In
tutti i paesi altamente industrializzati è iniziata, sulla scia della
discussione attorno alla crisi finanziaria dello stato sociale, una
discussione intorno alla democrazia fiscale. In Italia rimando al
libretto di Giulio Tremonti sul federalismo fiscale, che risale al 1990 e
alla più recente opera (2005) sulla “sussidiarietà” fiscale di Luca
Antonimi (non pretendo di dare qui una bibliografia italiana esaustiva,
c’è sicuramente qualche contributo importante più o meno recente, che
adesso mi sfugge).
Che
questa discussione possa anche non avere nulla a che fare con lo stato
sociale in sé e per sé, non viene dimostrato meglio che dall’Italia,
dove lo stato sociale esiste a livelli embrionali, ma la crisi
finanziaria dello stato è di vastissime proporzioni sin dalla fine degli
anni 70.
Nel
lungo termine, lo sviluppo economico storicamente è accompagnato
ovunque da una crescita gigantesca del settore pubblico allargato (non
solo a livello centrale ma anche locale: amministrazioni, aziende più o
meno statali per la produzione e la distribuzione di servizi pubblici,
enti ed agenzie ecc.). L’economista tedesco Adolf Wagner ha formulato
nel secolo scorso una “legge” in base alla quale il settore pubblico
allargato, che è per lo più improduttivo, tende a crescere in modo
esponenziale rispetto al tasso di crescita del settore economico
produttivo. Le cause ipotizzate dagli economisti per questa crescita
dentro al processo di crescita sono molteplici. Si tratta di una
discussione molto complessa, tutt’altro che finita, che ho riassunto per
semplici cenni semplificativi (MOLTO semplificativi).
Sempre
in modo molto semplificativo, dalle discussioni intorno alla c.d.
“legge di Wagner” si possono evincere i seguenti fatti stilizzati:
●
Una crescita più che proporzionale del settore pubblico allargato tende
a limitare seriamente il potenziale di sviluppo economico. La
radicalizzazione di questo giudizio conduce all’idea normativa dello
“stato minimo”.
●
La mancanza di un settore pubblico allargato funzionale tende anche
essa a limitare seriamente il potenziale di sviluppo economico. La
radicalizzazione di quest’idea conduce all’idea dello “stato sociale”.
●
Il settore pubblico allargato deve avere una “dimensione ottima” come
qualsiasi altra organizzazione economica. Questa è un’idea NORMATIVA,
che si trova realizzata parzialmente in pochissimi stati al mondo, il
più grande dei quali è la Svizzera.
In
Italia la crescita tendenzialmente più che proporzionale del settore
pubblico allargato è stata accompagnata da una corsa forsennata verso
“investimenti politici” fallimentari, la cui domanda è stata creata
dalla prepotenza su di una società civile arretrata e poco cosciente di
sé stessa da parte di un regime oligarchico partitocratico, che, dalla
sua nascita nei CLN tra il 1942 e il 1943 fino a maturare in
Tangentopoli, ha instaurato la prassi del CLIENTELISMO DI MASSA a
sistema di governo invece o sotto le sembianze di una democrazia
costituzionale. Questo regime con Tangentopoli è entrato in una crisi
finanziaria, che ha a sua volta accelerato la crisi finanziaria della
prima repubblika. La prima repubblika non è nata solo dalla lotta della
resistenza, come spesso si sente dire, per buona parte è stata (e le sue
rimanenze ancora sono) una
creatura della
Guerra Fredda: è stata pensata e creata per combattere e vincere la
Guerra Fredda. Finita la Guerra Fredda, la prima repubblika ha perso la
sua ragione primaria di esistenza. Purtroppo non ne ha ancora trovata
un’altra. Ma non è l’unico residuato della Guerra Fredda che dà ancora
forti rompicapo, ne esiste un altro, che dà rompicapo ancora più forti,
la Comunità Europea, l’altra creatura della Guerra Fredda senza più un
compito definito, che non sa che cosa fare di sé stessa. Non è un caso
che l’Unione Europea venga ancora finanziata con i proventi dell’unione
doganale e con contributi diretti degli stati membri sulla base del PIL,
e che essa faccia da paravento ai governi nazionali per
l’”armonizzazione” dell’IVA e di altre imposte indirette. Un’Unione
Europea che venisse finanziata con imposte dirette non potrebbe più
essere un’operazione puramente intergovernativa ad esclusivo appannaggio
delle partitocrazie degli
stati membri, ma dovrebbe saper rendere conto ai Cittadini del mercato
comune con ben altri strumenti che il solo Parlamento e la sola Corte
dei Conti europea.
Non
si tratta di divagazioni sul tema: i sistemi fiscali non sono entità
astratte ed indipendenti dalle condizioni politiche interne ed esterne,
locali ed internazionali, ma le plasmano e ne sono plasmati a loro
volta.
L’esigenza
di una democrazia fiscale deriva dalla constatazione di un dato di
fatto incontrovertibile: i Cittadini di TUTTI i paesi occidentali più
avanzati, a causa della diffusione della cultura e della mentalità
democratica risalente al concetto di eguaglianza politica dei Cittadini
diffuso dall’Illuminismo settecentesco, percepiscono oramai il fatto
fiscale come CONDIZIONALE, ovvero come contribuzione CONDIZIONATA alla
resa di servizi della natura più disparata. I sistemi fiscali,
massimamente il diritto tributario italiano, invece sono basati
sull’incondizionalità più assoluta: ovvero il diritto tributario
pretenderebbe di poter legittimare le richieste dello stato SENZA
CONDIZIONI di alcun tipo.
In
Italia, specialmente dopo la fondazione della repubblica da parte
dell’assemblea costituente, assistiamo addirittura ad un peggioramento
brutale di questa “cultura” fiscale autoritaria e antidemocratica: la
legalizzazione della tassazione sulla base di diffuse presunzioni
legali, totalmente gratuite, risultanti dalla sfiducia dello stato nel
comportamento fiscale del Cittadino. Il comportamento fiscale del
Cittadino a sua volta è dettato dalla sfiducia nel comportamento fiscale
delle organizzazioni pubbliche in Italia. Si tratta di un circolo
vizioso senza uscita.
Un
sistema fiscale incondizionale per poter funzionare veramente, ovvero
per essere percepito come socialmente legittimo, deve soddisfare almeno
due condizioni:
1) Chi
comanda incondizionalmente sulla contribuzione deve dimostrare di
essere in grado di essere almeno tanto bravo o più bravo a raggiungere
risultati di chi li raggiunge utilizzando i metodi “volontari” del
mercato;
2) Il
modo in cui vengono formati gli obiettivi ritenuti socialmente
desiderabili deve essere trasparente, ovvero chiunque dovrebbe
POTENZIALMENTE potersi fare un’idea personale di come le risorse comuni
si suppone debbano essere utilizzate, come sono state utilizzate e come
non dovrebbero più essere utilizzate.
