella seconda repubblika abbiamo assistito (e stiamo ancora assistendo) ad una diatriba inconcludente sui “massimi sistemi”, il cui risultato è stato il seguente: i “minimalisti” nostrani non hanno saputo fare nulla per ridurre la dimensione complessiva del settore pubblico allargato nell’economia e nella società italiana (non sono riusciti neanche a controllare la spesa corrente); i “massimalisti” non sono stati capaci di migliorare percettibilmente la qualità dei (dis-)servizi prodotti e distribuiti dalle organizzazioni pubbliche di uno stato solo sedicente sociale, che di sociale non ha praticamente nulla.
Il risultato è che le Italiane e gli Italiani stanno pagando uno stato divenuto di fatto inutile. L’alfa e l’omega dell’utilità di uno stato per il Cittadino si misura sull’unico “servizio pubblico” non privatizzabile di uno stato: quello della giustizia. Ritengo di non dovermi addentrare troppo in dettaglio per giustificare la mia affermazione, se affermo che non si può più parlare di amministrazione della giustizia in Italia: non esiste una giustizia minimamente funzionante non solo in campo civile e penale, ma anche in campo tributario, in campo amministrativo, addirittura in campo costituzionale. Infatti solo in un paese come l’Italia può accadere che il sistema politico possa lamentarsi dei livelli di conflitto costituzionale causati da una riforma costituzionale (parlo di quella del cd. Titolo V), che avrebbe avuto la pretesa di introdurre un federalismo all’italiana, dimenticandosi però di istituire corti costituzionali regionali. Non esiste alcun federalismo al mondo con una sola ed unica corte costituzionale centrale nella sua capitale e non è possibile alcun tipo di federalismo che si estenda al solo potere legislativo, e non invece anche al potere giudiziario, al potere esecutivo e al potere costituente.
Come uscire da questa situazione?
La via di uscita esiste, è nota, si chiama federalismo fiscale. L’establishment politico della seconda repubblika se ne è accorto e dice di volerlo realizzare anche in Italia. Se però andiamo ad analizzare dettagliatamente che cosa è il federalismo fiscale italiano, sarà facile accorgersi alla fine che non è né niente di federalistico né tantomeno qualcosa di più democratico del sistema fiscale che esiste già.
Non c’è niente di male: infatti l’Italia non è (ancora) formalmente, costituzionalmente uno stato federale, anche se ormai la via segnata è ineluttabile. Perché e come fa uno stato che non è federale ad avere un sistema fiscale che assomigli anche solo alla lontana ad un sistema fiscale federalistico? E’ ovvio che non si può avere federalismo fiscale in uno stato che non è federale così come è vero che non si può avere federalismo senza federalismo fiscale autentico. Il federalismo fiscale all’italiana ovviamente non è l’unico tipo di federalismo fiscale possibile, ne esistono altri.
Esiste in particolare un federalismo fiscale di tipo radicalmente democratico, che funziona, che è rodato da un’esperienza storica ormai centenaria, quello svizzero, ma, guarda caso in Italia non ne parla nessuno. Infatti in Italia la predominanza della partitocrazia sulla società civile e sui suoi migliori interessi è andata a selezionare il tipo di federalismo fiscale meno democratico e più burocratico che esista in Europa, quello tedesco, e l’ha battezzato a modello del federalismo fiscale tout court.
Purtroppo sia l’opinione pubblica “informata”, ovvero i tecnici, i professori ecc., sia ovviamente i politici, anche i sedicenti federalisti leghisti, non parlano del modello di federalismo fiscale svizzero. Ci sono buoni, ottimi motivi (per loro) per cui non se ne parla. Tutto questo non sta succedendo per caso, ma dipende dal fatto che in Germania esiste un’incultura partitocratica al potere dal 1948, che ha imposto la sua predominanza alla società civile tedesca indipendentemente dai suoi meriti e che non ha voluto e non vuole che il federalismo fiscale tedesco fosse di tipo democratico. Dal punto di vista del Cittadino invece è tutto il contrario. Non succede di rado che dal punto di vista del Cittadino molte cose appaiano diversamente, molto diversamente, da come appare dal punto di vista del “politico professionista”, del partitocrate.
Il federalismo fiscale svizzero non è un modello né minimalista, né massimalista. E’ un modello che lega fortemente la dimensione del settore pubblico allargato alla disponibilità a pagare per beni pubblici da parte del Cittadino, come il Cittadino fa normalmente nell’ambito del mercato. Inoltre è un sistema competitivo, quanto consente più concorrenza fiscale di quanto non consenta il sistema fiscale americano (non parliamo di quello italiano). Il controllo dei risultati degli agenti politici non si limita al fatto elettorale, ma ad un complesso gioco di pesi e di contrappesi realizzato per mezzo di referendum fiscali obbligatori e dello strumento delle iniziative di legge popolari.
Siccome a questo punto dovrei citare molta farina che non è del mio sacco, in allegato invio alcuni link a documenti scritti da Bruno Frey e da altri collaboratori dell’Istituto di Ricerca Economica Empirica dell’Università di Zurigo, la cui figura leader è Bruno Frey e che bisognerebbe leggere prima di continuare a leggere queste mie note.
La possibilità di mettere in opera a qualsiasi livello operativo di uno stato federale iniziative legislative popolari in modo relativamente facile può sbaragliare le agende politiche preconfezionate dalle segreterie dei partiti e contribuire a cambiare, precisare, far maturare gli obiettivi da ritenere socialmente desiderabili. Questo a che cosa serve? Serve ad impedire che i “politici di professione” formino con successo un cartello contro l’economia e contro la società civile e che ne possano estrarre da esso delle “rendite di posizione” all’infinito. Questo è precisamente quello che è successo in Italia: abbiamo 400,000 persone ca. che “vivono” esclusivamente di redditi e pensioni “politici” e ca. 5,5 milioni di addetti ad un settore pubblico allargato sostanzialmente improduttivo o dalla produttività in fortissima regressione, che vivono dei redditi e delle pensioni prodotte da una forza lavoro privata media annua di 11 milioni di persone.
