In tutti i paesi altamente industrializzati è iniziata, sulla scia della discussione attorno alla crisi finanziaria dello stato sociale, una discussione intorno alla democrazia fiscale. In Italia rimando al libretto di Giulio Tremonti sul federalismo fiscale, che risale al 1990 e alla più recente opera (2005) sulla “sussidiarietà” fiscale di Luca Antonimi (non pretendo di dare qui una bibliografia italiana esaustiva, c’è sicuramente qualche contributo importante più o meno recente, che adesso mi sfugge).

Che questa discussione possa anche non avere nulla a che fare con lo stato sociale in sé e per sé, non viene dimostrato meglio che dall’Italia, dove lo stato sociale esiste a livelli embrionali, ma la crisi finanziaria dello stato è di vastissime proporzioni sin dalla fine degli anni 70.

Nel lungo termine, lo sviluppo economico storicamente è accompagnato ovunque da una crescita gigantesca del settore pubblico allargato (non solo a livello centrale ma anche locale: amministrazioni, aziende più o meno statali per la produzione e la distribuzione di servizi pubblici, enti ed agenzie ecc.). L’economista tedesco Adolf Wagner ha formulato nel secolo scorso una “legge” in base alla quale il settore pubblico allargato, che è per lo più improduttivo, tende a crescere in modo esponenziale rispetto al tasso di crescita del settore economico produttivo. Le cause ipotizzate dagli economisti per questa crescita dentro al processo di crescita sono molteplici. Si tratta di una discussione molto complessa, tutt’altro che finita, che ho riassunto per semplici cenni semplificativi (MOLTO semplificativi).

Sempre in modo molto semplificativo, dalle discussioni intorno alla c.d. “legge di Wagner” si possono evincere i seguenti fatti stilizzati:

● Una crescita più che proporzionale del settore pubblico allargato tende a limitare seriamente il potenziale di sviluppo economico. La radicalizzazione di questo giudizio conduce all’idea normativa dello “stato minimo”.

● La mancanza di un settore pubblico allargato funzionale tende anche essa a limitare seriamente il potenziale di sviluppo economico. La radicalizzazione di quest’idea conduce all’idea dello “stato sociale”.

● Il settore pubblico allargato deve avere una “dimensione ottima” come qualsiasi altra organizzazione economica. Questa è un’idea NORMATIVA, che si trova realizzata parzialmente in pochissimi stati al mondo, il più grande dei quali è la Svizzera.

In Italia la crescita tendenzialmente più che proporzionale del settore pubblico allargato è stata accompagnata da una corsa forsennata verso “investimenti politici” fallimentari, la cui domanda è stata creata dalla prepotenza su di una società civile arretrata e poco cosciente di sé stessa da parte di un regime oligarchico partitocratico, che, dalla sua nascita nei CLN tra il 1942 e il 1943 fino a maturare in Tangentopoli, ha instaurato la prassi del CLIENTELISMO DI MASSA a sistema di governo invece o sotto le sembianze di una democrazia costituzionale. Questo regime con Tangentopoli è entrato in una crisi finanziaria, che ha a sua volta accelerato la crisi finanziaria della prima repubblika. La prima repubblika non è nata solo dalla lotta della resistenza, come spesso si sente dire, per buona parte è stata (e le sue rimanenze ancora sono) una creatura della Guerra Fredda: è stata pensata e creata per combattere e vincere la Guerra Fredda. Finita la Guerra Fredda, la prima repubblika ha perso la sua ragione primaria di esistenza. Purtroppo non ne ha ancora trovata un’altra. Ma non è l’unico residuato della Guerra Fredda che dà ancora forti rompicapo, ne esiste un altro, che dà rompicapo ancora più forti, la Comunità Europea, l’altra creatura della Guerra Fredda senza più un compito definito, che non sa che cosa fare di sé stessa. Non è un caso che l’Unione Europea venga ancora finanziata con i proventi dell’unione doganale e con contributi diretti degli stati membri sulla base del PIL, e che essa faccia da paravento ai governi nazionali per l’”armonizzazione” dell’IVA e di altre imposte indirette. Un’Unione Europea che venisse finanziata con imposte dirette non potrebbe più essere un’operazione puramente intergovernativa ad esclusivo appannaggio delle partitocrazie degli stati membri, ma dovrebbe saper rendere conto ai Cittadini del mercato comune con ben altri strumenti che il solo Parlamento e la sola Corte dei Conti europea.

Non si tratta di divagazioni sul tema: i sistemi fiscali non sono entità astratte ed indipendenti dalle condizioni politiche interne ed esterne, locali ed internazionali, ma le plasmano e ne sono plasmati a loro volta.

L’esigenza di una democrazia fiscale deriva dalla constatazione di un dato di fatto incontrovertibile: i Cittadini di TUTTI i paesi occidentali più avanzati, a causa della diffusione della cultura e della mentalità democratica risalente al concetto di eguaglianza politica dei Cittadini diffuso dall’Illuminismo settecentesco, percepiscono oramai il fatto fiscale come CONDIZIONALE, ovvero come contribuzione CONDIZIONATA alla resa di servizi della natura più disparata. I sistemi fiscali, massimamente il diritto tributario italiano, invece sono basati sull’incondizionalità più assoluta: ovvero il diritto tributario pretenderebbe di poter legittimare le richieste dello stato SENZA CONDIZIONI di alcun tipo.

In Italia, specialmente dopo la fondazione della repubblica da parte dell’assemblea costituente, assistiamo addirittura ad un peggioramento brutale di questa “cultura” fiscale autoritaria e antidemocratica: la legalizzazione della tassazione sulla base di diffuse presunzioni legali, totalmente gratuite, risultanti dalla sfiducia dello stato nel comportamento fiscale del Cittadino. Il comportamento fiscale del Cittadino a sua volta è dettato dalla sfiducia nel comportamento fiscale delle organizzazioni pubbliche in Italia. Si tratta di un circolo vizioso senza uscita.

Un sistema fiscale incondizionale per poter funzionare veramente, ovvero per essere percepito come socialmente legittimo, deve soddisfare almeno due condizioni:

1)      Chi comanda incondizionalmente sulla contribuzione deve dimostrare di essere in grado di essere almeno tanto bravo o più bravo a raggiungere risultati di chi li raggiunge utilizzando i metodi “volontari” del mercato;

2)      Il modo in cui vengono formati gli obiettivi ritenuti socialmente desiderabili deve essere trasparente, ovvero chiunque dovrebbe POTENZIALMENTE potersi fare un’idea personale di come le risorse comuni si suppone debbano essere utilizzate, come sono state utilizzate e come non dovrebbero più essere utilizzate.

