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Nel ringraziare i mie giovani amici, che hanno voluto trarre dal dimenticatoio vecchie pubblicazioni, debbo pure dire poche parole di chiarimento al lettore.
Gli scritti che si ristampano in questo volume non esprimono il pensiero di un partito politico, ma neppure quello di un solitario; essi ricordano lo sforzo continuativo e crescente compiuto per oltre un trentennio da un gruppo di persone le quali hanno mirato alla formazione di partito liberale-democratico - ossia radicale – che non è mai esistito nel parlamento italiano, o vi è esistito soltanto di nome.
Oggi questi scritti hanno un modesto valore storico; sono cioè, elementi documentali per chi ha voglia serenamente fare la storia delle correnti politiche italiane dalla unificazione del Regno all’avvento del fascismo.
La larga parte che in essi è data al problema meridionale spiega perché il volume compaia in questa raccolta (la “Collezione di studi meridionali”).
Durante le lotte del Risorgimento, le divisioni politiche derivarono dalla questione dell’indipendenza nazionale e dalla forma – federativa, repubblicana, monarchica – che si voleva dare al nuovo stato.
I problemi di politica interna ed estera, che il nuovo stato si apprestava ad affrontare, apparivano ancora lontani e di secondaria importanza. L’uomo, invero, che ebbe la visione integrale e precisa di un indirizzo liberarle in tutte le sue concrete esplicazioni, fu il conte di Cavour; ma il suo programma nacque e morì con lui.
Del pari, con la unità conseguita, si esaurì la funzione storica e la vitalità politica dei vecchi partiti.
Restarono bensì i vecchi aggruppamenti di persone legate da vincoli di tradizionale convivenza; ma subito si manifestò, nell’interno di ciascuno di essi, la più grande confusione di idee e di metodi. Poiché in ciascuno si trovavano fautori ed avversari dei più disparati indirizzi di governo in materia di politica estera ed interna, di politica economica e finanziaria; in ogni gruppo vi erano i fautori e gli avversari dell’espansione territoriale e coloniale, della riduzione delle spese militari, dell’intervento statale e della libera iniziativa individuale; in ogni gruppo vi erano gli accentratori e i decentratori, i fautori e gli avversari dell’allargamento o della restrizione dellae libertà di stampa e di associazione, del suffragio universale e del suffragio ristretto; coloro che propugnavano la più completa separazione tra lo Stato e la Chiesa; vi erano liberisti e protezionist; fautori ed avversari della legislazione sociale.
Donde si ebbe la piaga del “trasformismo”, che confuse le persone dei vecchi partiti, senza chiarire le idee dei nuovi indirizzi.
Al di sopra della confusione, una sola idea, ereditata dal vecchio regime, continuava a dominare in ogni gruppo: l’idea del privilegio di classe.
Le nuove libertà – concesse forse più per spirito dottrinario che non per domanda del popolo – servirono di fatto ai nuovi arrivati per organizzarsi in difesa dei propri interessi e del proprio diritto; ma questa difesa non la fecero consistere nel combattere il privilegio altrui sulla base della legge comune, ma nel reclamare nuovi privilegi per sé. Ogni nuovo privilegio era reclamato a titolo di egual trattamento come un privilegio preesistente. Così è avvenuto in Italia che il progresso dell’idea liberale e democratica è consistito nella graduale crescente estensione dei favori legislativi, passando dai gruppi maggiori ai minori, dai gruppi di vecchia formazione ai gruppi di nuova formazione, dai proprietari terrieri agli industriali, ai funzionari dello stato, alle cooperative di braccianti, alle organizzazioni proletarie.
Si ebbe la gerarchia dei grandi, dei medi e dei piccoli privilegi.