L’esistenza di una concorrenza tra società civile ed establishment politico è altrettanto vitale quanto sui mercati economici.
Eppure anche in Svizzera ci sono partiti politici “come” in Italia, uno stato sociale “come” in Italia, una democrazia rappresentativa parallela a quella diretta come ci sarebbe potuta essere ANCHE IN ITALIA se, chi ha concretato le norme referendarie della costituzione della prima repubblika, avesse consentito il formarsi di strumenti di controllo della partitocrazia attraverso la democrazia diretta non falsi, inutili come quelli che abbiamo, ma veramente efficaci, funzionanti. Il modo come sono stati realizzati gli strumenti referendari in Italia non hanno assolutamente nulla a che fare con le esigenze di realizzare un sistema di limited government e di controllo puntuale del sistema politico da parte del Cittadino, sono stati semplicemente motivati dall’esigenza di continuare ad imporre vincoli ideologici sulla società civile italiana. La legge 352 del 1970, con cui è stato “concretizzato” il mandato costituzionale all’istituzione dei referendum popolari ed alle iniziative legislative popolari con 22 anni di ritardo, è stata fatta dalla Democrazia Cristiana, più precisamente da Giulio Andreotti, per impedire che in Italia venisse introdotta la legge sul divorzio, legge che poi è stata introdotta egualmente. Il giudizio di ammissibilità costituzionale di referendum è un istituto privo di qualsiasi fondamento costituzionale, tale da rendere la legge 352 incostituzionale in toto, eppure nessuno l’ha mai sottoposta all’attenzione della Corte. Esistendo oramai una prassi pluridecennale deviata dallo standard costituzionale è anche poco probabile che la Corte Costituzionale oggi sarebbe disposta a spogliarsi di questo orpello in nome del “political self-restraint”. Quindi, ci deve essere una forza esterna in grado di toglierglielo.
Le varie possibilità di indire referendum fiscali a tutti i livelli di governo dà ai Cittadini la POSSIBILITA’, se e quando necessario, di prendere il coltello dalla parte del manico anche quando si parla di soldi, non solo di voti. Ma questo non basta: in molti cantoni si fanno anche referendum per decidere sulla legittimità del fare debiti. Il nostro modello di federalismo, che consente ora a regioni e a comuni di emettere titoli per fare “investimenti”, è proprio il tipico esempio di lezione non imparata da parte di una classe politica, che d’altronde non ha mai imparato nulla da niente e da nessuno: infatti l’idea che delle organizzazioni pubbliche aduse a vivere in un ambiente economico “distorto” e a comportarsi in modo anti-economico possano però selezionare gli investimenti, che potranno avere successo o che meglio collimano con i bisogni e le aspettative dei Cittadini, se non è ridicola, almeno è molto fantastica. Ma questa fantasia E’ LEGGE DELLO STATO, è una delle tante leggi fantastiche, completamente campate in aria, di questo stato.
La democrazia fiscale può essere un ottimo strumento per distruggere le fantasie, che attualmente sono “leggi dello stato” prodotte dal regime partitocratico della prima repubblika e che impediscono l’avvento di un sistema fiscale più congruo con i principi fondativi del costituzionalismo democratico, ovvero con il concetto di limited government. Ma non sarà lo strumento che porterà il paradiso in terra. E’ solo uno strumento che ci può far fare qualche passo in avanti rispetto all’inferno fiscale italiano.
La democrazia fiscale non è un posto dove non si pagano le tasse (l’aliquota di 0% non esiste, in quanto il principio di condizionalità fiscale fa capire al Cittadino che essa è associata ad un livello di produzione di beni pubblici pari a zero; cfr. Howard Bowen: The Interpretation of Voting on the Allocation of Economic Resources, Quaterly Journal of Economics 4, 1964), ma un posto dove il Cittadino è coinvolto al massimo livello anche nella definizione degli obiettivi socialmente desiderabili e nel controllo che essi rientrino realmente all’interno delle risorse collettive realmente esistenti. L’eventualità di un’aliquota 0% è un problema solamente in un sistema fiscale caratterizzato dal monopolio monolitico del Leviatano su una società in cui esistono solo imposte a livello centrale e la legislazione tributaria è totalmente centralizzata: in uno stato federale fortemente decentrato, in cui i Cittadini di una giurisdizione hanno ANCHE il diritto di votare un’aliquota dello 0% su una certa imposta (sto supponendo, come nella maggior parte degli stati federali, che esistono imposte dirette nazionali e locali SEPARATE, come anche imposte indirette nazionali e locali SEPARATE, oppure imposte locali SEPARATE, su cui il potere centrale non ha competenze legislative in materia né tributaria né di “sostanza”), la cosa HA UN SENSO: ovvero i Cittadini possono non volere più finanziare una certa attività pubblica perché o non ne hanno più bisogno o hanno trovato un altro modo, migliore per finanziarla. Il Cittadino deve anche avere il diritto di votare aliquote dello 0% in uno stato federale con un VERO FEDERALISMO FISCALE.
Ovviamente in una democrazia semi-diretta con forti competenze fiscali assoggettate ad un regime referendario OBBLIGATORIO il Cittadino ha molto più potere di contribuire alla formazione degli obiettivi socialmente desiderabili che non in una democrazia puramente rappresentativa, dove i rappresentanti sono abituati a pensare prima per loro e poi per gli altri, soprattutto poiché nel lungo termine è facile dimostrare che la “politica di professione” si può permettere questa inversione di ruoli solamente perché non c’è nessuno che sia in grado di impedirglielo efficacemente.