Queste due condizioni (che io ritengo minimali in regimi che pretendono di chiamarsi democratici) non vengono soddisfatte in nessuno dei paesi che si ritengono “democrazie avanzate”. In Italia tuttavia esse vengono soddisfatte ancora meno che altrove. In tutte le democrazie sedicenti avanzate (eccezione fatta sempre per la Svizzera) il sistema fiscale è un corpo estraneo all’interno degli ordinamenti costituzionali democratici, un istituzione sociale che, dall’invenzione dell’autocrazia su questo pianeta, non ha fatto passi evolutivi in avanti (eccetto, come sempre, in Svizzera). Perché? Perché il concetto incondizionale, autocratico di sistema fiscale non è compatibile con il principio fondamentale del costituzionalismo democratico, ovvero che in uno stato costituzionale democratico ogni potere DEBBA essere limitato, analogamente a tutti gli altri poteri (esecutivo, legislativo, giudiziario, costituente). Il potere fiscale in tutte le democrazie avanzate è illimitato, quindi sono illimitati gli errori del suo abuso e illimitate le conseguenze dei suoi abusi.

Qualsiasi stato, sedicente democratico o meno, può accampare diritti di prelievo, di fatto di espropriazione, illimitati sui redditi privati, sul risparmio privato, sulla proprietà privata. Il problema è che l’esercizio di questi poteri illimitati è in conflitto con i principi di controllo del comportamento delle organizzazioni pubbliche sancito dai principi del costituzionalismo democratico, “controlli” che si suppone vengano esercitati per mezzo dei sistemi elettorali. Negli stati autoritari ed autocratici il problema dei controlli elettorali non si pone. Nelle c.d. democrazie avanzate invece si assiste ad uno svuotamento progressivo degli strumenti elettorali come strumenti di controllo dei Cittadini sulla politica e ad un conseguente svuotamento dei principi del costituzionalismo democratico con lo stesso fine generale.

In effetti in Occidente la manipolazione delle costituzioni da parte di chi si suppone dovrebbe essere controllato e delimitato da esse è diventata non più l’eccezione, ma la regola. Con il Trattato Costituzionale Europeo siamo arrivati addirittura al paradosso che la costituzionè stata scritta in una convenzione di cooptati delle partitocrazie europee da chi sarebbe dovuto esserne assoggettato e che lo stesso non abbia neanche previsto alcuna procedura di emendamento che richieda l’iniziativa o l’intervento referendario del Cittadino Europeo, che esiste solo sulla carta del Trattato di Maastricht, ma per il resto non conta assolutamente nulla. Praticamente questo significa una cosa sola: la fine del costituzionalismo democratico, iniziato ca. 200 anni fa con la costituzione americana.

L’Italia ha una tradizione di burocrati miopi, arretrati ed incompetenti che arriva da lontano, ancora prima che essa esistesse formalmente, come minimo le sue radici risalgono fino al Regno di Sardegna. MALGRADO l’esistenza di una democrazia repubblicana formale a partire dal 1948, lo stato italiano a tutti i livelli, da quello comunale a quello nazionale e a quello internazionale, è caratterizzato dallo stesso fattore: l’intrasparenza. Esso è un conglomerato di scatole nere, talora risultanti semplicemente dalla pura e semplice confusione legislativa e organizzativa, talora risultanti da una precisa volontà di oligarchie partitocratiche e delle loro rispettive clientele.

Il dramma della storia post-bellica dell’Italia è che la formazione degli obiettivi ritenuti socialmente desiderabili sono stati selezionati da un sistema partitocratico inserito in un contesto internazionale di “sovranità limitata” in modo del tutto ideologico, sulla base di quello che di volta in volta le burocrazie del giorno hanno voluto far credere alla politica che essa dovesse ritenere fattibile e che cosa no.

In questo modo ha avuto inizio ed è stato sancito de facto, se non de jure, lo scollamento tra la crescita esponenziale del settore pubblico allargato ed i reali bisogni dei Cittadini, dalla vera e concreta domanda di beni pubblici del Cittadino, è stato creato uno stato che produce incondizionatamente più disservizi che servizi e non si trova il verso di fargli imparare a produrre servizi, che impone ai Cittadini il consumo di tutta una serie di servizi non richiesti e che altrimenti non sarebbero richiesti da nessuno, che produce e distribuisce questi suoi servizi per lo più non a clienti “finali” quali sono (o dovrebbero essere???) i Cittadini, ma alle congreghe intermedie, ai partiti stessi e alle loro clientele speciali, ai sindacati e alle loro clientele speciali, ai gruppi di interesse speciali, alle corporazioni e a chi da esso viene eletto a degno della sua attenzione. E’ il regno della pura discrezionalità a discapito dei migliori interessi più generali del Cittadino.

Il Cittadino non ha più alcuna funzione reale in un tale sistema, nessun posto e nessun potere. Esso è ridotto ad organo atrofizzato della costituzione, benché tutti i politici ci raccontino dalla mattina alla sera che fanno quello che fanno per metterlo “al centro” di tutto. Sì, al centro di tutto: ma solo quando lo dicono loro e come lo dicono loro.

Nella seconda repubblika abbiamo assistito (e stiamo ancora assistendo) ad una diatriba inconcludente sui “massimi sistemi”, il cui risultato è stato il seguente: i “minimalisti” nostrani non hanno saputo fare nulla per ridurre la dimensione complessiva del settore pubblico allargato nell’economia e nella società italiana (non sono riusciti neanche a controllare la spesa corrente); i “massimalisti” non sono stati capaci di migliorare percettibilmente la qualità dei (dis-)servizi prodotti e distribuiti dalle organizzazioni pubbliche di uno stato solo sedicente sociale, che di sociale non ha praticamente nulla.

Il risultato è che le Italiane e gli Italiani stanno pagando uno stato divenuto di fatto inutile. L’alfa e l’omega dell’utilità di uno stato per il Cittadino si misura sull’unico “servizio pubblico” non privatizzabile di uno stato: quello della giustizia. Ritengo di non dovermi addentrare troppo in dettaglio per giustificare la mia affermazione, se affermo che non si può più parlare di amministrazione della giustizia in Italia: non esiste una giustizia minimamente funzionante non solo in campo civile e penale, ma anche in campo tributario, in campo amministrativo, addirittura in campo costituzionale. Infatti solo in un paese come l’Italia può accadere che il sistema politico possa lamentarsi dei livelli di conflitto costituzionale causati da una riforma costituzionale (parlo di quella del cd. Titolo V), che avrebbe avuto la pretesa di introdurre un federalismo all’italiana, dimenticandosi però di istituire corti costituzionali regionali. Non esiste alcun federalismo al mondo con una sola ed unica corte costituzionale centrale nella sua capitale e non è possibile alcun tipo di federalismo che si estenda al solo potere legislativo, e non invece anche al potere giudiziario, al potere esecutivo e al potere costituente.

Come uscire da questa situazione?

La via di uscita esiste, è nota, si chiama federalismo fiscale. L’establishment politico della seconda repubblika se ne è accorto e dice di volerlo realizzare anche in Italia. Se però andiamo ad analizzare dettagliatamente che cosa è il federalismo fiscale italiano, sarà facile accorgersi alla fine che non è né niente di federalistico né tantomeno qualcosa di più democratico del sistema fiscale che esiste già.

Non c’è niente di male: infatti l’Italia non è (ancora) formalmente, costituzionalmente uno stato federale, anche se ormai la via segnata è ineluttabile. Perché e come fa uno stato che non è federale ad avere un sistema fiscale che assomigli anche solo alla lontana ad un sistema fiscale federalistico? E’ ovvio che non si può avere federalismo fiscale in uno stato che non è federale così come è vero che non si può avere federalismo senza federalismo fiscale autentico. Il federalismo fiscale all’italiana ovviamente non è l’unico tipo di federalismo fiscale possibile, ne esistono altri.