Il parlamento diventò logicamente il mercato dove si negoziavano i grandi e i piccoli favori dello stato, la cui spesa era fatta dalla gran massa dei consumatori e dei contribuenti. La difesa di questi era esulata dall’arena parlamentare. Ogni singolo elettore spingeva il singolo deputato su questa via e lo sfruttava per conseguire interessi particolari. Ma la massa anonima dei cittadini aveva finito per disprezzare l’istituto parlamentare.
Nel ringraziare i mie giovani amici, che hanno voluto trarre dal dimenticatoio vecchie pubblicazioni, debbo pure dire poche parole di chiarimento al lettore.
Gli scritti che si ristampano in questo volume non esprimono il pensiero di un partito politico, ma neppure quello di un solitario; essi ricordano lo sforzo continuativo e crescente compiuto per oltre un trentennio da un gruppo di persone le quali hanno mirato alla formazione di partito liberale-democratico - ossia radicale – che non è mai esistito nel parlamento italiano, o vi è esistito soltanto di nome.
Oggi questi scritti hanno un modesto valore storico; sono cioè, elementi documentali per chi ha voglia serenamente fare la storia delle correnti politiche italiane dalla unificazione del Regno all’avvento del fascismo.
La larga parte che in essi è data al problema meridionale spiega perché il volume compaia in questa raccolta (la “Collezione di studi meridionali”).
Durante le lotte del Risorgimento, le divisioni politiche derivarono dalla questione dell’indipendenza nazionale e dalla forma – federativa, repubblicana, monarchica – che si voleva dare al nuovo stato.
I problemi di politica interna ed estera, che il nuovo stato si apprestava ad affrontare, apparivano ancora lontani e di secondaria importanza. L’uomo, invero, che ebbe la visione integrale e precisa di un indirizzo liberarle in tutte le sue concrete esplicazioni, fu il conte di Cavour; ma il suo programma nacque e morì con lui.
Del pari, con la unità conseguita, si esaurì la funzione storica e la vitalità politica dei vecchi partiti.
Restarono bensì i vecchi aggruppamenti di persone legate da vincoli di tradizionale convivenza; ma subito si manifestò, nell’interno di ciascuno di essi, la più grande confusione di idee e di metodi. Poiché in ciascuno si trovavano fautori ed avversari dei più disparati indirizzi di governo in materia di politica estera ed interna, di politica economica e finanziaria; in ogni gruppo vi erano i fautori e gli avversari dell’espansione territoriale e coloniale, della riduzione delle spese militari, dell’intervento statale e della libera iniziativa individuale; in ogni gruppo vi erano gli accentratori e i decentratori, i fautori e gli avversari dell’allargamento o della restrizione dellae libertà di stampa e di associazione, del suffragio universale e del suffragio ristretto; coloro che propugnavano la più completa separazione tra lo Stato e la Chiesa; vi erano liberisti e protezionist; fautori ed avversari della legislazione sociale.
Donde si ebbe la piaga del “trasformismo”, che confuse le persone dei vecchi partiti, senza chiarire le idee dei nuovi indirizzi.
Al di sopra della confusione, una sola idea, ereditata dal vecchio regime, continuava a dominare in ogni gruppo: l’idea del privilegio di classe.
Le nuove libertà – concesse forse più per spirito dottrinario che non per domanda del popolo – servirono di fatto ai nuovi arrivati per organizzarsi in difesa dei propri interessi e del proprio diritto; ma questa difesa non la fecero consistere nel combattere il privilegio altrui sulla base della legge comune, ma nel reclamare nuovi privilegi per sé. Ogni nuovo privilegio era reclamato a titolo di egual trattamento come un privilegio preesistente. Così è avvenuto in Italia che il progresso dell’idea liberale e democratica è consistito nella graduale crescente estensione dei favori legislativi, passando dai gruppi maggiori ai minori, dai gruppi di vecchia formazione ai gruppi di nuova formazione, dai proprietari terrieri agli industriali, ai funzionari dello stato, alle cooperative di braccianti, alle organizzazioni proletarie.
Si ebbe la gerarchia dei grandi, dei medi e dei piccoli privilegi.