Se la concorrenza fiscale deve produrre effetti REALI, il Cittadino deve avere anche il diritto di assegnare risorse pari a 0 ai progetti che non ritiene veramente necessari. Vista l’esperienza con alcuni risultati referendari in Italia, piuttosto il problema si sposta sul piano dell’attuabilità di certe decisioni, come quella sul finanziamento pubblico dei partiti o dell’abolizione del ministero dell’agricoltura. Ci devono essere regole e procedimenti costituzionali con i quali i Cittadini, se necessario, possano piegare dei rappresentanti riottosi, che continuano a dare la priorità agli interessi propri invece che a quelli dei Cittadini. Devono essere poteri REALI, protetti costituzionalmente, attuabili se necessario anche con la forza. Senza un potere realmente intimidatorio nelle mani dei Cittadini, un sistema politico aduso a non dover rendere conto, troverà sempre modi e maniere di scampare alle proprie responsabilità.
Per fare questo, OLTRE che dello strumento del voto, il Cittadino ha bisogno ANCHE di poter controllare il rubinetto dei soldi, di chi li incassa e di chi li spende, sia direttamente sia indirettamente.
Ovviamente, mi rendo conto dell’ingenuità della semplice richiesta di “trasporre” o di imitare o di copiare il federalismo fiscale in Italia, specie nell’Italia nelle presenti condizioni economiche e politiche, anche perché il tipo di democrazia fiscale che io ritengo necessario per l’Italia (ma potrei anche dire per l’Unione Europea o per i suoi stati membri), in verità va ben al di là del modello di federalismo fiscale svizzero. Ancora più ingenuo potrebbe sembrare che io ritengo che il sistema della democrazia fiscale svizzera dovrebbe essere realizzato prima nel Mezzogiorno d’Italia che non nel Nord.
L’ingenuità non consiste tanto nel voler copiare di punto in bianco un sistema fiscale che si è evoluto in diversi secoli e volerlo metterlo in atto in un paese dove il Cittadino medio è diventato psicologicamente dipendente da un potere, che lo costringe ad essere irresponsabile per sé stesso e per i suoi Concittadini fin dal 1861, ma al massimo dal richiedere un tipo di democrazia fiscale che va anche al di là di quella che esiste in Svizzera.
La mia proposta perde la sua ingenuità quando disegna un percorso PROGRESSIVO, che ha come obiettivo finale un sistema fiscale basato su strumenti democratici DIVERSI da quelli puramente rappresentativi e/o coattivi. So bene che nessun sistema fiscale può essere puramente volontario, ma sono anche certo che qualsiasi strumento che aumenta la partecipazione e la responsabilità fiscale dei singoli dovrebbe essere attuato con priorità rispetto agli aspetti coattivi e sanzionatori del sistema fiscale. Questa è cosa buona e giusta SE SI VUOLE PRESERVARE IL COSTITUZIONALISMO DEMOCRATICO in Occidente, in quanto lo sviluppo economico e sociale dell’Occidente dal 1780 in poi è stato reso possibile solamente dall’assottigliamento progressivo della presa sulla società e sull’economia da parte delle monarchie e delle aristocrazie, che hanno “retto” le sorti dell’Occidente in una storia millenaria, troppo spesso fatta solo di guerre, ma soprattutto di arbitrarietà nell’esercizio del potere, specialmente del potere fiscale, che ha tolto alla società e all’economia le risorse per svilupparsi e per distribuire a quote crescenti della popolazione il prodotto delle attività economiche.
Un processo di passaggio da un regime di inferno fiscale ad un regime di democrazia fiscale può essere tracciato in questo modo:
1)      Riforma per mezzo di una legge di iniziativa popolare della legge 352/1970 sui referendum e sulle iniziative legislative popolari:
-         Rimozione degli attuali limiti costituzionali e di diritto pubblico all’assoggettamento delle norme tributarie a livello nazionale, regionale e locale ad un regime di referendum popolari obbligatori su tutte le materie di bilancio, fiscali, finanziarie e tributarie; abolizione delle pregiudiziali di costituzionalità referendaria e dei quorum attuali;
-         Assoggettamento dei trattati internazionali ad un regime di referendum popolari obbligatori: divieto di ratifica di trattati internazionali approvati da meno di 2/3 dei votanti;
-         Assoggettamento delle iniziative legislative popolari a requisiti di firme minimi e di approvazione a maggioranze qualificate dei VOTANTI (e non degli aventi diritto) di almeno 2/3;
-         Possibilità di approvare con una maggioranza di 2/3 dei votanti iniziative di legge popolare, che non vengano passate dagli organi legislativi locali, regionali e nazionali entro tre mesi dalla loro presentazione agli organi legislativi;
-         Diritto di veto popolare contro proposte di legge comunali, regionali e nazionali su iniziativa del 2% degli aventi diritto al voto approvata dai 2/3 dei votanti;
-         Diritto di revoca: su iniziativa del 2% degli aventi diritto al voto e con approvazione dei 2/3 dei votanti i Cittadini possono revocare il mandato a chiunque individualmente riceva stipendi, compensi o pensioni da organizzazioni pubbliche o ai membri di interi organi costituzionali e sostituirli, fatta eccezione per gli organi giudiziari;
-         Iniziativa costituente popolare esclusiva: La convocazione di assemblee costituenti viene riservata esclusivamente al corpo elettorale a livello comunale, regionale e nazionale e viene esercitata su iniziativa a firma del 2% degli aventi diritto al voto e approvata dai 2/3 dei votanti. Le iniziative popolari di emendamento e le iniziative popolari di revisione costituzionale totale sono assoggettate a referendum popolari obbligatori e approvate dai i 2/3 dei votanti.