Queste
due condizioni (che io ritengo minimali in regimi che pretendono di
chiamarsi democratici) non vengono soddisfatte in nessuno dei paesi che
si ritengono “democrazie avanzate”. In Italia tuttavia esse vengono
soddisfatte ancora meno che altrove. In tutte le democrazie sedicenti
avanzate (eccezione fatta sempre per la Svizzera) il sistema fiscale è
un corpo estraneo all’interno degli ordinamenti costituzionali
democratici, un istituzione sociale che, dall’invenzione dell’autocrazia
su questo pianeta, non ha fatto passi evolutivi in avanti (eccetto,
come sempre, in Svizzera). Perché? Perché il concetto incondizionale,
autocratico di sistema fiscale non è compatibile con il principio
fondamentale del costituzionalismo democratico, ovvero che in uno stato
costituzionale democratico ogni potere DEBBA essere limitato,
analogamente a tutti gli
altri poteri
(esecutivo, legislativo, giudiziario, costituente). Il potere fiscale
in tutte le democrazie avanzate è illimitato, quindi sono illimitati gli
errori del suo abuso e illimitate le conseguenze dei suoi abusi.
Qualsiasi
stato, sedicente democratico o meno, può accampare diritti di prelievo,
di fatto di espropriazione, illimitati sui redditi privati, sul
risparmio privato, sulla proprietà privata. Il problema è che
l’esercizio di questi poteri illimitati è in conflitto con i principi di
controllo del comportamento delle organizzazioni pubbliche sancito dai
principi del costituzionalismo democratico, “controlli” che si suppone
vengano esercitati per mezzo dei sistemi elettorali. Negli stati
autoritari ed autocratici il problema dei controlli elettorali non si
pone. Nelle c.d. democrazie avanzate invece si assiste ad uno
svuotamento progressivo degli strumenti elettorali come strumenti di
controllo dei Cittadini sulla politica e ad un conseguente svuotamento
dei principi del costituzionalismo democratico con lo stesso fine
generale.
In
effetti in Occidente la manipolazione delle costituzioni da parte di
chi si suppone dovrebbe essere controllato e delimitato da esse è
diventata non più l’eccezione, ma la regola. Con il Trattato
Costituzionale Europeo siamo arrivati addirittura al paradosso che la
costituzionè stata scritta in una convenzione di cooptati delle
partitocrazie europee da chi sarebbe dovuto esserne assoggettato e che
lo stesso non abbia neanche previsto alcuna procedura di emendamento che
richieda l’iniziativa o l’intervento referendario del Cittadino
Europeo, che esiste solo sulla carta del Trattato di Maastricht, ma per
il resto non conta assolutamente nulla. Praticamente questo significa
una cosa sola: la fine del costituzionalismo democratico, iniziato ca.
200 anni fa con la costituzione americana.
L’Italia
ha una tradizione di burocrati miopi, arretrati ed incompetenti che
arriva da lontano, ancora prima che essa esistesse formalmente, come
minimo le sue radici risalgono fino al Regno di Sardegna. MALGRADO
l’esistenza di una democrazia repubblicana formale a partire dal 1948,
lo stato italiano a tutti i livelli, da quello comunale a quello
nazionale e a quello internazionale, è caratterizzato dallo stesso
fattore: l’intrasparenza. Esso è un conglomerato di scatole nere, talora
risultanti semplicemente dalla pura e semplice confusione legislativa e
organizzativa, talora risultanti da una precisa volontà di oligarchie
partitocratiche e delle loro rispettive clientele.
Il
dramma della storia post-bellica dell’Italia è che la formazione degli
obiettivi ritenuti socialmente desiderabili sono stati selezionati da un
sistema partitocratico inserito in un contesto internazionale di
“sovranità limitata” in modo del tutto ideologico, sulla base di quello
che di volta in volta le burocrazie del giorno hanno voluto far credere
alla politica che essa dovesse ritenere fattibile e che cosa no.
In
questo modo ha avuto inizio ed è stato sancito de facto, se non de
jure, lo scollamento tra la crescita esponenziale del settore pubblico
allargato ed i reali bisogni dei Cittadini, dalla vera e concreta
domanda di beni pubblici del Cittadino, è stato creato uno stato che
produce incondizionatamente più disservizi che servizi e non si trova il
verso di fargli imparare a produrre servizi, che impone ai Cittadini il
consumo di tutta una serie di servizi non richiesti e che altrimenti
non sarebbero richiesti da nessuno, che produce e distribuisce questi
suoi servizi per lo più non a clienti “finali” quali sono (o dovrebbero
essere???) i Cittadini, ma alle congreghe intermedie, ai partiti stessi e
alle loro clientele speciali, ai sindacati e alle loro clientele
speciali, ai gruppi di interesse speciali, alle corporazioni e a chi da
esso viene eletto
a degno della sua
attenzione. E’ il regno della pura discrezionalità a discapito dei
migliori interessi più generali del Cittadino.
Il
Cittadino non ha più alcuna funzione reale in un tale sistema, nessun
posto e nessun potere. Esso è ridotto ad organo atrofizzato della
costituzione, benché tutti i politici ci raccontino dalla mattina alla
sera che fanno quello che fanno per metterlo “al centro” di tutto. Sì,
al centro di tutto: ma solo quando lo dicono loro e come lo dicono loro.
Nella
seconda repubblika abbiamo assistito (e stiamo ancora assistendo) ad
una diatriba inconcludente sui “massimi sistemi”, il cui risultato è
stato il seguente: i “minimalisti” nostrani non hanno saputo fare nulla
per ridurre la dimensione complessiva del settore pubblico allargato
nell’economia e nella società italiana (non sono riusciti neanche a
controllare la spesa corrente); i “massimalisti” non sono stati capaci
di migliorare percettibilmente la qualità dei (dis-)servizi prodotti e
distribuiti dalle organizzazioni pubbliche di uno stato solo sedicente
sociale, che di sociale non ha praticamente nulla.
Il
risultato è che le Italiane e gli Italiani stanno pagando uno stato
divenuto di fatto inutile. L’alfa e l’omega dell’utilità di uno stato
per il Cittadino si misura sull’unico “servizio pubblico” non
privatizzabile di uno stato: quello della giustizia. Ritengo di non
dovermi addentrare troppo in dettaglio per giustificare la mia
affermazione, se affermo che non si può più parlare di amministrazione
della giustizia in Italia: non esiste una giustizia minimamente
funzionante non solo in campo civile e penale, ma anche in campo
tributario, in campo amministrativo, addirittura in campo
costituzionale. Infatti solo in un paese come l’Italia può accadere che
il sistema politico possa lamentarsi dei livelli di conflitto
costituzionale causati da una riforma costituzionale (parlo di quella
del cd. Titolo V), che avrebbe avuto la pretesa di
introdurre un
federalismo all’italiana, dimenticandosi però di istituire corti
costituzionali regionali. Non esiste alcun federalismo al mondo con una
sola ed unica corte costituzionale centrale nella sua capitale e non è
possibile alcun tipo di federalismo che si estenda al solo potere
legislativo, e non invece anche al potere giudiziario, al potere
esecutivo e al potere costituente.
Come uscire da questa situazione?
La
via di uscita esiste, è nota, si chiama federalismo fiscale.
L’establishment politico della seconda repubblika se ne è accorto e dice
di volerlo realizzare anche in Italia. Se però andiamo ad analizzare
dettagliatamente che cosa è il federalismo fiscale italiano, sarà facile
accorgersi alla fine che non è né niente di federalistico né tantomeno
qualcosa di più democratico del sistema fiscale che esiste già.
Non
c’è niente di male: infatti l’Italia non è (ancora) formalmente,
costituzionalmente uno stato federale, anche se ormai la via segnata è
ineluttabile. Perché e come fa uno stato che non è federale ad avere un
sistema fiscale che assomigli anche solo alla lontana ad un sistema
fiscale federalistico? E’ ovvio che non si può avere federalismo fiscale
in uno stato che non è federale così come è vero che non si può avere
federalismo senza federalismo fiscale autentico. Il federalismo fiscale
all’italiana ovviamente non è l’unico tipo di federalismo fiscale
possibile, ne esistono altri.