Il parlamento diventò logicamente il mercato dove si negoziavano i grandi e i piccoli favori dello stato, la cui spesa era fatta dalla gran massa dei consumatori e dei contribuenti. La difesa di questi era esulata dall’arena parlamentare. Ogni singolo elettore spingeva il singolo deputato su questa via e lo sfruttava per conseguire interessi particolari. Ma la massa anonima dei cittadini aveva finito per disprezzare l’istituto parlamentare.
Contro le organizzazioni politiche del privilegio, che dissanguavano le forze produttive del paese povero, sono avuti movimenti popolari sporadici, determinati dall’acutizzazione delle sofferenze economiche che l’esagerazione del sistema ha talvolta prodotte, non dall’azione consapevole di masse elettorali da cui avrebbe potuto nascere il partito, né dal pensiero fattivo di un partito o di un gruppo operante allo scopo di illuminare, educare ed organizzare politicamente le masse.
Un piccolo nucleo di persone dalla critica fu spinto ad assumersi tale compito e, subito dopo la tariffa del 1887 e la guerra doganale con la Francia, iniziò le sue campagne contro il protezionismo industriale e quello granario, per il riordinamento delle banche, per la modernizzazione della vita parlamentare, per la perequazione tributaria tra gruppi e regioni; per l’indipendenza della magistratura; ù attaccò in una parola, ogni forma di privilegio, per arrivare sempre più all’eguale trattamento economico, tributario e politico di tutti i cittadini, che è il solo fondamento di un partito e di un governo liberale.
A misura che il programma si precisava e che nuovi interessi costituiti venivano offesi, vecchi aderenti si perdevano per via; ma nuovi se ne acquistavano lavorando nel parlamento ai margini di tutti gli aggruppamenti, e nel paese trai giovano, che erano soprattutto attratti dalla intransigente coerenza del programma. Comunque, se il gruppo non avanzò rapidamente in estensione, guadagnò sempre in intensità ed efficacia combattiva; e così esercitò maggiore influenza politica di quanto il suo numero e i mezzi di cui disponeva non avrebbero fatto credere.
La guerra non lo colse impreparato: fin dal primo momento, senza incertezze e tentennamenti, proclamò la necessità del nostro intervento, accanto ai paesi democratici e parlamentari dell’Europa occidentale, contro l’imperialismo tedesco; accentuò il carattere antigermanico del nostro intervento; chiese, invano, subito dopo dichiarata la guerra, l’alleanza del proletariato italiano, per preparare gli spiriti e la volontà del paese in favore di una pace giusta e durevole, quindi anche antiprotezionista; fu sincero fautore della Lega delle Nazioni.
Dopo la guerra, che fu per l’Italia uno sforzo gigantesco, del tutto sproporzionato al consolidamento politico del giovane stato e alla consistenza economica del paese, attraversammo un periodo pauroso di completa anarchia, come se il nostro fosse stato un paese vinto.
L’impero della legge era passato dal potere dello stato all’arbitrio di singoli gruppi, anzi all’istinto distruttore dei bassifondi e dei violenti di ogni gruppo. I funzionari pubblici erano contro lo stato che li pagava; i ferrovieri si consideravano quali padroni a titolo privato delle ferrovie, che non sapevano esercitare; i postelegrafonici agivano come padroni delle poste e dei telegrafi arrestandone il funzionamento; il deficit dei servizi pubblici cresceva paurosamente; gli scioperi nelle aziende pubbliche e nelle private erano diventati uno sport politico e un metodo di intimidazione del pubblico, e, poiché si componevano regolarmente a condizione che fossero pagate le giornate non lavorate, crescevano all’infinito; i senzatetto occupavano le case dei privati; lo svaligiamento dei negozi veniva compiuto impunemente sotto gli occhi della polizia e, molti dicevano, organizzato dalla stessa polizia; e gli operai industriali invasero le fabbriche che non sapevano gestire; le leghe dei lavoratori agricoli invasero le terre che non potevano ripartirsi.