-         Istituzione del corpo di Polizia Amministrativa alle dipendenze delle Corti dei Conti, con poteri anche sulle organizzazioni internazionali di cui è membro l’Italia;
-         Divieto per 5 anni di poter portare avanti iniziative legislative da parte di organi legislativi locali, regionali e nazionali su materie sottoposte con successo a referendum popolare, anche da parte di organizzazioni internazionali;
-         Riforma della Corte dei Conti: istituzione di corti dei conti indipendenti a livello municipale, regionale e nazionale; elezione diretta di un terzo dei giudici contabili delle Corti dei Conti di primo grado (municipali); elezione diretta della metà dei giudici contabili delle Corti di secondo grado (regionali). Nomina di un terzo dei giudici contabili riservata a referendum confermativo popolare. Istituzione di Giurie Popolari a fianco dei giudici contabili di tutti e tre i livelli.
-         Azione di impeachment presso la Corte dei Conti competente nei confronti degli organi, che di fatto o di diritto non attuano decisioni referendarie legittimamente prese; possibilità di infliggere sanzioni concrete sulla base di un codice di polizia amministrativa;
-         Abolizione delle Commissioni Tributarie ed istituzione di un Tribunale fiscale indipendente a tre livelli (municipale, regionale, nazionale) con Giurie Popolari a fianco dei giudici fiscali ad ogni livello;
-         Introduzione della corresponsabilità civile e penale personale per i debiti delle organizzazioni pubbliche su chiunque riceva stipendi, compensi e pensioni pubbliche;
-         Introduzione della pena dell’esilio per chi commette atti gravissimi contro l’amministrazione pubblica;
-         Istituzione di assemblee costituenti permanenti a livello comunale, regionale e nazionale:
-         Trasferimento delle competenze legislative in materia di bilancio, fiscali e tributarie dagli organi legislativi comunali, regionali e nazionali alle assemblee costituenti permanenti; riserva di legge ASSOLUTA da parte delle assemblee costituenti permanenti con referendum confermativi popolari obbligatori con la maggioranza dei 2/3 dei votanti sulle seguenti materie:
                                                               i.      legislazione quadro sulle imposte dirette, indirette e sulle imposte reali;
                                                             ii.      legislazione quadro sui tribunali fiscali, sulle corti dei conti e sul codice di polizia amministrativa;
                                                            iii.      legislazione quadro sulle corti costituzionali;
                                                           iv.      legislazione sul finanziamento dei partiti politici;
                                                             v.      legislazione quadro sui compensi e sulle pensioni degli addetti del settore pubblico allargato, inclusi gli addetti del potere giudiziario, del potere legislativo e del potere esecutivo;
                                                           vi.      legislazione di rango costituzionale;
                                                          vii.      leggi elettorali;
                                                        viii.      leggi quadro sulla libertà di accesso ai sistemi informatici pubblici;
                                                           ix.      legislazione quadro sulle procedure di emendamento e di revisione costituzionale totale;
                                                             x.     
-         Istituzione di una sezione speciale della Corte Costituzionale con il compito di proporre a referendum popolari l'espunzione, la semplificazione, la ri-scrittura in un italiano comprensibile del corpus del diritto pubblico italiano;
2)      Formazione di assemblee costituenti regionali, nazionali e sopranazionali PERMANENTI: Pur escludendo tutti i tipi di ordinamenti costituzionali autoritari, l’insieme delle possibili costituzioni democratiche compatibile con i principi guida del costituzionalismo democratico rimane pur sempre più che enumerabile. Come selezionare costituzioni ed emendamenti costituzionali? La mia proposta consiste in questo: votare su proposte di disegni costituzionali COMPLETI, l’iniziativa sui quali andrebbe riservata al popolo ed alle associazioni libere della società civile, sottoponendola a referendum confermativi OBBLIGATORI, invece che su partiti e delegati, che poi devono negoziare una costituzione, che non sanno come attuare, come è successo alla costituzione italiana del 1947. La soglia di accesso per un’iniziativa costituzionale o per una proposta di emendamento dovrebbe essere “bassa”, per esempio raccogliere il 2% di firme degli aventi diritto al voto entro un tempo ragionevole, diciamo 3-4 mesi. La soglia di approvazione in un referendum confermativo obbligatorio invece dovrebbe essere “alta”, ovvero “tendenzialmente” unanime, unanimità irraggiungibile ma asintoticamente approssimabile tramite la regola dei 2/3 che VOTANO (e non sugli aventi diritto). Concretamente, un processo costituzionale si configurerebbe come un torneo, in cui proposte costituzionali verrebbero votate due a due fino all’eliminazione delle proposte che prendono meno voti. Tali tornei andrebbero svolti ad ogni livello di governo: comunale, cantonale, federale ed internazionale (o sopranazionale). Le assemblee costituenti dovrebbero essere formate contestualmente alla vittoria di una proposta costituzionale. Ad esempio, i delegati all’assemblea costituente possono essere eletti a seguito di elezioni primarie sulla base di un pool di candidati nominati dalle associazioni promotrici della proposta vincente con un criterio puramente maggioritario. Le assemblee costituenti permanenti dovrebbero essere molto piccole, con 15-21 membri max. e nominate per periodi molto lunghi 15 o 20 anni onde stabilizzare nel lungo termine l’attuazione delle costituzioni così selezionate.