Esiste in particolare un federalismo fiscale di tipo radicalmente democratico, che funziona, che è rodato da un’esperienza storica ormai centenaria, quello svizzero, ma, guarda caso in Italia non ne parla nessuno. Infatti in Italia la predominanza della partitocrazia sulla società civile e sui suoi migliori interessi è andata a selezionare il tipo di federalismo fiscale meno democratico e più burocratico che esista in Europa, quello tedesco, e l’ha battezzato a modello del federalismo fiscale tout court.

Purtroppo sia l’opinione pubblica “informata”, ovvero i tecnici, i professori ecc., sia ovviamente i politici, anche i sedicenti federalisti leghisti, non parlano del modello di federalismo fiscale svizzero. Ci sono buoni, ottimi motivi (per loro) per cui non se ne parla. Tutto questo non sta succedendo per caso, ma dipende dal fatto che in Germania esiste un’incultura partitocratica al potere dal 1948, che ha imposto la sua predominanza alla società civile tedesca indipendentemente dai suoi meriti e che non ha voluto e non vuole che il federalismo fiscale tedesco fosse di tipo democratico. Dal punto di vista del Cittadino invece è tutto il contrario. Non succede di rado che dal punto di vista del Cittadino molte cose appaiano diversamente, molto diversamente, da come appare dal punto di vista del “politico professionista”, del partitocrate.

Il federalismo fiscale svizzero non è un modello né minimalista, né massimalista. E’ un modello che lega fortemente la dimensione del settore pubblico allargato alla disponibilità a pagare per beni pubblici da parte del Cittadino, come il Cittadino fa normalmente nell’ambito del mercato. Inoltre è un sistema competitivo, quanto consente più concorrenza fiscale di quanto non consenta il sistema fiscale americano (non parliamo di quello italiano). Il controllo dei risultati degli agenti politici non si limita al fatto elettorale, ma ad un complesso gioco di pesi e di contrappesi realizzato per mezzo di referendum fiscali obbligatori e dello strumento delle iniziative di legge popolari.

Siccome a questo punto dovrei citare molta farina che non è del mio sacco, in allegato invio alcuni link a documenti scritti da Bruno Frey e da altri collaboratori dell’Istituto di Ricerca Economica Empirica dell’Università di Zurigo, la cui figura leader è Bruno Frey e che bisognerebbe leggere prima di continuare a leggere queste mie note.

La possibilità di mettere in opera a qualsiasi livello operativo di uno stato federale iniziative legislative popolari in modo relativamente facile può sbaragliare le agende politiche preconfezionate dalle segreterie dei partiti e contribuire a cambiare, precisare, far maturare gli obiettivi da ritenere socialmente desiderabili. Questo a che cosa serve? Serve ad impedire che i “politici di professione” formino con successo un cartello contro l’economia e contro la società civile e che ne possano estrarre da esso delle “rendite di posizione” all’infinito. Questo è precisamente quello che è successo in Italia: abbiamo 400,000 persone ca. che “vivono” esclusivamente di redditi e pensioni “politici” e ca. 5,5 milioni di addetti ad un settore pubblico allargato sostanzialmente improduttivo o dalla produttività in fortissima regressione, che vivono dei redditi e delle pensioni prodotte da una forza lavoro privata media annua di 11 milioni di persone.

L’esistenza di una concorrenza tra società civile ed establishment politico è altrettanto vitale quanto sui mercati economici.

Eppure anche in Svizzera ci sono partiti politici “come” in Italia, uno stato sociale “come” in Italia, una democrazia rappresentativa parallela a quella diretta come ci sarebbe potuta essere ANCHE IN ITALIA se, chi ha concretato le norme referendarie della costituzione della prima repubblika, avesse consentito il formarsi di strumenti di controllo della partitocrazia attraverso la democrazia diretta non falsi, inutili come quelli che abbiamo, ma veramente efficaci, funzionanti. Il modo come sono stati realizzati gli strumenti referendari in Italia non hanno assolutamente nulla a che fare con le esigenze di realizzare un sistema di limited government e di controllo puntuale del sistema politico da parte del Cittadino, sono stati semplicemente motivati dall’esigenza di continuare ad imporre vincoli ideologici sulla società civile italiana. La legge 352 del 1970, con cui è stato “concretizzato” il mandato costituzionale all’istituzione dei referendum popolari ed alle iniziative legislative popolari con 22 anni di ritardo, è stata fatta dalla Democrazia Cristiana, più precisamente da Giulio Andreotti, per impedire che in Italia venisse introdotta la legge sul divorzio, legge che poi è stata introdotta egualmente. Il giudizio di ammissibilità costituzionale di referendum è un istituto privo di qualsiasi fondamento costituzionale, tale da rendere la legge 352 incostituzionale in toto, eppure nessuno l’ha mai sottoposta all’attenzione della Corte. Esistendo oramai una prassi pluridecennale deviata dallo standard costituzionale è anche poco probabile che la Corte Costituzionale oggi sarebbe disposta a spogliarsi di questo orpello in nome del “political self-restraint”. Quindi, ci deve essere una forza esterna in grado di toglierglielo.

Le varie possibilità di indire referendum fiscali a tutti i livelli di governo dà ai Cittadini la POSSIBILITA’, se e quando necessario, di prendere il coltello dalla parte del manico anche quando si parla di soldi, non solo di voti. Ma questo non basta: in molti cantoni si fanno anche referendum per decidere sulla legittimità del fare debiti. Il nostro modello di federalismo, che consente ora a regioni e a comuni di emettere titoli per fare “investimenti”, è proprio il tipico esempio di lezione non imparata da parte di una classe politica, che d’altronde non ha mai imparato nulla da niente e da nessuno: infatti l’idea che delle organizzazioni pubbliche aduse a vivere in un ambiente economico “distorto” e a comportarsi in modo anti-economico possano però selezionare gli investimenti, che potranno avere successo o che meglio collimano con i bisogni e le aspettative dei Cittadini, se non è ridicola, almeno è molto fantastica. Ma questa fantasia E’ LEGGE DELLO STATO, è una delle tante leggi fantastiche, completamente campate in aria, di questo stato.

La democrazia fiscale può essere un ottimo strumento per distruggere le fantasie, che attualmente sono “leggi dello stato” prodotte dal regime partitocratico della prima repubblika e che impediscono l’avvento di un sistema fiscale più congruo con i principi fondativi del costituzionalismo democratico, ovvero con il concetto di limited government. Ma non sarà lo strumento che porterà il paradiso in terra. E’ solo uno strumento che ci può far fare qualche passo in avanti rispetto all’inferno fiscale italiano.