Esiste
in particolare un federalismo fiscale di tipo radicalmente democratico,
che funziona, che è rodato da un’esperienza storica ormai centenaria,
quello svizzero, ma, guarda caso in Italia non ne parla nessuno. Infatti
in Italia la predominanza della partitocrazia sulla società civile e
sui suoi migliori interessi è andata a selezionare il tipo di
federalismo fiscale meno democratico e più burocratico che esista in
Europa, quello tedesco, e l’ha battezzato a modello del federalismo
fiscale tout court.
Purtroppo
sia l’opinione pubblica “informata”, ovvero i tecnici, i professori
ecc., sia ovviamente i politici, anche i sedicenti federalisti leghisti,
non parlano del modello di federalismo fiscale svizzero. Ci sono buoni,
ottimi motivi (per loro) per cui non se ne parla. Tutto questo non sta
succedendo per caso, ma dipende dal fatto che in Germania esiste
un’incultura partitocratica al potere dal 1948, che ha imposto la sua
predominanza alla società civile tedesca indipendentemente dai suoi
meriti e che non ha voluto e non vuole che il federalismo fiscale
tedesco fosse di tipo democratico. Dal punto di vista del Cittadino
invece è tutto il contrario. Non succede di rado che dal punto di vista
del Cittadino molte cose appaiano diversamente, molto diversamente, da
come appare dal punto di vista del “politico professionista”, del
partitocrate.
Il
federalismo fiscale svizzero non è un modello né minimalista, né
massimalista. E’ un modello che lega fortemente la dimensione del
settore pubblico allargato alla disponibilità a pagare per beni pubblici
da parte del Cittadino, come il Cittadino fa normalmente nell’ambito
del mercato. Inoltre è un sistema competitivo, quanto consente più
concorrenza fiscale di quanto non consenta il sistema fiscale americano
(non parliamo di quello italiano). Il controllo dei risultati degli
agenti politici non si limita al fatto elettorale, ma ad un complesso
gioco di pesi e di contrappesi realizzato per mezzo di referendum
fiscali obbligatori e dello strumento delle iniziative di legge
popolari.
Siccome
a questo punto dovrei citare molta farina che non è del mio sacco, in
allegato invio alcuni link a documenti scritti da Bruno Frey e da altri
collaboratori dell’Istituto di Ricerca Economica Empirica
dell’Università di Zurigo, la cui figura leader è Bruno Frey e che
bisognerebbe leggere prima di continuare a leggere queste mie note.
La
possibilità di mettere in opera a qualsiasi livello operativo di uno
stato federale iniziative legislative popolari in modo relativamente
facile può sbaragliare le agende politiche preconfezionate dalle
segreterie dei partiti e contribuire a cambiare, precisare, far maturare
gli obiettivi da ritenere socialmente desiderabili. Questo a che cosa
serve? Serve ad impedire che i “politici di professione” formino con
successo un cartello contro l’economia e contro la società civile e che
ne possano estrarre da esso delle “rendite di posizione” all’infinito.
Questo è precisamente quello che è successo in Italia: abbiamo 400,000
persone ca. che “vivono” esclusivamente di redditi e pensioni “politici”
e ca. 5,5 milioni di addetti ad un settore pubblico allargato
sostanzialmente improduttivo o dalla produttività in fortissima
regressione,
che vivono dei
redditi e delle pensioni prodotte da una forza lavoro privata media
annua di 11 milioni di persone.
L’esistenza di una concorrenza tra società civile ed establishment politico è altrettanto vitale quanto sui mercati economici.
Eppure
anche in Svizzera ci sono partiti politici “come” in Italia, uno stato
sociale “come” in Italia, una democrazia rappresentativa parallela a
quella diretta come ci sarebbe potuta essere ANCHE IN ITALIA se, chi ha
concretato le norme referendarie della costituzione della prima
repubblika, avesse consentito il formarsi di strumenti di controllo
della partitocrazia attraverso la democrazia diretta non falsi, inutili
come quelli che abbiamo, ma veramente efficaci, funzionanti. Il modo
come sono stati realizzati gli strumenti referendari in Italia non hanno
assolutamente nulla a che fare con le esigenze di realizzare un sistema
di limited government e di controllo puntuale del sistema politico da
parte del Cittadino, sono stati semplicemente motivati dall’esigenza di
continuare ad imporre vincoli ideologici sulla società civile italiana.
La
legge 352 del 1970,
con cui è stato “concretizzato” il mandato costituzionale
all’istituzione dei referendum popolari ed alle iniziative legislative
popolari con 22 anni di ritardo, è stata fatta dalla Democrazia
Cristiana, più precisamente da Giulio Andreotti, per impedire che in
Italia venisse introdotta la legge sul divorzio, legge che poi è stata
introdotta egualmente. Il giudizio di ammissibilità costituzionale di
referendum è un istituto privo di qualsiasi fondamento costituzionale,
tale da rendere la legge 352 incostituzionale in toto, eppure nessuno
l’ha mai sottoposta all’attenzione della Corte. Esistendo oramai una
prassi pluridecennale deviata dallo standard costituzionale è anche poco
probabile che la Corte Costituzionale oggi sarebbe disposta a
spogliarsi di questo orpello in nome del “political self-restraint”.
Quindi, ci deve essere una forza esterna in grado di toglierglielo.
Le
varie possibilità di indire referendum fiscali a tutti i livelli di
governo dà ai Cittadini la POSSIBILITA’, se e quando necessario, di
prendere il coltello dalla parte del manico anche quando si parla di
soldi, non solo di voti. Ma questo non basta: in molti cantoni si fanno
anche referendum per decidere sulla legittimità del fare debiti. Il
nostro modello di federalismo, che consente ora a regioni e a comuni di
emettere titoli per fare “investimenti”, è proprio il tipico esempio di
lezione non imparata da parte di una classe politica, che d’altronde non
ha mai imparato nulla da niente e da nessuno: infatti l’idea che delle
organizzazioni pubbliche aduse a vivere in un ambiente economico
“distorto” e a comportarsi in modo anti-economico possano però
selezionare gli investimenti, che potranno avere successo o che meglio
collimano con i
bisogni e le
aspettative dei Cittadini, se non è ridicola, almeno è molto
fantastica. Ma questa fantasia E’ LEGGE DELLO STATO, è una delle tante
leggi fantastiche, completamente campate in aria, di questo stato.
La
democrazia fiscale può essere un ottimo strumento per distruggere le
fantasie, che attualmente sono “leggi dello stato” prodotte dal regime
partitocratico della prima repubblika e che impediscono l’avvento di un
sistema fiscale più congruo con i principi fondativi del
costituzionalismo democratico, ovvero con il concetto di limited
government. Ma non sarà lo strumento che porterà il paradiso in terra.
E’ solo uno strumento che ci può far fare qualche passo in avanti
rispetto all’inferno fiscale italiano.