Assemblee costituenti permanenti devono avere a loro disposizione strumenti amministrativi in grado di comunicare loro le informazioni sulle funzioni e sulle disfunzioni della cosa pubblica e di strumenti efficaci per l’attuazione dei principi costituzionali OLTRE le Corti Costituzionali (uso il plurale, in quanto ovviamente sto considerando un ordinamento federale, in cui ogni livello di governo ha una propria corte costituzionale e non una sola per tutto e tutti come in questo pseudo-federalismo da straccioni che viene ipotizzato in Italia). Ogni livello di governo deve essere dotato di tributi propri e completamente separati gli uni dagli altri (niente compartecipazione al gettito fiscale, che è contraria al federalismo fiscale), sui quali deve rendere conto a livelli diversi di governo ai cittadini contribuenti per mezzo delle Corti dei Conti, che andrebbero riformate in modo da produrre informazioni economiche, politiche e contabili per la valutazione delle decisioni politiche non solo ex post, ma anche ex ante. Le Corti dei Conti, ai vari livelli di governo, dovrebbero avere a disposizione un corpo di Polizia Amministrativa in grado di reprimere efficacemente sia ex post sia ex ante sprechi, malversazioni e inefficienze nella cosa pubblica.
Il vantaggio principale dell’uso di tornei costituzionali è questo: le costituzioni non sono delle semplici “norme” di principio o delle norme più o meno giustiziabili da parte di corti costituzionali, hanno un’importantissima DIMENSIONE COMUNICAZIONALE, che è di gran lunga più importante delle due precedenti che ho menzionato. La dimensione comunicazionale delle costituzioni è ciò che rende una costituzione vivente all’interno del tessuto istituzionale e sociale, ovvero un Patto Sociale funzionante ed operativo. E’ mettendosi nella posizione della ricerca collettiva e della sottomissione di ciascuno e di tutti alle medesime regole di convivenza e di valutazione dei processi e dei risultati dei processi politici che i cittadini cominciano ad astrarre le loro posizioni particolari, ideologiche e contingenti e si mettono tendenzialmente sulla strada di adottare regole imparziali condivisibili da “chiunque”.
Il Patto Sociale per me è un Patto che si realizza giorno per giorno nel dialogo della società con le proprie istituzioni e i propri principi costituzionali e trai Cittadini stessi, un dialogo continuo, dinamico, che rimane aperto al cambiamento, che tende ad includere quanti più interessi generali possibili, che consente di prendere quante più decisioni collettive possibili, ma non all’insaputa o senza possibilità di difesa da parte del Cittadino. Può essere un dialogo all’inizio convulso, ma, nel medio e nel lungo termine, fruttuoso, in quanto responsabilizza in prima persona i Cittadini e in cui i Cittadini POTENZIALMENTE hanno e mantengono, tramite assemblee costituenti permanenti e la democrazia fiscale, il coltello dalla parte del manico.
Come dimostra il sistema politico della Svizzera, nella maggioranza dei casi non c’è neanche bisogno che il Cittadino eserciti fattivamente i suoi diritti. La sola possibilità agisce in modo inibitorio sui “politici di professione”.
La democrazia rappresentativa in questo disegno costituzionale può, sostanzialmente, restare intatta, verrebbe solamente delimitata ed integrata da una democrazia fiscale semi-diretta. Ovviamente in un tale ordinamento verrebbe a mancare totalmente la base per la crescita incontrollata, ovvero ALL’INSAPUTA o CONTRO gli interessi economici della maggioranza dei Cittadini, del settore pubblico allargato, che vediamo espletarsi nell’intrasparenza dei sistemi tributari della storia d’Italia (e di altri paesi), nello strapotere delle oligarchie improduttive e negli sprechi di massa megagalattici di risorse che osserviamo nel debito pubblico e nel debito pensionistico implicito nel nostro paese e di altri.
A livello internazionale o sopra-nazionale un tale sistema costituzionale abolirebbe istantaneamente il problema fondamentale dell’instabilità economica e politica tra gli stati, in quanto eliminerebbe le basi economiche per l’uso del monopolio della violenza da parte del Leviatano nei confronti di altri “stati” (ovvero altri Cittadini). Questa è la precondizione fondamentale per il sorgere di una o più repubbliche sovranazionali non semplicemente sovrapposte alle megalomanie e alle vanità degli stati così come li conosciamo noi, ma rispondenti alla risoluzione dei problemi sociali e politici internazionali concreti dei Cittadini. Una volta affermatosi a livello locale, ritengo un tale sistema si potrebbe affermare “rapidamente”, forse nel giro di un centinaio di anni, anche a livello internazionale o sopranazionale. La UE , come la conosciamo oggi e come ci è stato proposto di “costituzionalizzarla” nel Trattato Costituzionale, è l’esatto contrario di quello di cui i Cittadini europei avrebbero bisogno.
In Svizzera le corti dei conti non giocano un ruolo importante, infatti non esistono. In Italia sì, ma sono delle tigri di carta.
Nella mia proposta di “programma per la democrazia fiscale” per l’Italia invece ad esse compete un ruolo assolutamente determinante. Perché? Come dicevo più su, una delle condizioni che deve poter soddisfare un sistema fiscale compatibile con il costituzionalismo democratico, ovvero un sistema di governo LIMITATO, è la sua trasparenza. La trasparenza essenzialmente è un problema di informazione (ovvero di disinformazione o di anti-informazione). Perché l’operato delle organizzazioni pubbliche, dall’ATM all’USL all’Unione Europea, appaiono intrasparenti ai Cittadini? Perché sono troppo complesse? Non solo, soprattutto perché producono tutta una quantità di informazione destinata ai “soliti noti”, che i comuni mortali non vedono mai, come i reali costi della produzione dei “servizi” pubblici. Ma non l’avranno mai perché qualcuno non vuole fargliela avere oppure perché quest’informazione non è disponibile?