La democrazia fiscale non è un posto dove non si pagano le tasse (l’aliquota di 0% non esiste, in quanto il principio di condizionalità fiscale fa capire al Cittadino che essa è associata ad un livello di produzione di beni pubblici pari a zero; cfr. Howard Bowen: The Interpretation of Voting on the Allocation of Economic Resources, Quaterly Journal of Economics 4, 1964), ma un posto dove il Cittadino è coinvolto al massimo livello anche nella definizione degli obiettivi socialmente desiderabili e nel controllo che essi rientrino realmente all’interno delle risorse collettive realmente esistenti. L’eventualità di un’aliquota 0% è un problema solamente in un sistema fiscale caratterizzato dal monopolio monolitico del Leviatano su una società in cui esistono solo imposte a livello centrale e la legislazione tributaria è totalmente centralizzata: in uno stato federale fortemente decentrato, in cui i Cittadini di una giurisdizione hanno ANCHE il diritto di votare un’aliquota dello 0% su una certa imposta (sto supponendo, come nella maggior parte degli stati federali, che esistono imposte dirette nazionali e locali SEPARATE, come anche imposte indirette nazionali e locali SEPARATE, oppure imposte locali SEPARATE, su cui il potere centrale non ha competenze legislative in materia né tributaria né di “sostanza”), la cosa HA UN SENSO: ovvero i Cittadini possono non volere più finanziare una certa attività pubblica perché o non ne hanno più bisogno o hanno trovato un altro modo, migliore per finanziarla. Il Cittadino deve anche avere il diritto di votare aliquote dello 0% in uno stato federale con un VERO FEDERALISMO FISCALE.

Ovviamente in una democrazia semi-diretta con forti competenze fiscali assoggettate ad un regime referendario OBBLIGATORIO il Cittadino ha molto più potere di contribuire alla formazione degli obiettivi socialmente desiderabili che non in una democrazia puramente rappresentativa, dove i rappresentanti sono abituati a pensare prima per loro e poi per gli altri, soprattutto poiché nel lungo termine è facile dimostrare che la “politica di professione” si può permettere questa inversione di ruoli solamente perché non c’è nessuno che sia in grado di impedirglielo efficacemente.

Se la concorrenza fiscale deve produrre effetti REALI, il Cittadino deve avere anche il diritto di assegnare risorse pari a 0 ai progetti che non ritiene veramente necessari. Vista l’esperienza con alcuni risultati referendari in Italia, piuttosto il problema si sposta sul piano dell’attuabilità di certe decisioni, come quella sul finanziamento pubblico dei partiti o dell’abolizione del ministero dell’agricoltura. Ci devono essere regole e procedimenti costituzionali con i quali i Cittadini, se necessario, possano piegare dei rappresentanti riottosi, che continuano a dare la priorità agli interessi propri invece che a quelli dei Cittadini. Devono essere poteri REALI, protetti costituzionalmente, attuabili se necessario anche con la forza. Senza un potere realmente intimidatorio nelle mani dei Cittadini, un sistema politico aduso a non dover rendere conto, troverà sempre modi e maniere di scampare alle proprie responsabilità.

Per fare questo, OLTRE che dello strumento del voto, il Cittadino ha bisogno ANCHE di poter controllare il rubinetto dei soldi, di chi li incassa e di chi li spende, sia direttamente sia indirettamente.

Ovviamente, mi rendo conto dell’ingenuità della semplice richiesta di “trasporre” o di imitare o di copiare il federalismo fiscale in Italia, specie nell’Italia nelle presenti condizioni economiche e politiche, anche perché il tipo di democrazia fiscale che io ritengo necessario per l’Italia (ma potrei anche dire per l’Unione Europea o per i suoi stati membri), in verità va ben al di là del modello di federalismo fiscale svizzero. Ancora più ingenuo potrebbe sembrare che io ritengo che il sistema della democrazia fiscale svizzera dovrebbe essere realizzato prima nel Mezzogiorno d’Italia che non nel Nord.

L’ingenuità non consiste tanto nel voler copiare di punto in bianco un sistema fiscale che si è evoluto in diversi secoli e volerlo metterlo in atto in un paese dove il Cittadino medio è diventato psicologicamente dipendente da un potere, che lo costringe ad essere irresponsabile per sé stesso e per i suoi Concittadini fin dal 1861, ma al massimo dal richiedere un tipo di democrazia fiscale che va anche al di là di quella che esiste in Svizzera.

La mia proposta perde la sua ingenuità quando disegna un percorso PROGRESSIVO, che ha come obiettivo finale un sistema fiscale basato su strumenti democratici DIVERSI da quelli puramente rappresentativi e/o coattivi. So bene che nessun sistema fiscale può essere puramente volontario, ma sono anche certo che qualsiasi strumento che aumenta la partecipazione e la responsabilità fiscale dei singoli dovrebbe essere attuato con priorità rispetto agli aspetti coattivi e sanzionatori del sistema fiscale. Questa è cosa buona e giusta SE SI VUOLE PRESERVARE IL COSTITUZIONALISMO DEMOCRATICO in Occidente, in quanto lo sviluppo economico e sociale dell’Occidente dal 1780 in poi è stato reso possibile solamente dall’assottigliamento progressivo della presa sulla società e sull’economia da parte delle monarchie e delle aristocrazie, che hanno “retto” le sorti dell’Occidente in una storia millenaria, troppo spesso fatta solo di guerre, ma soprattutto di arbitrarietà nell’esercizio del potere, specialmente del potere fiscale, che ha tolto alla società e all’economia le risorse per svilupparsi e per distribuire a quote crescenti della popolazione il prodotto delle attività economiche.

Un processo di passaggio da un regime di inferno fiscale ad un regime di democrazia fiscale può essere tracciato in questo modo:

1)      Riforma per mezzo di una legge di iniziativa popolare della legge 352/1970 sui referendum e sulle iniziative legislative popolari:

-         Rimozione degli attuali limiti costituzionali e di diritto pubblico all’assoggettamento delle norme tributarie a livello nazionale, regionale e locale ad un regime di referendum popolari obbligatori su tutte le materie di bilancio, fiscali, finanziarie e tributarie; abolizione delle pregiudiziali di costituzionalità referendaria e dei quorum attuali;

-         Assoggettamento dei trattati internazionali ad un regime di referendum popolari obbligatori: divieto di ratifica di trattati internazionali approvati da meno di 2/3 dei votanti;

-         Assoggettamento delle iniziative legislative popolari a requisiti di firme minimi e di approvazione a maggioranze qualificate dei VOTANTI (e non degli aventi diritto) di almeno 2/3;

-         Possibilità di approvare con una maggioranza di 2/3 dei votanti iniziative di legge popolare, che non vengano passate dagli organi legislativi locali, regionali e nazionali entro tre mesi dalla loro presentazione agli organi legislativi;

-         Diritto di veto popolare contro proposte di legge comunali, regionali e nazionali su iniziativa del 2% degli aventi diritto al voto approvata dai 2/3 dei votanti;

-         Diritto di revoca: su iniziativa del 2% degli aventi diritto al voto e con approvazione dei 2/3 dei votanti i Cittadini possono revocare il mandato a chiunque individualmente riceva stipendi, compensi o pensioni da organizzazioni pubbliche o ai membri di interi organi costituzionali e sostituirli, fatta eccezione per gli organi giudiziari;

-         Iniziativa costituente popolare esclusiva: La convocazione di assemblee costituenti viene riservata esclusivamente al corpo elettorale a livello comunale, regionale e nazionale e viene esercitata su iniziativa a firma del 2% degli aventi diritto al voto e approvata dai 2/3 dei votanti. Le iniziative popolari di emendamento e le iniziative popolari di revisione costituzionale totale sono assoggettate a referendum popolari obbligatori e approvate dai i 2/3 dei votanti.