La
democrazia fiscale non è un posto dove non si pagano le tasse
(l’aliquota di 0% non esiste, in quanto il principio di condizionalità
fiscale fa capire al Cittadino che essa è associata ad un livello di
produzione di beni pubblici pari a zero; cfr. Howard Bowen: The
Interpretation of Voting on the Allocation of Economic Resources,
Quaterly Journal of Economics 4, 1964), ma un posto dove il Cittadino è
coinvolto al massimo livello anche nella definizione degli obiettivi
socialmente desiderabili e nel controllo che essi rientrino realmente
all’interno delle risorse collettive realmente esistenti. L’eventualità
di un’aliquota 0% è un problema solamente in un sistema fiscale
caratterizzato dal monopolio monolitico del Leviatano su una società in
cui esistono solo imposte a livello centrale e la legislazione
tributaria è totalmente
centralizzata: in uno stato
federale fortemente decentrato, in cui i Cittadini di una giurisdizione
hanno ANCHE il diritto di votare un’aliquota dello 0% su una certa
imposta (sto supponendo, come nella maggior parte degli stati federali,
che esistono imposte dirette nazionali e locali SEPARATE, come anche
imposte indirette nazionali e locali SEPARATE, oppure imposte locali
SEPARATE, su cui il potere centrale non ha competenze legislative in
materia né tributaria né di “sostanza”), la cosa HA UN SENSO: ovvero i
Cittadini possono non volere più finanziare una certa attività pubblica
perché o non ne hanno più bisogno o hanno trovato un altro modo,
migliore per finanziarla. Il Cittadino deve anche avere il diritto di
votare aliquote dello 0% in uno stato federale con un VERO FEDERALISMO
FISCALE.
Ovviamente
in una democrazia semi-diretta con forti competenze fiscali
assoggettate ad un regime referendario OBBLIGATORIO il Cittadino ha
molto più potere di contribuire alla formazione degli obiettivi
socialmente desiderabili che non in una democrazia puramente
rappresentativa, dove i rappresentanti sono abituati a pensare prima per
loro e poi per gli altri, soprattutto poiché nel lungo termine è facile
dimostrare che la “politica di professione” si può permettere questa
inversione di ruoli solamente perché non c’è nessuno che sia in grado di
impedirglielo efficacemente.
Se
la concorrenza fiscale deve produrre effetti REALI, il Cittadino deve
avere anche il diritto di assegnare risorse pari a 0 ai progetti che non
ritiene veramente necessari. Vista l’esperienza con alcuni risultati
referendari in Italia, piuttosto il problema si sposta sul piano
dell’attuabilità di certe decisioni, come quella sul finanziamento
pubblico dei partiti o dell’abolizione del ministero dell’agricoltura.
Ci devono essere regole e procedimenti costituzionali con i quali i
Cittadini, se necessario, possano piegare dei rappresentanti riottosi,
che continuano a dare la priorità agli interessi propri invece che a
quelli dei Cittadini. Devono essere poteri REALI, protetti
costituzionalmente, attuabili se necessario anche con la forza. Senza un
potere realmente intimidatorio nelle mani dei Cittadini, un sistema
politico aduso a non dover
rendere conto, troverà
sempre modi e maniere di scampare alle proprie responsabilità.
Per
fare questo, OLTRE che dello strumento del voto, il Cittadino ha
bisogno ANCHE di poter controllare il rubinetto dei soldi, di chi li
incassa e di chi li spende, sia direttamente sia indirettamente.
Ovviamente,
mi rendo conto dell’ingenuità della semplice richiesta di “trasporre” o
di imitare o di copiare il federalismo fiscale in Italia, specie
nell’Italia nelle presenti condizioni economiche e politiche, anche
perché il tipo di democrazia fiscale che io ritengo necessario per
l’Italia (ma potrei anche dire per l’Unione Europea o per i suoi stati
membri), in verità va ben al di là del modello di federalismo fiscale
svizzero. Ancora più ingenuo potrebbe sembrare che io ritengo che il
sistema della democrazia fiscale svizzera dovrebbe essere realizzato
prima nel Mezzogiorno d’Italia che non nel Nord.
L’ingenuità
non consiste tanto nel voler copiare di punto in bianco un sistema
fiscale che si è evoluto in diversi secoli e volerlo metterlo in atto in
un paese dove il Cittadino medio è diventato psicologicamente
dipendente da un potere, che lo costringe ad essere irresponsabile per
sé stesso e per i suoi Concittadini fin dal 1861, ma al massimo dal
richiedere un tipo di democrazia fiscale che va anche al di là di quella
che esiste in Svizzera.
La
mia proposta perde la sua ingenuità quando disegna un percorso
PROGRESSIVO, che ha come obiettivo finale un sistema fiscale basato su
strumenti democratici DIVERSI da quelli puramente rappresentativi e/o
coattivi. So bene che nessun sistema fiscale può essere puramente
volontario, ma sono anche certo che qualsiasi strumento che aumenta la
partecipazione e la responsabilità fiscale dei singoli dovrebbe essere
attuato con priorità rispetto agli aspetti coattivi e sanzionatori del
sistema fiscale. Questa è cosa buona e giusta SE SI VUOLE PRESERVARE IL
COSTITUZIONALISMO DEMOCRATICO in Occidente, in quanto lo sviluppo
economico e sociale dell’Occidente dal 1780 in poi è stato reso
possibile solamente dall’assottigliamento progressivo della presa sulla
società e sull’economia da parte delle monarchie e delle aristocrazie,
che hanno “retto” le
sorti
dell’Occidente in una storia millenaria, troppo spesso fatta solo di
guerre, ma soprattutto di arbitrarietà nell’esercizio del potere,
specialmente del potere fiscale, che ha tolto alla società e
all’economia le risorse per svilupparsi e per distribuire a quote
crescenti della popolazione il prodotto delle attività economiche.
Un processo di passaggio da un regime di inferno fiscale ad un regime di democrazia fiscale può essere tracciato in questo modo:
1) Riforma
per mezzo di una legge di iniziativa popolare della legge 352/1970 sui
referendum e sulle iniziative legislative popolari:
- Rimozione
degli attuali limiti costituzionali e di diritto pubblico
all’assoggettamento delle norme tributarie a livello nazionale,
regionale e locale ad un regime di referendum popolari obbligatori su
tutte le materie di bilancio, fiscali, finanziarie e tributarie;
abolizione delle pregiudiziali di costituzionalità referendaria e dei
quorum attuali;
- Assoggettamento
dei trattati internazionali ad un regime di referendum popolari
obbligatori: divieto di ratifica di trattati internazionali approvati da
meno di 2/3 dei votanti;
- Assoggettamento
delle iniziative legislative popolari a requisiti di firme minimi e di
approvazione a maggioranze qualificate dei VOTANTI (e non degli aventi
diritto) di almeno 2/3;
- Possibilità
di approvare con una maggioranza di 2/3 dei votanti iniziative di legge
popolare, che non vengano passate dagli organi legislativi locali,
regionali e nazionali entro tre mesi dalla loro presentazione agli
organi legislativi;
- Diritto
di veto popolare contro proposte di legge comunali, regionali e
nazionali su iniziativa del 2% degli aventi diritto al voto approvata
dai 2/3 dei votanti;
- Diritto
di revoca: su iniziativa del 2% degli aventi diritto al voto e con
approvazione dei 2/3 dei votanti i Cittadini possono revocare il mandato
a chiunque individualmente riceva stipendi, compensi o pensioni da
organizzazioni pubbliche o ai membri di interi organi costituzionali e
sostituirli, fatta eccezione per gli organi giudiziari;
- Iniziativa
costituente popolare esclusiva: La convocazione di assemblee
costituenti viene riservata esclusivamente al corpo elettorale a livello
comunale, regionale e nazionale e viene esercitata su iniziativa a
firma del 2% degli aventi diritto al voto e approvata dai 2/3 dei
votanti. Le iniziative popolari di emendamento e le iniziative popolari
di revisione costituzionale totale sono assoggettate a referendum
popolari obbligatori e approvate dai i 2/3 dei votanti.