Ovviamente in quanto c’è qualcuno che non vuole fargliela avere. Le istituzioni politiche della democrazia rappresentativa, come TUTTE le istituzioni politiche, sono dei “filtri”, esse filtrano le preferenze e la domanda di beni pubblici dei cittadini al fine di sottoporle a meccanismi di decisione collettiva organizzati in procedure come quelle parlamentari o burocratiche. Ma esse sono e restano sempre dei FILTRI. Quindi: esistono sempre preferenze e domande che per DEFINIZIONE non verranno mai considerate come “degne” di essere sottoposte a meccanismi di decisione collettiva (voto). Quando poi questi meccanismi di decisione collettiva sono “guidati” (si fa per dire) da organizzazioni oligarchiche di potere quali sono i partiti politici, allora è chiaro che su qualsiasi preferenza o domanda che esce dallo schema F della partitocrazia viene disteso il velo del silenzio più impietoso.
Questo è il motivo per cui ANCHE NELLE PIU’ ANTICHE ED AVANZATE DEMOCRAZIE DELL’OCCIDENTE esiste una massa di insoddisfazione politica ed economica causata dal funzionamento e dal mal-funzionamento del sistema politico così spaventosa, in quanto in esse sono insiti meccanismi, che tendono a diventare vere e proprie condanne al silenzio, all’annullamento dell’opinione. E’ in questo senso che esse si possono trasformare in vere e proprie fabbriche dell’ipocrisia ed è in questo senso, che, se non si accorgono degli iceberg verso i quali si stanno dirigendo, rischiano di fare la fine del Titanic.
Il problema della trasparenza dell’informazione sui processi e sui risultati dei processi politici non è solo qualitativo, ma anche quantitativo. La stampa e i mass media già veicolano una massa impressionante di notizie, ma, a guardare bene, sono tutte brutte copie le une delle altre. Eppure questo non basta, in quanto questi strumenti sono “distorti” per vari motivi, soprattutto a causa dell’influenza diretta ed indiretta degli interessi di potere oligarchici nel controllo dell’informazione.
Come se ne esce? Non certo con la TV digitale, che è destinata a diventare certamente lo strumento finale del controllo totale della vita privata da parte delle organizzazioni pubbliche. Se ne esce solamente creando delle nuove fonti di informazione, la cui capacità di guardare in “profondità” all’interno dei processi politici possa essere virtualmente infinita e che siano in grado di comunicare questa informazione in modo virtualmente continuo, 24 x 24, 7 giorni su 7. Ovviamente, sulla base di certe regole di ingaggio e di certe regole decisionali: dal sapere occorrerebbe infatti passare al potere, ovvero all’azione incisiva sulla realtà.
A mio avviso le istituzioni più appropriate per fare questo dovrebbero essere appunto le corti dei conti, che hanno già alcuni poteri di controllo ex ante ed ex post, ma che sono completamente insufficienti rispetto ai requisiti dell’informazione politica ed economica imposti da una democrazia fiscale. Le corti dei conti nella mia concezione di democrazia fiscale dovrebbero avere il ruolo di “custodi” di un sistema informativo, che io chiamo (per sdrammatizzare) lo “stato-scopio”, che sostanzialmente è uno strumento informatico che espone a vari livelli di analiticità informazioni su tutte le transazioni finanziarie, sui costi e sui benefici prodotti dalle organizzazioni pubbliche. Ovviamente dovrebbero esistere corti dei conti locali, regionali (o cantonali) e nazionali (e sopranazionali, che esistono già, ma appunto con poteri di controllo troppo limitati).
I vari “statoscopi” dovrebbero consentire a qualsiasi Cittadino di accedere in tempo reale a tutte le informazioni sui costi, sulle entrate, sugli impieghi e sulle uscite di qualsiasi organizzazione pubblica, dal comune e la USL ai partiti e ai sindacati, dai consigli regionali e i parlamenti fino all’Unione Europea, dall’INPS alle partecipazioni statali, regionali o delle camere di commercio. Tutto ciò che è connesso alla redazione di bilanci pubblici dovrebbe essere TOLTO DALLA COMPETENZA DI ASSEMBLEE LEGISLATIVE, ma soprattutto essere SOTTRATTO AL POTERE ESECUTIVO e l’istruttoria dei bilanci pubblici essere fatta da appositi uffici presso le corti dei conti. L’approvazione dei bilanci dovrebbe avvenire per mezzo di votazioni elettroniche referendarie direttamente da parte dei Cittadini. Al fine di ottimizzare l’utilizzazione di questi strumenti, i bilanci non dovrebbero essere più annuali, ma per intere legislature (4-5 anni). L’utilizzo dello statoscopio come strumento real-time infatti consente di fare una cosa che gli attuali sistemi di finanza pubblica non consentono o consentono in modo molto limitato (e che è IL VERO SCOPO DELLA DEMOCRAZIA FISCALE): ovvero il CONTROLLO DELLA QUALITA’ PERCEPITA delle decisioni pubbliche direttamente da parte dei Cittadini.
Oramai è una prassi abbastanza diffusa anche nel settore pubblico fare rilevazioni della cosiddetta “citizen satisfaction”, altrimenti note anche come “public audit”, che misurano quantitativamente la qualità percepita dei servizi pubblici. Che informazione producono queste rilevazioni? Queste rilevazioni consentono di misurare statisticamente la qualità percepita da parte degli utenti di servizi pubblici del VALORE di questi servizi. Finora si tratta di poco più che di curiosità, in quanto molto spesso le analisi di Citizen Satisfaction non vengono rese pubbliche o sono totalmente volontarie. In un sistema fiscale basato sulla democrazia fiscale invece i risultati di bilancio verrebbero controllati sempre con rilevazioni elettroniche – MA OBBLIGATORIE –  ogni 3 o 6 mesi o ogni anno, in ogni caso ripetutamente. Che cosa si valuterebbe? Essenzialmente due cose: le persone e i risultati dei procedimenti di attuazione delle decisioni pubbliche. Le persone che sono preposte ad attuarle verrebbero giudicate da chi di competenza, ovvero non da “Nuclei di Valutazione” interni chiusi in torri d’avorio come previsto attualmente dal diritto pubblico italiano, ma dai Cittadini. Le organizzazioni pubbliche non lavorano per dei “Nuclei di Valutazione”, ma per il Cittadino. Almeno: si SUPPONE, che dovrebbero lavorare per il Cittadino. Le rilevazioni di Citizen Satisfaction servono a MISURARE QUANTO per il Cittadino e QUANTO per altri.
