Afghanistan: mesta conclusione di trent’anni di disastri “neocon”
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L’intervento militare USA in Afghanistan fu una reazione
di impotenza all’attacco terrorista portato sul territorio americano
con una triplice direttrice. Due arei sulle torri gemelle a New York, un
terzo aereo sul Pentagono, un quarto dirottato e sul quale, pare,
l’intervento dei passeggeri contro i dirottatori provocò un disastro
aereo e lo schianto.
E’ una vicenda così “pivotal” nella storia americana
recente, così determinante e spartiacque da aver influenzato la politica
americana per decenni. Quella influenza dura ancora oggi.
Per chi lo vide in diretta tv, come me, fu qualcosa di
simile all’attentato di Sarajevo o all’ingresso delle truppe tedesche in
Polonia, fu un atto politico che rompeva il paradigma storico del post
1989.
Fu chiaro che un mondo unipolare (e quello del settembre 2001 sostanzialmente lo era) non poteva funzionare.
Oltre alla seconda guerra del Golfo, l’altra risposta
americana nella guerra asimmetrica fu tentare di colpire il mandante
degli attentati, quell’Osama Bin Laden che si nascondeva nella zona
tribale fra Pakistan e Afghanistan e che il compianto Robert Fisk riuscì
incredibilmente a interrogare da vivo tre volte, l’ultima quattro anni
prima dell’11 settembre. Pare che lo “sceicco del terrore” si
nascondesse in una serie di rifugi sotterranei nelle grotte del monte
“Kaftar Hona” (“Nido del corvo”).
Sugli ambigui rapporti fra Pakistan (o meglio fra i suoi
servizi segreti militari) ed il mondo occidentale si potrebbe scrivere
un’enciclopedia, ma è chiaro che gli americani ebbero buon gioco a
colpire un paese sostanzialmente privo di capacità militare
(l’Afghanistan) anziché una potenza nucleare regionale (il Pakistan).
Eppure, Bin Laden fu ucciso proprio in Pakistan, all’epoca della
presidenza Obama, evidentemente con il beneplacito dell’ISI pakistano e
le sue spoglie sperse in mare da una portaerei americana per evitare
fenomeni di venerazione (forse l’unica mossa intelligente di tutta la
vicenda).
In buona sintesi, l’invasione dell’Afghanistan non servì
a niente e quegli stessi “Taliban” armati dagli americani per il
tramite degli “amici” sauditi contro l’invasione sovietica negli anni
’80 (lo stesso brodo di coltura che avrebbe generato Al Qaida) oggi si
ritrovano ad essere la forza politica e militare dominante dopo il
rompete le righe occidentale: essi sono ben intrisi di wahabismo
radicale per comprendere l’evoluzione storica del quale occorre
conoscere la figura di Muhammad ibn Abd al-Wahhab (1703-1792) ed il suo
rapporto con la dinastia dei Saud.
E’ un fallimento storico e politico, quello afghano, che
fa il paio con altri disastri compiuti dagli americani nel medio e
lontano oriente negli ultimi trent’anni: dal rapporto col Pakistan,
all’Iraq, alla Siria, alle “primavere arabe” (chiedere a Tunisia ed
Egitto), al disimpegno in Libia, per trent’anni i “neocon” (in
particolare gli ideologi Wolfowitz e Rumsfeld) hanno sistematicamente
demolite le dittature nei paesi arabi, omettendo di cancellare le agende
con le quali le avevano finanziate e sospinte in chiave antisovietica o
nel bilanciamento dei rapporti con Israele.
Per capire l’idiosincrasia americana basti pensare
all’incredibile doppiezza dei loro rapporti che si sviluppano con eguale
cordialità rispetto a Israele ed ai Sauditi (dei quali si tollera la
brutale repressione militare sullo Yemen e sul movimento degli Houti,
colpevoli di essere sciiti ed appoggiati dall’Iran), la politica
incredibilmente confusionaria nei confronti dell’Iran e l’idea
demenziale che le masse arabe possano accedere ad una variante da
esportazione della “democrazia occidentale”, un modello politico che
esiste solo nella semplificazione neocon, dacchè la democrazia USA è
profondamente diversa da quella Inglese e da quelle europeo
continentali, mentre un terzo modello, quello dell’autocrazia rivestita
di paludamenti democratici formali si è fatto avanti, aiutato dalla
crisi pandemica (Putin, Al-Sisi, Erdogan). Non dimentichiamoci, poi, che
al momento il vero “containment” americano è verso le crescenti
ambizioni cinesi ed il vero snodo del conflitto geopolitico globale è
l’Asia ed in particolare il mar della Cina.
Questo per cercare di capire che a nessuno importa dei
poveri afghani e delle povere afghane che stanno sprofondando in queste
ore nell’incubo di un “califfato islamico”, un ircocervo che nulla ha a
che vedere con la ricchezza culturale e la tolleranza dei califfati
storici seguiti alla Grande Espansione Islamica (632-800 dc) e che
rappresenta, piuttosto, una forma decadenziale dell’Islam, ispirata
dalla visione miope e retriva di un piccolo regno arabo che fonda le sue
fortune sul petrolio e sull’accordo Sykes-Picot, i cui frutti
avvelenati, a distanza di poco più di un secolo, fanno ancora danni
inenarrabili nel mondo.
Sono ore di vergogna per l’Occidente, ore che marcano il
disimpegno impudicamente dichiarato degli americani e l’ancor più
vergognosa fuga degli europei.
Questi ultimi, poi, si dimostrano ancora una volta
incapaci di “fare civiltà”, preoccupandosi piuttosto dell’agenda di
politica interna e dei propri populismi nazionali (“non vogliamo altri
profughi”) nel delicato rapporto con le nascenti autocrazie (o
“putinismi” se volete) in Polonia ed in Ungheria.
CB
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