Contro il caos sorse il fascismo, organizzazione privata di resistenza, segno non dubbio della vitalità del paese. Con lo squadrismo si ebbero fenomeni tipici di guerra civile. Il partito vincitore ristabilì l’ordine pubblico e sostituì lo stato, praticamente scomparso; e poi lo plasmò poco a poco a sua immagine: stato antiliberale e antidemocratico; l’individuo è soppresso di fronte alla volontà assoluta dello stato, cioè del gruppo governante.
Sono due momenti distinti: nel primo il fascismo affronta il socialismo degenerato in bolscevismo; nel secondo è contro coloro che pongono le libertà dell’individuo a base dello stato.
Noi avemmo in comune col fascismo un punto di partenza: la lotta e la critica contro il vecchio regime.
La nostra critica però intese a creare nel paese una più elevata coscienza pubblica contro tutte le forme degenerative delle libertà individuali e del sistema rappresentativo, aveva pur sempre di mira la difesa e il consolidamento dello stato liberale e democratico.
Così il nostro gruppo fu travolto.
Luglio 1929
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Prefazione a: Un Trentennio di lotte politiche (1894 – 1922), ristampa Giannini Editore
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Il più grande economista pubblico italiano, le cui opere oggi non si trovano neanche nella stragrande maggior parte delle biblioteche italiane e che non viene più “letto” nelle facoltà di economia italiane benché nientemeno che James Buchanan abbia tentato di fare conoscere e capire il suo pensiero nel mondo fin dagli anni ‘60, scrisse queste parole in pieno fascismo. Di lì a poco (1931) si sarebbe ritirato dall’accademia per evitare di prendere la tessera del partito fascista. La sua autorità intellettuale era tale che poteva tuttavia dedicare questa raccolta di scritti ad Ernesto Rossi e di ironizzare sulla “vitalità del paese” dimostrata dal fascismo.
Morì a Roma il 1° dicembre 1943, quando l’esito della guerra era ormai certo, confermando tutte le sue ipotesi sull’evoluzione storica dell’Italia. Gli alleati erano sbarcati a Salerno il 9 settembre 1943.
Un esempio della dittatura del silenzio dentro il simulacro della democrazia.
Ogniqualvolta sente parlare i Tremonti, i Visco ed i Grilli si rivolta nella tomba.
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" ... In conclusione, il vizio fondamentale del sistema finanziario locale può riassumersi in questo: che le imposte vengono prevalentamente pagate dai meno abbienti ed i servigi pubblici prevalentemente usufruiti dai maggiori abbienti; e che questa iniqua ripartizione del costo di produzione e del consumo di servigi pubblici è l'effetto di sistematiche violenze, fatte contro al nostro diritto pubblico finanziario e allo spirito della costituzione" (225).
Ovviamente si parla dello statuto albertino, l'articolo è del 1894. Sempre lì si legge:
"Dunque bisogna in qualche modo e misura sottrarre la votazione delle imposte, almeno delle indirette di consumo, ai consigli, sperimentando, con tutti i temperamenti necessari, i referendum agli elettori, da praticarsi o in via assoluta, sempre che si tratti di imposte indirette di consumo, oppure in caso che un certo limite - fissato dalla legge - si voglia sorpassare. La proposta di referendum pare audace, ma non lo è. Mi figuro la domanda: "Vogliono gli elettori di questo comune un aumento di due centesimi sul dazio del vino o del petrolio o delle farine per avere la illuminazione delle strade?" E vedo già con quanta coscienza e convinzione voterebbe pel sì o pel no ogni contadino, il quale con perfetta incoscienza e mercè il prezzo di qualche lira, ha dato il suo voto a un candidato politico e a un programma che non capiva."
Niene di nuovo sotto il sole. Il sistema tributario locale giolittiano è solo stato alzato all'ennesima potenza a livello nazionale repubblicano.
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