-         Istituzione del corpo di Polizia Amministrativa alle dipendenze delle Corti dei Conti, con poteri anche sulle organizzazioni internazionali di cui è membro l’Italia;

-         Divieto per 5 anni di poter portare avanti iniziative legislative da parte di organi legislativi locali, regionali e nazionali su materie sottoposte con successo a referendum popolare, anche da parte di organizzazioni internazionali;

-         Riforma della Corte dei Conti: istituzione di corti dei conti indipendenti a livello municipale, regionale e nazionale; elezione diretta di un terzo dei giudici contabili delle Corti dei Conti di primo grado (municipali); elezione diretta della metà dei giudici contabili delle Corti di secondo grado (regionali). Nomina di un terzo dei giudici contabili riservata a referendum confermativo popolare. Istituzione di Giurie Popolari a fianco dei giudici contabili di tutti e tre i livelli.

-         Azione di impeachment presso la Corte dei Conti competente nei confronti degli organi, che di fatto o di diritto non attuano decisioni referendarie legittimamente prese; possibilità di infliggere sanzioni concrete sulla base di un codice di polizia amministrativa;

-         Abolizione delle Commissioni Tributarie ed istituzione di un Tribunale fiscale indipendente a tre livelli (municipale, regionale, nazionale) con Giurie Popolari a fianco dei giudici fiscali ad ogni livello;

-         Introduzione della corresponsabilità civile e penale personale per i debiti delle organizzazioni pubbliche su chiunque riceva stipendi, compensi e pensioni pubbliche;

-         Introduzione della pena dell’esilio per chi commette atti gravissimi contro l’amministrazione pubblica;

-         Istituzione di assemblee costituenti permanenti a livello comunale, regionale e nazionale:

-         Trasferimento delle competenze legislative in materia di bilancio, fiscali e tributarie dagli organi legislativi comunali, regionali e nazionali alle assemblee costituenti permanenti; riserva di legge ASSOLUTA da parte delle assemblee costituenti permanenti con referendum confermativi popolari obbligatori con la maggioranza dei 2/3 dei votanti sulle seguenti materie:

                                                               i.      legislazione quadro sulle imposte dirette, indirette e sulle imposte reali;
                                                             ii.      legislazione quadro sui tribunali fiscali, sulle corti dei conti e sul codice di polizia amministrativa;
                                                            iii.      legislazione quadro sulle corti costituzionali;
                                                           iv.      legislazione sul finanziamento dei partiti politici;
                                                             v.      legislazione quadro sui compensi e sulle pensioni degli addetti del settore pubblico allargato, inclusi gli addetti del potere giudiziario, del potere legislativo e del potere esecutivo;
                                                           vi.      legislazione di rango costituzionale;
                                                          vii.      leggi elettorali;
                                                        viii.      leggi quadro sulla libertà di accesso ai sistemi informatici pubblici;
                                                           ix.      legislazione quadro sulle procedure di emendamento e di revisione costituzionale totale;
                                                             x.     

-         Istituzione di una sezione speciale della Corte Costituzionale con il compito di proporre a referendum popolari l'espunzione, la semplificazione, la ri-scrittura in un italiano comprensibile del corpus del diritto pubblico italiano;

2)      Formazione di assemblee costituenti regionali, nazionali e sopranazionali PERMANENTI: Pur escludendo tutti i tipi di ordinamenti costituzionali autoritari, l’insieme delle possibili costituzioni democratiche compatibile con i principi guida del costituzionalismo democratico rimane pur sempre più che enumerabile. Come selezionare costituzioni ed emendamenti costituzionali? La mia proposta consiste in questo: votare su proposte di disegni costituzionali COMPLETI, l’iniziativa sui quali andrebbe riservata al popolo ed alle associazioni libere della società civile, sottoponendola a referendum confermativi OBBLIGATORI, invece che su partiti e delegati, che poi devono negoziare una costituzione, che non sanno come attuare, come è successo alla costituzione italiana del 1947. La soglia di accesso per un’iniziativa costituzionale o per una proposta di emendamento dovrebbe essere “bassa”, per esempio raccogliere il 2% di firme degli aventi diritto al voto entro un tempo ragionevole, diciamo 3-4 mesi. La soglia di approvazione in un referendum confermativo obbligatorio invece dovrebbe essere “alta”, ovvero “tendenzialmente” unanime, unanimità irraggiungibile ma asintoticamente approssimabile tramite la regola dei 2/3 che VOTANO (e non sugli aventi diritto). Concretamente, un processo costituzionale si configurerebbe come un torneo, in cui proposte costituzionali verrebbero votate due a due fino all’eliminazione delle proposte che prendono meno voti. Tali tornei andrebbero svolti ad ogni livello di governo: comunale, cantonale, federale ed internazionale (o sopranazionale). Le assemblee costituenti dovrebbero essere formate contestualmente alla vittoria di una proposta costituzionale. Ad esempio, i delegati all’assemblea costituente possono essere eletti a seguito di elezioni primarie sulla base di un pool di candidati nominati dalle associazioni promotrici della proposta vincente con un criterio puramente maggioritario. Le assemblee costituenti permanenti dovrebbero essere molto piccole, con 15-21 membri max. e nominate per periodi molto lunghi 15 o 20 anni onde stabilizzare nel lungo termine l’attuazione delle costituzioni così selezionate.

Assemblee costituenti permanenti devono avere a loro disposizione strumenti amministrativi in grado di comunicare loro le informazioni sulle funzioni e sulle disfunzioni della cosa pubblica e di strumenti efficaci per l’attuazione dei principi costituzionali OLTRE le Corti Costituzionali (uso il plurale, in quanto ovviamente sto considerando un ordinamento federale, in cui ogni livello di governo ha una propria corte costituzionale e non una sola per tutto e tutti come in questo pseudo-federalismo da straccioni che viene ipotizzato in Italia). Ogni livello di governo deve essere dotato di tributi propri e completamente separati gli uni dagli altri (niente compartecipazione al gettito fiscale, che è contraria al federalismo fiscale), sui quali deve rendere conto a livelli diversi di governo ai cittadini contribuenti per mezzo delle Corti dei Conti, che andrebbero riformate in modo da produrre informazioni economiche, politiche e contabili per la valutazione delle decisioni politiche non solo ex post, ma anche ex ante. Le Corti dei Conti, ai vari livelli di governo, dovrebbero avere a disposizione un corpo di Polizia Amministrativa in grado di reprimere efficacemente sia ex post sia ex ante sprechi, malversazioni e inefficienze nella cosa pubblica.

Il vantaggio principale dell’uso di tornei costituzionali è questo: le costituzioni non sono delle semplici “norme” di principio o delle norme più o meno giustiziabili da parte di corti costituzionali, hanno un’importantissima DIMENSIONE COMUNICAZIONALE, che è di gran lunga più importante delle due precedenti che ho menzionato. La dimensione comunicazionale delle costituzioni è ciò che rende una costituzione vivente all’interno del tessuto istituzionale e sociale, ovvero un Patto Sociale funzionante ed operativo. E’ mettendosi nella posizione della ricerca collettiva e della sottomissione di ciascuno e di tutti alle medesime regole di convivenza e di valutazione dei processi e dei risultati dei processi politici che i cittadini cominciano ad astrarre le loro posizioni particolari, ideologiche e contingenti e si mettono tendenzialmente sulla strada di adottare regole imparziali condivisibili da “chiunque”.