Molti media, tra cui molte trasmissioni di giornalismo investigativo, spesso producono informazioni simili a quelle che verrebbero prodotte sistematicamente con un meccanismi di questo tipo. Spesso tuttavia non raggiungono molto di più che suscitare sdegno nell’opinione pubblica, rimangono senza conseguenze pratiche. Delle rilevazioni periodiche obbligatorie della Citizen Satisfaction, se collegate a regole costituzionali che OBBLIGANO chi di dovere a prendere delle misure, avrebbero il benefico effetto di fare seguire fatti alle parole. Le conseguenze immaginabili possono essere di vario tipo. Ad esempio possiamo pensare da conseguenze punitive (una regola può dire: un esecutivo che non raggiunge dopo tre periodi consecutivi l’obiettivo di raggiungere almeno un 7 di Citizen Satisfaction da parte di almeno il 66% degli aventi diritto al voto in una certa giurisdizione, si deve dimettere) a conseguenze che premiano certi comportamenti. Uno di questi comportamenti è la minimizzazione dei costi delle organizzazioni pubbliche sui contribuenti.
Come si può OBBLIGARE un sistema politico a seguire politiche di minimizzazione dei costi di produzione e di distribuzione di servizi pubblici?
Dalla ribellione fiscale avvenuta in California contro le imposte sulla proprietà immobiliare avvenuta negli anni 70, in molti stati americani sono state adottate delle “TELs”, ovvero “tax expenditure limitations”, norme costituzionali che limitano le aliquote applicabili a certi tipi di imposte. Così nelle proposizioni 12 e 13 della costituzione della California le imposte reali sugli immobili vengono LIMITATE ad un’aliquota massima dell’1%. Le contee possono applicare l’aliquota che vogliono, ma non oltre l’1%. Ciò tuttavia non è bastato per tenere più sotto controllo la spesa pubblica dello stato della California negli anni 80 e 90, che hanno visto l’INVENZIONE di nuove imposte da parte sia di organi di governo locali sia dello stato della California. TELs simili a quelle della California sono state introdotte nelle costituzioni di quasi tutti gli stati americani, tuttavia non a livello federale.
Le TELs agiscono sul lato delle entrate, ma è immaginabile anche introdurre norme costituzionali sulla riduzione della spesa, ad es. una norma COSTITUZIONALE che obbliga qualsiasi organizzazione pubblica a ridure diciamo del 3% o del 5% l’anno i propri COSTI (attenzione: ho detto COSTI, non spese !!!). Questo presuppone non solo che esista un’informazione pubblica sui COSTI reali di produzione dei servizi pubblici, ma che il non raggiungimento di questi obiettivi di COSTO abbia delle conseguenze tangibili su chi è responsabile per la gestione delle organizzazioni pubbliche.
Ovviamente norme di questo tipo per avere senso devono essere concepite con un solo obiettivo: la loro giustiziabilità. Solo norme costituzionali realmente giustiziabili e accompagnate da sanzioni appropriate possono avere l’effetto intimidatorio richiesto dai Cittadini per avere un effetto di reale prevenzione sui comportamenti anti-economici delle organizzazioni pubbliche.
Tuttavia, anche ammettendo che queste norme costituzionali esistessero e che potessero essere tutte giustiziabili (e che le corti costituzionali in effetti le applicassero), questo ancora potrebbe non bastare per mantenere il livello dei COSTI di produzione e di distribuzione dei beni pubblici, che i Cittadini ritengono necessariamente dover essere prodotti dallo stato, al livello minimo.
Nell’economia privata il meccanismo che obbliga le istituzioni del mercato, ovvero le aziende, a minimizzare i costi è il fatto del tutto fisiologico che le aziende che non fanno profitti vengono spinte dalla concorrenza fuori dal mercato. Le istituzioni dei mercati politici di stati basati sul concetto di monopolio della violenza, come voleva Hobbes, o sul monopolio della produzione del diritto pubblico, come le nostre partitocrazie, anche se fanno perdite, non possono per definizione essere “spinte fuori dal mercato”, ovvero smembrate e riciclate in altro, di solito non si può far loro altro che aspettare che la prossima rivoluzione le lavi via. Il sollievo tuttavia sarà solo temporaneo, se dopo la rivoluzione si torna semplicemente alla formazione di monopoli o alla formazione di nuovi oligopoli, di nuovi cartelli politici, magari con altri nomi.
La fine della prima repubblika è stata esattamente questo: la sostituzione di un cartello partitocratico con un altro, che non ha saputo incidere affatto sui fattori realmente importanti per i Cittadini italiani, che avessero potuto migliorare i livelli di produzione e di distribuzione dei beni pubblici fa parte dello stato italiano, per non parlare della loro qualità.
In Italia si tende erroneamente a credere, ovvero: LA CLASSE POLITICA TENDE A VOLER FAR CREDERE AL CITTADINO che la concorrenza fiscale sia sempre qualcosa di negativo, di indesiderabile. L’Italia è anche stata la promotrice di iniziative internazionali volte ad impedire la concorrenza fiscale anche a livello internazionale con la scusa di voler colpire i c.d. “paradisi fiscali” con una apposita convenzione OCSE. Le differenze di COSTO nella produzione e nella distribuzione di beni pubblici non sono illegali, sono assolutamente possibili, non solo, ma addirittura benefiche. Bisogna rendersi conto che la fobia tutta italiana nei confronti della concorrenza fiscale è il punto di vista di UNA PARTE, di una CLASSE, di una CLASSE niente affatto disinteressata e non di tutti i Cittadini italiani singolarmente o presi insieme. Non è un caso se in certe operazioni la classe politica italiana a livello internazionale viene sostenuta e seguita da altri, come ad esempio la Germania, in quanto appunto anche in Germania abbiamo un regime partitocratico che è convinto che il livello dei costi di produzione e di distribuzione dei beni pubblici da esso fissato sia una necessità divina, mentre invece non lo è, è solo una necessità di sopravvivenza di regimi partitocratrici.