- Istituzione
del corpo di Polizia Amministrativa alle dipendenze delle Corti dei
Conti, con poteri anche sulle organizzazioni internazionali di cui è
membro l’Italia;
- Divieto
per 5 anni di poter portare avanti iniziative legislative da parte di
organi legislativi locali, regionali e nazionali su materie sottoposte
con successo a referendum popolare, anche da parte di organizzazioni
internazionali;
- Riforma
della Corte dei Conti: istituzione di corti dei conti indipendenti a
livello municipale, regionale e nazionale; elezione diretta di un terzo
dei giudici contabili delle Corti dei Conti di primo grado (municipali);
elezione diretta della metà dei giudici contabili delle Corti di
secondo grado (regionali). Nomina di un terzo dei giudici contabili
riservata a referendum confermativo popolare. Istituzione di Giurie
Popolari a fianco dei giudici contabili di tutti e tre i livelli.
- Azione
di impeachment presso la Corte dei Conti competente nei confronti degli
organi, che di fatto o di diritto non attuano decisioni referendarie
legittimamente prese; possibilità di infliggere sanzioni concrete sulla
base di un codice di polizia amministrativa;
- Abolizione
delle Commissioni Tributarie ed istituzione di un Tribunale fiscale
indipendente a tre livelli (municipale, regionale, nazionale) con Giurie
Popolari a fianco dei giudici fiscali ad ogni livello;
- Introduzione
della corresponsabilità civile e penale personale per i debiti delle
organizzazioni pubbliche su chiunque riceva stipendi, compensi e
pensioni pubbliche;
- Introduzione della pena dell’esilio per chi commette atti gravissimi contro l’amministrazione pubblica;
- Istituzione di assemblee costituenti permanenti a livello comunale, regionale e nazionale:
- Trasferimento
delle competenze legislative in materia di bilancio, fiscali e
tributarie dagli organi legislativi comunali, regionali e nazionali alle
assemblee costituenti permanenti; riserva di legge ASSOLUTA da parte
delle assemblee costituenti permanenti con referendum confermativi
popolari obbligatori con la maggioranza dei 2/3 dei votanti sulle
seguenti materie:
i. legislazione quadro sulle imposte dirette, indirette e sulle imposte reali;
ii. legislazione quadro sui tribunali fiscali, sulle corti dei conti e sul codice di polizia amministrativa;
iii. legislazione quadro sulle corti costituzionali;
iv. legislazione sul finanziamento dei partiti politici;
v. legislazione
quadro sui compensi e sulle pensioni degli addetti del settore pubblico
allargato, inclusi gli addetti del potere giudiziario, del potere
legislativo e del potere esecutivo;
vi. legislazione di rango costituzionale;
vii. leggi elettorali;
viii. leggi quadro sulla libertà di accesso ai sistemi informatici pubblici;
ix. legislazione quadro sulle procedure di emendamento e di revisione costituzionale totale;
x. …
- Istituzione
di una sezione speciale della Corte Costituzionale con il compito di
proporre a referendum popolari l'espunzione, la semplificazione, la
ri-scrittura in un italiano comprensibile del corpus del diritto
pubblico italiano;
2) Formazione
di assemblee costituenti regionali, nazionali e sopranazionali
PERMANENTI: Pur escludendo tutti i tipi di ordinamenti costituzionali
autoritari, l’insieme delle possibili costituzioni democratiche
compatibile con i principi guida del costituzionalismo democratico
rimane pur sempre più che enumerabile. Come selezionare costituzioni ed
emendamenti costituzionali? La mia proposta consiste in questo: votare
su proposte di disegni costituzionali COMPLETI, l’iniziativa sui quali
andrebbe riservata al popolo ed alle associazioni libere della società
civile, sottoponendola a referendum confermativi OBBLIGATORI, invece che
su partiti e delegati, che poi devono negoziare una costituzione, che
non sanno come
attuare, come è successo
alla costituzione italiana del 1947. La soglia di accesso per
un’iniziativa costituzionale o per una proposta di emendamento dovrebbe
essere “bassa”, per esempio raccogliere il 2% di firme degli aventi
diritto al voto entro un tempo ragionevole, diciamo 3-4 mesi. La soglia
di approvazione in un referendum confermativo obbligatorio invece
dovrebbe essere “alta”, ovvero “tendenzialmente” unanime, unanimità
irraggiungibile ma asintoticamente approssimabile tramite la regola dei
2/3 che VOTANO (e non sugli aventi diritto). Concretamente, un processo
costituzionale si configurerebbe come un torneo, in cui proposte
costituzionali verrebbero votate due a due fino all’eliminazione delle
proposte che prendono meno voti. Tali tornei andrebbero svolti ad ogni
livello di governo: comunale, cantonale, federale ed internazionale (o
sopranazionale). Le assemblee costituenti dovrebbero essere formate
contestualmente alla vittoria di una proposta
costituzionale. Ad esempio, i delegati all’assemblea costituente
possono essere eletti a seguito di elezioni primarie sulla base di un
pool di candidati nominati dalle associazioni promotrici della proposta
vincente con un criterio puramente maggioritario. Le assemblee
costituenti permanenti dovrebbero essere molto piccole, con 15-21 membri
max. e nominate per periodi molto lunghi 15 o 20 anni onde stabilizzare
nel lungo termine l’attuazione delle costituzioni così selezionate.
Assemblee
costituenti permanenti devono avere a loro disposizione strumenti
amministrativi in grado di comunicare loro le informazioni sulle
funzioni e sulle disfunzioni della cosa pubblica e di strumenti efficaci
per l’attuazione dei principi costituzionali OLTRE le Corti
Costituzionali (uso il plurale, in quanto ovviamente sto considerando un
ordinamento federale, in cui ogni livello di governo ha una propria
corte costituzionale e non una sola per tutto e tutti come in questo
pseudo-federalismo da straccioni che viene ipotizzato in Italia). Ogni
livello di governo deve essere dotato di tributi propri e completamente
separati gli uni dagli altri (niente compartecipazione al gettito
fiscale, che è contraria al federalismo fiscale), sui quali deve rendere
conto a livelli diversi di governo ai cittadini contribuenti per mezzo
delle Corti dei Conti, che
andrebbero
riformate in modo da produrre informazioni economiche, politiche e
contabili per la valutazione delle decisioni politiche non solo ex post,
ma anche ex ante. Le Corti dei Conti, ai vari livelli di governo,
dovrebbero avere a disposizione un corpo di Polizia Amministrativa in
grado di reprimere efficacemente sia ex post sia ex ante sprechi,
malversazioni e inefficienze nella cosa pubblica.
Il
vantaggio principale dell’uso di tornei costituzionali è questo: le
costituzioni non sono delle semplici “norme” di principio o delle norme
più o meno giustiziabili da parte di corti costituzionali, hanno
un’importantissima DIMENSIONE COMUNICAZIONALE, che è di gran lunga più
importante delle due precedenti che ho menzionato. La dimensione
comunicazionale delle costituzioni è ciò che rende una costituzione
vivente all’interno del tessuto istituzionale e sociale, ovvero un Patto
Sociale funzionante ed operativo. E’ mettendosi nella posizione della
ricerca collettiva e della sottomissione di ciascuno e di tutti alle
medesime regole di convivenza e di valutazione dei processi e dei
risultati dei processi politici che i cittadini cominciano ad astrarre
le loro posizioni particolari, ideologiche e contingenti e si mettono
tendenzialmente
sulla strada di
adottare regole imparziali condivisibili da “chiunque”.