Il Patto Sociale per me è un Patto che si realizza giorno per giorno nel dialogo della società con le proprie istituzioni e i propri principi costituzionali e trai Cittadini stessi, un dialogo continuo, dinamico, che rimane aperto al cambiamento, che tende ad includere quanti più interessi generali possibili, che consente di prendere quante più decisioni collettive possibili, ma non all’insaputa o senza possibilità di difesa da parte del Cittadino. Può essere un dialogo all’inizio convulso, ma, nel medio e nel lungo termine, fruttuoso, in quanto responsabilizza in prima persona i Cittadini e in cui i Cittadini POTENZIALMENTE hanno e mantengono, tramite assemblee costituenti permanenti e la democrazia fiscale, il coltello dalla parte del manico.

Come dimostra il sistema politico della Svizzera, nella maggioranza dei casi non c’è neanche bisogno che il Cittadino eserciti fattivamente i suoi diritti. La sola possibilità agisce in modo inibitorio sui “politici di professione”.

La democrazia rappresentativa in questo disegno costituzionale può, sostanzialmente, restare intatta, verrebbe solamente delimitata ed integrata da una democrazia fiscale semi-diretta. Ovviamente in un tale ordinamento verrebbe a mancare totalmente la base per la crescita incontrollata, ovvero ALL’INSAPUTA o CONTRO gli interessi economici della maggioranza dei Cittadini, del settore pubblico allargato, che vediamo espletarsi nell’intrasparenza dei sistemi tributari della storia d’Italia (e di altri paesi), nello strapotere delle oligarchie improduttive e negli sprechi di massa megagalattici di risorse che osserviamo nel debito pubblico e nel debito pensionistico implicito nel nostro paese e di altri.

A livello internazionale o sopra-nazionale un tale sistema costituzionale abolirebbe istantaneamente il problema fondamentale dell’instabilità economica e politica tra gli stati, in quanto eliminerebbe le basi economiche per l’uso del monopolio della violenza da parte del Leviatano nei confronti di altri “stati” (ovvero altri Cittadini). Questa è la precondizione fondamentale per il sorgere di una o più repubbliche sovranazionali non semplicemente sovrapposte alle megalomanie e alle vanità degli stati così come li conosciamo noi, ma rispondenti alla risoluzione dei problemi sociali e politici internazionali concreti dei Cittadini. Una volta affermatosi a livello locale, ritengo un tale sistema si potrebbe affermare “rapidamente”, forse nel giro di un centinaio di anni, anche a livello internazionale o sopranazionale. La UE , come la conosciamo oggi e come ci è stato proposto di “costituzionalizzarla” nel Trattato Costituzionale, è l’esatto contrario di quello di cui i Cittadini europei avrebbero bisogno.

In Svizzera le corti dei conti non giocano un ruolo importante, infatti non esistono. In Italia sì, ma sono delle tigri di carta.

Nella mia proposta di “programma per la democrazia fiscale” per l’Italia invece ad esse compete un ruolo assolutamente determinante. Perché? Come dicevo più su, una delle condizioni che deve poter soddisfare un sistema fiscale compatibile con il costituzionalismo democratico, ovvero un sistema di governo LIMITATO, è la sua trasparenza. La trasparenza essenzialmente è un problema di informazione (ovvero di disinformazione o di anti-informazione). Perché l’operato delle organizzazioni pubbliche, dall’ATM all’USL all’Unione Europea, appaiono intrasparenti ai Cittadini? Perché sono troppo complesse? Non solo, soprattutto perché producono tutta una quantità di informazione destinata ai “soliti noti”, che i comuni mortali non vedono mai, come i reali costi della produzione dei “servizi” pubblici. Ma non l’avranno mai perché qualcuno non vuole fargliela avere oppure perché quest’informazione non è disponibile?

Ovviamente in quanto c’è qualcuno che non vuole fargliela avere. Le istituzioni politiche della democrazia rappresentativa, come TUTTE le istituzioni politiche, sono dei “filtri”, esse filtrano le preferenze e la domanda di beni pubblici dei cittadini al fine di sottoporle a meccanismi di decisione collettiva organizzati in procedure come quelle parlamentari o burocratiche. Ma esse sono e restano sempre dei FILTRI. Quindi: esistono sempre preferenze e domande che per DEFINIZIONE non verranno mai considerate come “degne” di essere sottoposte a meccanismi di decisione collettiva (voto). Quando poi questi meccanismi di decisione collettiva sono “guidati” (si fa per dire) da organizzazioni oligarchiche di potere quali sono i partiti politici, allora è chiaro che su qualsiasi preferenza o domanda che esce dallo schema F della partitocrazia viene disteso il velo del silenzio più impietoso.

Questo è il motivo per cui ANCHE NELLE PIU’ ANTICHE ED AVANZATE DEMOCRAZIE DELL’OCCIDENTE esiste una massa di insoddisfazione politica ed economica causata dal funzionamento e dal mal-funzionamento del sistema politico così spaventosa, in quanto in esse sono insiti meccanismi, che tendono a diventare vere e proprie condanne al silenzio, all’annullamento dell’opinione. E’ in questo senso che esse si possono trasformare in vere e proprie fabbriche dell’ipocrisia ed è in questo senso, che, se non si accorgono degli iceberg verso i quali si stanno dirigendo, rischiano di fare la fine del Titanic.

Il problema della trasparenza dell’informazione sui processi e sui risultati dei processi politici non è solo qualitativo, ma anche quantitativo. La stampa e i mass media già veicolano una massa impressionante di notizie, ma, a guardare bene, sono tutte brutte copie le une delle altre. Eppure questo non basta, in quanto questi strumenti sono “distorti” per vari motivi, soprattutto a causa dell’influenza diretta ed indiretta degli interessi di potere oligarchici nel controllo dell’informazione.

Come se ne esce? Non certo con la TV digitale, che è destinata a diventare certamente lo strumento finale del controllo totale della vita privata da parte delle organizzazioni pubbliche. Se ne esce solamente creando delle nuove fonti di informazione, la cui capacità di guardare in “profondità” all’interno dei processi politici possa essere virtualmente infinita e che siano in grado di comunicare questa informazione in modo virtualmente continuo, 24 x 24, 7 giorni su 7. Ovviamente, sulla base di certe regole di ingaggio e di certe regole decisionali: dal sapere occorrerebbe infatti passare al potere, ovvero all’azione incisiva sulla realtà.