La concorrenza fiscale può essere uno strumento adeguato per produrre quel tipo di minimizzazione dinamica dei costi di produzione e di distribuzione dei beni pubblici, che potrebbe riequilibrare il peso del settore pubblico italiano e riappacificare il Cittadino con lo stato, la questione è solo COME.
Sempre Bruno Frey sin dalla metà degli anni ’90 va propagandando un modello di concorrenza politica e fiscale tra le giurisdizioni che compongono uno stato federale non basate su estensioni spaziali pre-confezionate, ma flessibili. Inoltre, le componenti “ultime” di tali giurisdizioni sono i Cittadini stessi, al massimo i municipi, che ovviamente si suppone che i cittadini possano formare in modo associativo completamente libero. Così un cittadino di Ravenna potrebbe essere membro dell’USL di Milano PER SEMPLICE SCELTA, o un Cittadino di Palermo essere membro di un ente previdenziale svizzero invece che di uno italiano. Che differenza fa per il Cittadino? Ovviamente simultaneamente nessuna e tutte, in quanto, a parità di qualità del servizio prodotto dall’INPS e dalla Rentenanstalt per lui sarebbe indifferente essere membro dell’una o dell’altra. Ma la qualità non è la stessa, fa una differenza radicale essere membri di una giurisdizione invece chedi un’altra, soprattutto quando all’interno della giurisdizione in cui la natura vuole che si nasca c’è un solo, unico produttore e/o distributore di servizi specifici o un unico produttore/distributore di servizi di tutti i tipi, che non solo non si ha il diritto di modificare, di plasmare, di cambiare, ma che non si può fare altro che lasciare indietro. Quando si trapassano i confini giurisdizionali di stati diversi questo non ha conseguenze troppo vaste, in quanto il principio di “sovranità nazionale” consente ad ogni stato di sistemarsi le sue situazioni interne come meglio gli pare, o come meglio i suoi Cittadini sopportano, ma la migrazione intergiurisdizionale all’interno di uno stesso stato ha un effetto potentissimo: mette le istituzioni politiche in concorrenza tra di loro, specialmente quando i costi di migrazione sono relativamente bassi, almeno rispetto ai costi della migrazione internazionale.
Se guardiamo alla storia dell’Italia dal 1861 vediamo due cose: un movimento migratorio internazionale potentissimo, che ha condotto ad emigrare fuori dell’Italia più di 30 milioni di cittadini e un altrettanto potente movimento migratorio interno, che ha condotto altre decine di milioni di persone a trasferirsi dal Mezzogiorno al Nord. Secondo la teoria standard del federalismo concorrenziale, che si fa risalire comunemente all’economista americano Charles Tiebout, questi movimenti migratori avrebbero dovuto produrre effetti positivi sul sistema politico, avrebbero dovuto indurre a innovazioni istituzionali e costituzionali, che avessero consentito un sistema politico più decentrato, con giurisdizioni più piccole in concorrenza tra di loro per attrarre numeri crescenti di migranti interni o di rimpatrianti dall’estero, in quanto questi avrebbero consentito di far crescere sensibilmente il potenziale di crescita economica locale, ma così non è stato. L’Italia, malgrado questi movimenti migratori potentissimi, dal volume sconosciuto in qualsiasi altro paese occidentale, è rimasta ferma allo stato monolitico formatosi nell’800, è rimasta un paese bloccato, incapace di produrre innovazioni istituzionali e costituzionali in più di 60 anni, di darsi un sistema di diritto pubblico più moderno, meno burosaurico e farraginoso di quello prodotto dalla monarchia e dal fascismo, incapace di adattare lo stato ottocentesco alle esigenze di flessibilità e di innovazione accelerate che sono diventate essenziali per la sopravvivenza di un paese in un’economia mondiale globalizzata.
E’ questo blocco storico, voluto dalle classi dominanti in Italia e dalle loro clientele particolari, che sta mettendo a repentaglio l’esistenza stessa di questo paese, che, a causa delle sue disfunzioni politiche, della sua debolezza economica e della situazione totalmente disastrosa delle sue finanze pubbliche è non solo a rischio di bancarotta, ma è a rischio di sfaldamento e divisione come l’ex l’Unione Sovietica e l’ex Jugoslawia. Non sono da escludere neanche lotte interne violente per la divisione della responsabilità del debito pubblico accumulato dalla classe politica della prima repubblika, che sta apparendo ormai giorno per giorno più per quello che è, ovvero un debito inesigibile.
La classe politica italiana, per il tramite del suo amministratore fallimentare democristiano della prima repubblika, Romano Prodi, sta cercando di illudere per l’ennesima volta il Cittadino italiano che una pseudo-riforma del sistema politico, che imponga, dopo il bipolarismo, finalmente il bipartitismo, purchè resti formalmente una partitokrazzia, possa salvare l’Italia dal suo destino.
Ma il destino dell’Italia della prima repubblica è ineluttabile: è la bancarotta.

Lettera aperta al signor Luigi di Maio, deputato del Popolo Italiano

ZZZ, 04.07.2020 C.A. deputato Luigi di Maio sia nella sua funzione di deputato sia nella sua funzione di ministro degli esteri ...