Il
Patto Sociale per me è un Patto che si realizza giorno per giorno nel
dialogo della società con le proprie istituzioni e i propri principi
costituzionali e trai Cittadini stessi, un dialogo continuo, dinamico,
che rimane aperto al cambiamento, che tende ad includere quanti più
interessi generali possibili, che consente di prendere quante più
decisioni collettive possibili, ma non all’insaputa o senza possibilità
di difesa da parte del Cittadino. Può essere un dialogo all’inizio
convulso, ma, nel medio e nel lungo termine, fruttuoso, in quanto
responsabilizza in prima persona i Cittadini e in cui i Cittadini
POTENZIALMENTE hanno e mantengono, tramite assemblee costituenti
permanenti e la democrazia fiscale, il coltello dalla parte del manico.
Come
dimostra il sistema politico della Svizzera, nella maggioranza dei casi
non c’è neanche bisogno che il Cittadino eserciti fattivamente i suoi
diritti. La sola possibilità agisce in modo inibitorio sui “politici di
professione”.
La
democrazia rappresentativa in questo disegno costituzionale può,
sostanzialmente, restare intatta, verrebbe solamente delimitata ed
integrata da una democrazia fiscale semi-diretta. Ovviamente in un tale
ordinamento verrebbe a mancare totalmente la base per la crescita
incontrollata, ovvero ALL’INSAPUTA o CONTRO gli interessi economici
della maggioranza dei Cittadini, del settore pubblico allargato, che
vediamo espletarsi nell’intrasparenza dei sistemi tributari della storia
d’Italia (e di altri paesi), nello strapotere delle oligarchie
improduttive e negli sprechi di massa megagalattici di risorse che
osserviamo nel debito pubblico e nel debito pensionistico implicito nel
nostro paese e di altri.
A
livello internazionale o sopra-nazionale un tale sistema costituzionale
abolirebbe istantaneamente il problema fondamentale dell’instabilità
economica e politica tra gli stati, in quanto eliminerebbe le basi
economiche per l’uso del monopolio della violenza da parte del Leviatano
nei confronti di altri “stati” (ovvero altri Cittadini). Questa è la
precondizione fondamentale per il sorgere di una o più repubbliche
sovranazionali non semplicemente sovrapposte alle megalomanie e alle
vanità degli stati così come li conosciamo noi, ma rispondenti alla
risoluzione dei problemi sociali e politici internazionali concreti dei
Cittadini. Una volta affermatosi a livello locale, ritengo un tale
sistema si potrebbe affermare “rapidamente”, forse nel giro di un
centinaio di anni, anche a livello internazionale o sopranazionale. La
UE , come la
conosciamo oggi e come
ci è stato proposto di “costituzionalizzarla” nel Trattato
Costituzionale, è l’esatto contrario di quello di cui i Cittadini
europei avrebbero bisogno.
In
Svizzera le corti dei conti non giocano un ruolo importante, infatti
non esistono. In Italia sì, ma sono delle tigri di carta.
Nella
mia proposta di “programma per la democrazia fiscale” per l’Italia
invece ad esse compete un ruolo assolutamente determinante. Perché? Come
dicevo più su, una delle condizioni che deve poter soddisfare un
sistema fiscale compatibile con il costituzionalismo democratico, ovvero
un sistema di governo LIMITATO, è la sua trasparenza. La trasparenza
essenzialmente è un problema di informazione (ovvero di disinformazione o
di anti-informazione). Perché l’operato delle organizzazioni pubbliche,
dall’ATM all’USL all’Unione Europea, appaiono intrasparenti ai
Cittadini? Perché sono troppo complesse? Non solo, soprattutto perché
producono tutta una quantità di informazione destinata ai “soliti noti”,
che i comuni mortali non vedono mai, come i reali costi della
produzione dei “servizi” pubblici. Ma non l’avranno mai perché
qualcuno non vuole
fargliela avere oppure perché quest’informazione non è disponibile?
Ovviamente
in quanto c’è qualcuno che non vuole fargliela avere. Le istituzioni
politiche della democrazia rappresentativa, come TUTTE le istituzioni
politiche, sono dei “filtri”, esse filtrano le preferenze e la domanda
di beni pubblici dei cittadini al fine di sottoporle a meccanismi di
decisione collettiva organizzati in procedure come quelle parlamentari o
burocratiche. Ma esse sono e restano sempre dei FILTRI. Quindi:
esistono sempre preferenze e domande che per DEFINIZIONE non verranno
mai considerate come “degne” di essere sottoposte a meccanismi di
decisione collettiva (voto). Quando poi questi meccanismi di decisione
collettiva sono “guidati” (si fa per dire) da organizzazioni
oligarchiche di potere quali sono i partiti politici, allora è chiaro
che su qualsiasi preferenza o domanda che esce dallo schema F della
partitocrazia viene
disteso il velo
del silenzio più impietoso.
Questo
è il motivo per cui ANCHE NELLE PIU’ ANTICHE ED AVANZATE DEMOCRAZIE
DELL’OCCIDENTE esiste una massa di insoddisfazione politica ed economica
causata dal funzionamento e dal mal-funzionamento del sistema politico
così spaventosa, in quanto in esse sono insiti meccanismi, che tendono a
diventare vere e proprie condanne al silenzio, all’annullamento
dell’opinione. E’ in questo senso che esse si possono trasformare in
vere e proprie fabbriche dell’ipocrisia ed è in questo senso, che, se
non si accorgono degli iceberg verso i quali si stanno dirigendo,
rischiano di fare la fine del Titanic.
Il
problema della trasparenza dell’informazione sui processi e sui
risultati dei processi politici non è solo qualitativo, ma anche
quantitativo. La stampa e i mass media già veicolano una massa
impressionante di notizie, ma, a guardare bene, sono tutte brutte copie
le une delle altre. Eppure questo non basta, in quanto questi strumenti
sono “distorti” per vari motivi, soprattutto a causa dell’influenza
diretta ed indiretta degli interessi di potere oligarchici nel controllo
dell’informazione.
Come
se ne esce? Non certo con la TV digitale, che è destinata a diventare
certamente lo strumento finale del controllo totale della vita privata
da parte delle organizzazioni pubbliche. Se ne esce solamente creando
delle nuove fonti di informazione, la cui capacità di guardare in
“profondità” all’interno dei processi politici possa essere virtualmente
infinita e che siano in grado di comunicare questa informazione in modo
virtualmente continuo, 24 x 24, 7 giorni su 7. Ovviamente, sulla base
di certe regole di ingaggio e di certe regole decisionali: dal sapere
occorrerebbe infatti passare al potere, ovvero all’azione incisiva sulla
realtà.