A mio avviso le istituzioni più appropriate per fare questo dovrebbero essere appunto le corti dei conti, che hanno già alcuni poteri di controllo ex ante ed ex post, ma che sono completamente insufficienti rispetto ai requisiti dell’informazione politica ed economica imposti da una democrazia fiscale. Le corti dei conti nella mia concezione di democrazia fiscale dovrebbero avere il ruolo di “custodi” di un sistema informativo, che io chiamo (per sdrammatizzare) lo “stato-scopio”, che sostanzialmente è uno strumento informatico che espone a vari livelli di analiticità informazioni su tutte le transazioni finanziarie, sui costi e sui benefici prodotti dalle organizzazioni pubbliche. Ovviamente dovrebbero esistere corti dei conti locali, regionali (o cantonali) e nazionali (e sopranazionali, che esistono già, ma appunto con poteri di controllo troppo limitati).

I vari “statoscopi” dovrebbero consentire a qualsiasi Cittadino di accedere in tempo reale a tutte le informazioni sui costi, sulle entrate, sugli impieghi e sulle uscite di qualsiasi organizzazione pubblica, dal comune e la USL ai partiti e ai sindacati, dai consigli regionali e i parlamenti fino all’Unione Europea, dall’INPS alle partecipazioni statali, regionali o delle camere di commercio. Tutto ciò che è connesso alla redazione di bilanci pubblici dovrebbe essere TOLTO DALLA COMPETENZA DI ASSEMBLEE LEGISLATIVE, ma soprattutto essere SOTTRATTO AL POTERE ESECUTIVO e l’istruttoria dei bilanci pubblici essere fatta da appositi uffici presso le corti dei conti. L’approvazione dei bilanci dovrebbe avvenire per mezzo di votazioni elettroniche referendarie direttamente da parte dei Cittadini. Al fine di ottimizzare l’utilizzazione di questi strumenti, i bilanci non dovrebbero essere più annuali, ma per intere legislature (4-5 anni). L’utilizzo dello statoscopio come strumento real-time infatti consente di fare una cosa che gli attuali sistemi di finanza pubblica non consentono o consentono in modo molto limitato (e che è IL VERO SCOPO DELLA DEMOCRAZIA FISCALE): ovvero il CONTROLLO DELLA QUALITA’ PERCEPITA delle decisioni pubbliche direttamente da parte dei Cittadini.

Oramai è una prassi abbastanza diffusa anche nel settore pubblico fare rilevazioni della cosiddetta “citizen satisfaction”, altrimenti note anche come “public audit”, che misurano quantitativamente la qualità percepita dei servizi pubblici. Che informazione producono queste rilevazioni? Queste rilevazioni consentono di misurare statisticamente la qualità percepita da parte degli utenti di servizi pubblici del VALORE di questi servizi. Finora si tratta di poco più che di curiosità, in quanto molto spesso le analisi di Citizen Satisfaction non vengono rese pubbliche o sono totalmente volontarie. In un sistema fiscale basato sulla democrazia fiscale invece i risultati di bilancio verrebbero controllati sempre con rilevazioni elettroniche – MA OBBLIGATORIE –  ogni 3 o 6 mesi o ogni anno, in ogni caso ripetutamente. Che cosa si valuterebbe? Essenzialmente due cose: le persone e i risultati dei procedimenti di attuazione delle decisioni pubbliche. Le persone che sono preposte ad attuarle verrebbero giudicate da chi di competenza, ovvero non da “Nuclei di Valutazione” interni chiusi in torri d’avorio come previsto attualmente dal diritto pubblico italiano, ma dai Cittadini. Le organizzazioni pubbliche non lavorano per dei “Nuclei di Valutazione”, ma per il Cittadino. Almeno: si SUPPONE, che dovrebbero lavorare per il Cittadino. Le rilevazioni di Citizen Satisfaction servono a MISURARE QUANTO per il Cittadino e QUANTO per altri.

Molti media, tra cui molte trasmissioni di giornalismo investigativo, spesso producono informazioni simili a quelle che verrebbero prodotte sistematicamente con un meccanismi di questo tipo. Spesso tuttavia non raggiungono molto di più che suscitare sdegno nell’opinione pubblica, rimangono senza conseguenze pratiche. Delle rilevazioni periodiche obbligatorie della Citizen Satisfaction, se collegate a regole costituzionali che OBBLIGANO chi di dovere a prendere delle misure, avrebbero il benefico effetto di fare seguire fatti alle parole. Le conseguenze immaginabili possono essere di vario tipo. Ad esempio possiamo pensare da conseguenze punitive (una regola può dire: un esecutivo che non raggiunge dopo tre periodi consecutivi l’obiettivo di raggiungere almeno un 7 di Citizen Satisfaction da parte di almeno il 66% degli aventi diritto al voto in una certa giurisdizione, si deve dimettere) a conseguenze che premiano certi comportamenti. Uno di questi comportamenti è la minimizzazione dei costi delle organizzazioni pubbliche sui contribuenti.

Come si può OBBLIGARE un sistema politico a seguire politiche di minimizzazione dei costi di produzione e di distribuzione di servizi pubblici?

Dalla ribellione fiscale avvenuta in California contro le imposte sulla proprietà immobiliare avvenuta negli anni 70, in molti stati americani sono state adottate delle “TELs”, ovvero “tax expenditure limitations”, norme costituzionali che limitano le aliquote applicabili a certi tipi di imposte. Così nelle proposizioni 12 e 13 della costituzione della California le imposte reali sugli immobili vengono LIMITATE ad un’aliquota massima dell’1%. Le contee possono applicare l’aliquota che vogliono, ma non oltre l’1%. Ciò tuttavia non è bastato per tenere più sotto controllo la spesa pubblica dello stato della California negli anni 80 e 90, che hanno visto l’INVENZIONE di nuove imposte da parte sia di organi di governo locali sia dello stato della California. TELs simili a quelle della California sono state introdotte nelle costituzioni di quasi tutti gli stati americani, tuttavia non a livello federale.

Le TELs agiscono sul lato delle entrate, ma è immaginabile anche introdurre norme costituzionali sulla riduzione della spesa, ad es. una norma COSTITUZIONALE che obbliga qualsiasi organizzazione pubblica a ridure diciamo del 3% o del 5% l’anno i propri COSTI (attenzione: ho detto COSTI, non spese !!!). Questo presuppone non solo che esista un’informazione pubblica sui COSTI reali di produzione dei servizi pubblici, ma che il non raggiungimento di questi obiettivi di COSTO abbia delle conseguenze tangibili su chi è responsabile per la gestione delle organizzazioni pubbliche.

Ovviamente norme di questo tipo per avere senso devono essere concepite con un solo obiettivo: la loro giustiziabilità. Solo norme costituzionali realmente giustiziabili e accompagnate da sanzioni appropriate possono avere l’effetto intimidatorio richiesto dai Cittadini per avere un effetto di reale prevenzione sui comportamenti anti-economici delle organizzazioni pubbliche.

Tuttavia, anche ammettendo che queste norme costituzionali esistessero e che potessero essere tutte giustiziabili (e che le corti costituzionali in effetti le applicassero), questo ancora potrebbe non bastare per mantenere il livello dei COSTI di produzione e di distribuzione dei beni pubblici, che i Cittadini ritengono necessariamente dover essere prodotti dallo stato, al livello minimo.