A
mio avviso le istituzioni più appropriate per fare questo dovrebbero
essere appunto le corti dei conti, che hanno già alcuni poteri di
controllo ex ante ed ex post, ma che sono completamente insufficienti
rispetto ai requisiti dell’informazione politica ed economica imposti da
una democrazia fiscale. Le corti dei conti nella mia concezione di
democrazia fiscale dovrebbero avere il ruolo di “custodi” di un sistema
informativo, che io chiamo (per sdrammatizzare) lo “stato-scopio”, che
sostanzialmente è uno strumento informatico che espone a vari livelli di
analiticità informazioni su tutte le transazioni finanziarie, sui costi
e sui benefici prodotti dalle organizzazioni pubbliche. Ovviamente
dovrebbero esistere corti dei conti locali, regionali (o cantonali) e
nazionali (e sopranazionali, che esistono già, ma appunto con poteri di
controllo
troppo
limitati).
I
vari “statoscopi” dovrebbero consentire a qualsiasi Cittadino di
accedere in tempo reale a tutte le informazioni sui costi, sulle
entrate, sugli impieghi e sulle uscite di qualsiasi organizzazione
pubblica, dal comune e la USL ai partiti e ai sindacati, dai consigli
regionali e i parlamenti fino all’Unione Europea, dall’INPS alle
partecipazioni statali, regionali o delle camere di commercio. Tutto ciò
che è connesso alla redazione di bilanci pubblici dovrebbe essere TOLTO
DALLA COMPETENZA DI ASSEMBLEE LEGISLATIVE, ma soprattutto essere
SOTTRATTO AL POTERE ESECUTIVO e l’istruttoria dei bilanci pubblici
essere fatta da appositi uffici presso le corti dei conti.
L’approvazione dei bilanci dovrebbe avvenire per mezzo di votazioni
elettroniche referendarie direttamente da parte dei Cittadini. Al fine
di ottimizzare l’utilizzazione di questi
strumenti, i bilanci
non dovrebbero essere più annuali, ma per intere legislature (4-5
anni). L’utilizzo dello statoscopio come strumento real-time infatti
consente di fare una cosa che gli attuali sistemi di finanza pubblica
non consentono o consentono in modo molto limitato (e che è IL VERO
SCOPO DELLA DEMOCRAZIA FISCALE): ovvero il CONTROLLO DELLA QUALITA’
PERCEPITA delle decisioni pubbliche direttamente da parte dei Cittadini.
Oramai
è una prassi abbastanza diffusa anche nel settore pubblico fare
rilevazioni della cosiddetta “citizen satisfaction”, altrimenti note
anche come “public audit”, che misurano quantitativamente la qualità
percepita dei servizi pubblici. Che informazione producono queste
rilevazioni? Queste rilevazioni consentono di misurare statisticamente
la qualità percepita da parte degli utenti di servizi pubblici del
VALORE di questi servizi. Finora si tratta di poco più che di curiosità,
in quanto molto spesso le analisi di Citizen Satisfaction non vengono
rese pubbliche o sono totalmente volontarie. In un sistema fiscale
basato sulla democrazia fiscale invece i risultati di bilancio
verrebbero controllati sempre con rilevazioni elettroniche – MA
OBBLIGATORIE – ogni 3 o 6 mesi o ogni anno, in ogni caso
ripetutamente. Che cosa si
valuterebbe?
Essenzialmente due cose: le persone e i risultati dei procedimenti di
attuazione delle decisioni pubbliche. Le persone che sono preposte ad
attuarle verrebbero giudicate da chi di competenza, ovvero non da
“Nuclei di Valutazione” interni chiusi in torri d’avorio come previsto
attualmente dal diritto pubblico italiano, ma dai Cittadini. Le
organizzazioni pubbliche non lavorano per dei “Nuclei di Valutazione”,
ma per il Cittadino. Almeno: si SUPPONE, che dovrebbero lavorare per il
Cittadino. Le rilevazioni di Citizen Satisfaction servono a MISURARE
QUANTO per il Cittadino e QUANTO per altri.
Molti
media, tra cui molte trasmissioni di giornalismo investigativo, spesso
producono informazioni simili a quelle che verrebbero prodotte
sistematicamente con un meccanismi di questo tipo. Spesso tuttavia non
raggiungono molto di più che suscitare sdegno nell’opinione pubblica,
rimangono senza conseguenze pratiche. Delle rilevazioni periodiche
obbligatorie della Citizen Satisfaction, se collegate a regole
costituzionali che OBBLIGANO chi di dovere a prendere delle misure,
avrebbero il benefico effetto di fare seguire fatti alle parole. Le
conseguenze immaginabili possono essere di vario tipo. Ad esempio
possiamo pensare da conseguenze punitive (una regola può dire: un
esecutivo che non raggiunge dopo tre periodi consecutivi l’obiettivo di
raggiungere almeno un 7 di Citizen Satisfaction da parte di almeno il
66% degli aventi diritto al voto in una
certa
giurisdizione, si deve dimettere) a conseguenze che premiano certi
comportamenti. Uno di questi comportamenti è la minimizzazione dei costi
delle organizzazioni pubbliche sui contribuenti.
Come
si può OBBLIGARE un sistema politico a seguire politiche di
minimizzazione dei costi di produzione e di distribuzione di servizi
pubblici?
Dalla
ribellione fiscale avvenuta in California contro le imposte sulla
proprietà immobiliare avvenuta negli anni 70, in molti stati americani
sono state adottate delle “TELs”, ovvero “tax expenditure limitations”,
norme costituzionali che limitano le aliquote applicabili a certi tipi
di imposte. Così nelle proposizioni 12 e 13 della costituzione della
California le imposte reali sugli immobili vengono LIMITATE ad
un’aliquota massima dell’1%. Le contee possono applicare l’aliquota che
vogliono, ma non oltre l’1%. Ciò tuttavia non è bastato per tenere più
sotto controllo la spesa pubblica dello stato della California negli
anni 80 e 90, che hanno visto l’INVENZIONE di nuove imposte da parte sia
di organi di governo locali sia dello stato della California. TELs
simili a quelle della California sono state introdotte nelle
costituzioni di
quasi tutti gli
stati americani, tuttavia non a livello federale.
Le
TELs agiscono sul lato delle entrate, ma è immaginabile anche
introdurre norme costituzionali sulla riduzione della spesa, ad es. una
norma COSTITUZIONALE che obbliga qualsiasi organizzazione pubblica a
ridure diciamo del 3% o del 5% l’anno i propri COSTI (attenzione: ho
detto COSTI, non spese !!!). Questo presuppone non solo che esista
un’informazione pubblica sui COSTI reali di produzione dei servizi
pubblici, ma che il non raggiungimento di questi obiettivi di COSTO
abbia delle conseguenze tangibili su chi è responsabile per la gestione
delle organizzazioni pubbliche.
Ovviamente
norme di questo tipo per avere senso devono essere concepite con un
solo obiettivo: la loro giustiziabilità. Solo norme costituzionali
realmente giustiziabili e accompagnate da sanzioni appropriate possono
avere l’effetto intimidatorio richiesto dai Cittadini per avere un
effetto di reale prevenzione sui comportamenti anti-economici delle
organizzazioni pubbliche.
Tuttavia,
anche ammettendo che queste norme costituzionali esistessero e che
potessero essere tutte giustiziabili (e che le corti costituzionali in
effetti le applicassero), questo ancora potrebbe non bastare per
mantenere il livello dei COSTI di produzione e di distribuzione dei beni
pubblici, che i Cittadini ritengono necessariamente dover essere
prodotti dallo stato, al livello minimo.