Nell’economia privata il meccanismo che obbliga le istituzioni del mercato, ovvero le aziende, a minimizzare i costi è il fatto del tutto fisiologico che le aziende che non fanno profitti vengono spinte dalla concorrenza fuori dal mercato. Le istituzioni dei mercati politici di stati basati sul concetto di monopolio della violenza, come voleva Hobbes, o sul monopolio della produzione del diritto pubblico, come le nostre partitocrazie, anche se fanno perdite, non possono per definizione essere “spinte fuori dal mercato”, ovvero smembrate e riciclate in altro, di solito non si può far loro altro che aspettare che la prossima rivoluzione le lavi via. Il sollievo tuttavia sarà solo temporaneo, se dopo la rivoluzione si torna semplicemente alla formazione di monopoli o alla formazione di nuovi oligopoli, di nuovi cartelli politici, magari con altri nomi.

La fine della prima repubblika è stata esattamente questo: la sostituzione di un cartello partitocratico con un altro, che non ha saputo incidere affatto sui fattori realmente importanti per i Cittadini italiani, che avessero potuto migliorare i livelli di produzione e di distribuzione dei beni pubblici fa parte dello stato italiano, per non parlare della loro qualità.

In Italia si tende erroneamente a credere, ovvero: LA CLASSE POLITICA TENDE A VOLER FAR CREDERE AL CITTADINO che la concorrenza fiscale sia sempre qualcosa di negativo, di indesiderabile. L’Italia è anche stata la promotrice di iniziative internazionali volte ad impedire la concorrenza fiscale anche a livello internazionale con la scusa di voler colpire i c.d. “paradisi fiscali” con una apposita convenzione OCSE. Le differenze di COSTO nella produzione e nella distribuzione di beni pubblici non sono illegali, sono assolutamente possibili, non solo, ma addirittura benefiche. Bisogna rendersi conto che la fobia tutta italiana nei confronti della concorrenza fiscale è il punto di vista di UNA PARTE, di una CLASSE, di una CLASSE niente affatto disinteressata e non di tutti i Cittadini italiani singolarmente o presi insieme. Non è un caso se in certe operazioni la classe politica italiana a livello internazionale viene sostenuta e seguita da altri, come ad esempio la Germania, in quanto appunto anche in Germania abbiamo un regime partitocratico che è convinto che il livello dei costi di produzione e di distribuzione dei beni pubblici da esso fissato sia una necessità divina, mentre invece non lo è, è solo una necessità di sopravvivenza di regimi partitocratrici.

La concorrenza fiscale può essere uno strumento adeguato per produrre quel tipo di minimizzazione dinamica dei costi di produzione e di distribuzione dei beni pubblici, che potrebbe riequilibrare il peso del settore pubblico italiano e riappacificare il Cittadino con lo stato, la questione è solo COME.

Sempre Bruno Frey sin dalla metà degli anni ’90 va propagandando un modello di concorrenza politica e fiscale tra le giurisdizioni che compongono uno stato federale non basate su estensioni spaziali pre-confezionate, ma flessibili. Inoltre, le componenti “ultime” di tali giurisdizioni sono i Cittadini stessi, al massimo i municipi, che ovviamente si suppone che i cittadini possano formare in modo associativo completamente libero. Così un cittadino di Ravenna potrebbe essere membro dell’USL di Milano PER SEMPLICE SCELTA, o un Cittadino di Palermo essere membro di un ente previdenziale svizzero invece che di uno italiano. Che differenza fa per il Cittadino? Ovviamente simultaneamente nessuna e tutte, in quanto, a parità di qualità del servizio prodotto dall’INPS e dalla Rentenanstalt per lui sarebbe indifferente essere membro dell’una o dell’altra. Ma la qualità non è la stessa, fa una differenza radicale essere membri di una giurisdizione invece chedi un’altra, soprattutto quando all’interno della giurisdizione in cui la natura vuole che si nasca c’è un solo, unico produttore e/o distributore di servizi specifici o un unico produttore/distributore di servizi di tutti i tipi, che non solo non si ha il diritto di modificare, di plasmare, di cambiare, ma che non si può fare altro che lasciare indietro. Quando si trapassano i confini giurisdizionali di stati diversi questo non ha conseguenze troppo vaste, in quanto il principio di “sovranità nazionale” consente ad ogni stato di sistemarsi le sue situazioni interne come meglio gli pare, o come meglio i suoi Cittadini sopportano, ma la migrazione intergiurisdizionale all’interno di uno stesso stato ha un effetto potentissimo: mette le istituzioni politiche in concorrenza tra di loro, specialmente quando i costi di migrazione sono relativamente bassi, almeno rispetto ai costi della migrazione internazionale.

Se guardiamo alla storia dell’Italia dal 1861 vediamo due cose: un movimento migratorio internazionale potentissimo, che ha condotto ad emigrare fuori dell’Italia più di 30 milioni di cittadini e un altrettanto potente movimento migratorio interno, che ha condotto altre decine di milioni di persone a trasferirsi dal Mezzogiorno al Nord. Secondo la teoria standard del federalismo concorrenziale, che si fa risalire comunemente all’economista americano Charles Tiebout, questi movimenti migratori avrebbero dovuto produrre effetti positivi sul sistema politico, avrebbero dovuto indurre a innovazioni istituzionali e costituzionali, che avessero consentito un sistema politico più decentrato, con giurisdizioni più piccole in concorrenza tra di loro per attrarre numeri crescenti di migranti interni o di rimpatrianti dall’estero, in quanto questi avrebbero consentito di far crescere sensibilmente il potenziale di crescita economica locale, ma così non è stato. L’Italia, malgrado questi movimenti migratori potentissimi, dal volume sconosciuto in qualsiasi altro paese occidentale, è rimasta ferma allo stato monolitico formatosi nell’800, è rimasta un paese bloccato, incapace di produrre innovazioni istituzionali e costituzionali in più di 60 anni, di darsi un sistema di diritto pubblico più moderno, meno burosaurico e farraginoso di quello prodotto dalla monarchia e dal fascismo, incapace di adattare lo stato ottocentesco alle esigenze di flessibilità e di innovazione accelerate che sono diventate essenziali per la sopravvivenza di un paese in un’economia mondiale globalizzata.

E’ questo blocco storico, voluto dalle classi dominanti in Italia e dalle loro clientele particolari, che sta mettendo a repentaglio l’esistenza stessa di questo paese, che, a causa delle sue disfunzioni politiche, della sua debolezza economica e della situazione totalmente disastrosa delle sue finanze pubbliche è non solo a rischio di bancarotta, ma è a rischio di sfaldamento e divisione come l’ex l’Unione Sovietica e l’ex Jugoslawia. Non sono da escludere neanche lotte interne violente per la divisione della responsabilità del debito pubblico accumulato dalla classe politica della prima repubblika, che sta apparendo ormai giorno per giorno più per quello che è, ovvero un debito inesigibile.

La classe politica italiana, per il tramite del suo amministratore fallimentare democristiano della prima repubblika, Romano Prodi, sta cercando di illudere per l’ennesima volta il Cittadino italiano che una pseudo-riforma del sistema politico, che imponga, dopo il bipolarismo, finalmente il bipartitismo, purchè resti formalmente una partitokrazzia, possa salvare l’Italia dal suo destino.

Ma il destino dell’Italia della prima repubblica è ineluttabile: è la bancarotta.