Nell’economia
privata il meccanismo che obbliga le istituzioni del mercato, ovvero le
aziende, a minimizzare i costi è il fatto del tutto fisiologico che le
aziende che non fanno profitti vengono spinte dalla concorrenza fuori
dal mercato. Le istituzioni dei mercati politici di stati basati sul
concetto di monopolio della violenza, come voleva Hobbes, o sul
monopolio della produzione del diritto pubblico, come le nostre
partitocrazie, anche se fanno perdite, non possono per definizione
essere “spinte fuori dal mercato”, ovvero smembrate e riciclate in
altro, di solito non si può far loro altro che aspettare che la prossima
rivoluzione le lavi via. Il sollievo tuttavia sarà solo temporaneo, se
dopo la rivoluzione si torna semplicemente alla formazione di monopoli o
alla formazione di nuovi oligopoli, di nuovi cartelli politici, magari
con altri
nomi.
La
fine della prima repubblika è stata esattamente questo: la sostituzione
di un cartello partitocratico con un altro, che non ha saputo incidere
affatto sui fattori realmente importanti per i Cittadini italiani, che
avessero potuto migliorare i livelli di produzione e di distribuzione
dei beni pubblici fa parte dello stato italiano, per non parlare della
loro qualità.
In
Italia si tende erroneamente a credere, ovvero: LA CLASSE POLITICA
TENDE A VOLER FAR CREDERE AL CITTADINO che la concorrenza fiscale sia
sempre qualcosa di negativo, di indesiderabile. L’Italia è anche stata
la promotrice di iniziative internazionali volte ad impedire la
concorrenza fiscale anche a livello internazionale con la scusa di voler
colpire i c.d. “paradisi fiscali” con una apposita convenzione OCSE. Le
differenze di COSTO nella produzione e nella distribuzione di beni
pubblici non sono illegali, sono assolutamente possibili, non solo, ma
addirittura benefiche. Bisogna rendersi conto che la fobia tutta
italiana nei confronti della concorrenza fiscale è il punto di vista di
UNA PARTE, di una CLASSE, di una CLASSE niente affatto disinteressata e
non di tutti i Cittadini italiani singolarmente o presi insieme. Non è
un caso se in certe
operazioni la
classe politica italiana a livello internazionale viene sostenuta e
seguita da altri, come ad esempio la Germania, in quanto appunto anche
in Germania abbiamo un regime partitocratico che è convinto che il
livello dei costi di produzione e di distribuzione dei beni pubblici da
esso fissato sia una necessità divina, mentre invece non lo è, è solo
una necessità di sopravvivenza di regimi partitocratrici.
La
concorrenza fiscale può essere uno strumento adeguato per produrre quel
tipo di minimizzazione dinamica dei costi di produzione e di
distribuzione dei beni pubblici, che potrebbe riequilibrare il peso del
settore pubblico italiano e riappacificare il Cittadino con lo stato, la
questione è solo COME.
Sempre
Bruno Frey sin dalla metà degli anni ’90 va propagandando un modello di
concorrenza politica e fiscale tra le giurisdizioni che compongono uno
stato federale non basate su estensioni spaziali pre-confezionate, ma
flessibili. Inoltre, le componenti “ultime” di tali giurisdizioni sono i
Cittadini stessi, al massimo i municipi, che ovviamente si suppone che i
cittadini possano formare in modo associativo completamente libero.
Così un cittadino di Ravenna potrebbe essere membro dell’USL di Milano
PER SEMPLICE SCELTA, o un Cittadino di Palermo essere membro di un ente
previdenziale svizzero invece che di uno italiano. Che differenza fa per
il Cittadino? Ovviamente simultaneamente nessuna e tutte, in quanto, a
parità di qualità del servizio prodotto dall’INPS e dalla Rentenanstalt
per lui sarebbe indifferente essere membro dell’una o
dell’altra. Ma la
qualità non è la stessa, fa una differenza radicale essere membri di
una giurisdizione invece chedi un’altra, soprattutto quando all’interno
della giurisdizione in cui la natura vuole che si nasca c’è un solo,
unico produttore e/o distributore di servizi specifici o un unico
produttore/distributore di servizi di tutti i tipi, che non solo non si
ha il diritto di modificare, di plasmare, di cambiare, ma che non si può
fare altro che lasciare indietro. Quando si trapassano i confini
giurisdizionali di stati diversi questo non ha conseguenze troppo vaste,
in quanto il principio di “sovranità nazionale” consente ad ogni stato
di sistemarsi le sue situazioni interne come meglio gli pare, o come
meglio i suoi Cittadini sopportano, ma la migrazione
intergiurisdizionale all’interno di uno stesso stato ha un effetto
potentissimo: mette le istituzioni politiche in concorrenza tra di loro,
specialmente quando i costi di migrazione sono
relativamente bassi, almeno rispetto ai costi della migrazione
internazionale.
Se
guardiamo alla storia dell’Italia dal 1861 vediamo due cose: un
movimento migratorio internazionale potentissimo, che ha condotto ad
emigrare fuori dell’Italia più di 30 milioni di cittadini e un
altrettanto potente movimento migratorio interno, che ha condotto altre
decine di milioni di persone a trasferirsi dal Mezzogiorno al Nord.
Secondo la teoria standard del federalismo concorrenziale, che si fa
risalire comunemente all’economista americano Charles Tiebout, questi
movimenti migratori avrebbero dovuto produrre effetti positivi sul
sistema politico, avrebbero dovuto indurre a innovazioni istituzionali e
costituzionali, che avessero consentito un sistema politico più
decentrato, con giurisdizioni più piccole in concorrenza tra di loro per
attrarre numeri crescenti di migranti interni o di rimpatrianti
dall’estero, in quanto questi avrebbero
consentito di
far crescere sensibilmente il potenziale di crescita economica locale,
ma così non è stato. L’Italia, malgrado questi movimenti migratori
potentissimi, dal volume sconosciuto in qualsiasi altro paese
occidentale, è rimasta ferma allo stato monolitico formatosi nell’800, è
rimasta un paese bloccato, incapace di produrre innovazioni
istituzionali e costituzionali in più di 60 anni, di darsi un sistema di
diritto pubblico più moderno, meno burosaurico e farraginoso di quello
prodotto dalla monarchia e dal fascismo, incapace di adattare lo stato
ottocentesco alle esigenze di flessibilità e di innovazione accelerate
che sono diventate essenziali per la sopravvivenza di un paese in
un’economia mondiale globalizzata.
E’
questo blocco storico, voluto dalle classi dominanti in Italia e dalle
loro clientele particolari, che sta mettendo a repentaglio l’esistenza
stessa di questo paese, che, a causa delle sue disfunzioni politiche,
della sua debolezza economica e della situazione totalmente disastrosa
delle sue finanze pubbliche è non solo a rischio di bancarotta, ma è a
rischio di sfaldamento e divisione come l’ex l’Unione Sovietica e l’ex
Jugoslawia. Non sono da escludere neanche lotte interne violente per la
divisione della responsabilità del debito pubblico accumulato dalla
classe politica della prima repubblika, che sta apparendo ormai giorno
per giorno più per quello che è, ovvero un debito inesigibile.
La
classe politica italiana, per il tramite del suo amministratore
fallimentare democristiano della prima repubblika, Romano Prodi, sta
cercando di illudere per l’ennesima volta il Cittadino italiano che una
pseudo-riforma del sistema politico, che imponga, dopo il bipolarismo,
finalmente il bipartitismo, purchè resti formalmente una partitokrazzia,
possa salvare l’Italia dal suo destino.
Ma il destino dell’Italia della prima repubblica è ineluttabile: è la bancarotta.
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