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LE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI SONO DIVENTATE NIDI DI VIPERE DELL'ILLEGALITA', DELL'ABUSO DEL DIRITTO E DELL'ABUSO DI POTERE: VANNO CHIUSE

 3 Ottobre 2020

OMS di Tenebra

Abusi sessuali mascherati da aiuti umanitari, ecco la tragica realtà di molte donne africane che si sono rivolte all’OMS in cerca di aiuto.
contemporanea Pietro Castellitto
I Predatori
La sceneggiatura

Cristina Caminiti

18 articoli

Se nel romanzo Cuore di Tenebra si rimane turbati dalle descrizioni di uomini sfruttati come bestie, svuotati della loro umanità, adesso l’imperialismo descritto da J. Conrad e celato dietro il buonismo degli aiuti umanitari presenta i nuovi scenari,che vedono protagoniste donne congolesi vittime di abusi sessuali da parte dell’OMS. Lo scorso martedì l’organizzazione no profit New Humanitarian e la Thomson Reuters Foundation hanno pubblicato i risultati di un’indagine durata oltre un anno. L’accusa di sfruttamento in cambio di posti di lavoro coinvolge quindi operatori umanitari e medici attivi nella Repubblica Democratica del Congo  durante la lotta contro l’Ebola. 

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Le donne sarebbero state costrette a fornire sesso in cambio di lavori in uffici di reclutamento, ospedali, cucine e come addette alle pulizie. Le vittime si dividevano così in due gruppi: chi accettava la sottomissione veniva pagato ben oltre la media del luogo, chi si rifiutava, invece, si vedeva stracciato il contratto di lavoro. La vicenda coinvolge anche il ministero della Salute che, però, tramite il ministro Eteni Longondo, sostiene di non essere mai stato informato dei fatti, sebbene le donne abbiano dichiarato che gli sfruttamenti erano diventati una pratica talmente normale da essere considerati un «passaporto per il lavoro». A confermare i racconti sono stati anche gli autisti delle agenzie umanitarie che accompagnavano le vittime presso case, uffici e hotel come fossero merce di scambio. I Paesi coinvolti al momento sono Belgio, Canada e Francia oltre alle nazioni africane di BurkinaFaso, Guinea e Costa d’Avorio, ma non si esclude la possibilità che anche altri Stati possano emergere dalle indagini ancora in corso. L’inchiesta si è incentrata soprattutto sulla città nord-orientale di Beni, epicentro dell’epidemia di Ebola nel 2018 dove l’OMS aveva inviato migliaia di membri del personale, così come avevano fatto i cooperanti di World Vision, UNICEF e l’organizzazione medica ALIMA. La situazione riecheggia gli stupri da parte delle truppe di mantenimento per la pace emersi durante i conflitti in Bosnia negli anni ’90, così come ritorna lo scandalo Oxfam ad Hiati nel 2011. Eppure non è la prima volta che si parla si corruzione e abusi nelle case di organizzazioni come l’International Rescue comittee, UNICEF, ONU, Nazioni Unite, Unchr e Oim, spesso protagoniste di omertose attività venute alla luce solo dopo lunghi anni di indagini e ancora in parte rimaste impunite.

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Il paese maggiormente colpito è la Repubblica Centroafricana che, solo nel 2017, aveva visto implicati caschi blu e personale ONU in trentuno episodi di violenza. E ancora, nel 2016 erano stati segnalati oltre ottanta casi di violenze sessuali da parte di peacekeepers e altre sessantacinque con protagonisti operatori civili. Medici Senza Frontiere non rimane esclusa, e nel 2017 aveva preferito assegnarsi un autogol prendendosi le responsabilità del caso di 146 segnalazioni di abusi sessuali e promettendo che i responsabili avrebbero pagato. Risultato: 19 licenziamenti. Si tratta di un sistema che vacilla sempre di più e che evidenzia tutta la fragilità del terzo settore, incapace di frenare la contaminazione dei crimini dei diritti civili ormai dilagata in quasi tutto l’organismo. Non è possibile fare di tutta l’erba un fascio, i dubbi non possono riferirsi a tutti i membri delle agenzie, ciò nonostante le migliaia di denunce – che sarebbero solo una parte di quelle che ancora devono trovare giustizia, se non una parte di quelle non ancora emerse – rischiano di far crollare la credibilità del lavoro umanitario e degli eccellenti risultati fino ad oggi ottenuti. Si parla comunque di un settore mondiale all’interno del quale le situazioni non sono gestite con trasparenza, in cui le denunce vengono omesse dai vertici che risolvono i crimini con semplici licenziamenti e dove la legge del silenzio soffoca il senso morale e civico. Dunque ritorna la domanda che l’Inghilterra si pose sul caso Oxfam: «Tu che non sei in grado di gestire le situazioni al tuo interno, che credibilità hai per intervenire?» Perciò il ripetersi della storia non diviene più un rischio, ma una certezza.

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Christine Lagarde inadeguata e ha fatto il gioco sporco contro l’Italia: LE ORGANIZZAZIONI INTERNAZIONALI SONO DIVENTATE NIDI DI VIPERE DELL'ILLEGALITA'

 

Christine Lagarde inadeguata e ha fatto il gioco sporco contro l’Italia

— 1 anno ago

Alan Friedman commenta le dichiarazioni di Christine Lagarde pronunciate durante l’ultima conferenza della Banca Centrale Europea

Al termine della conferenza della BCE del 12 marzo, in cui Christine Lagarde ha preso le distanze dal suo precedessore Mario Draghi e annuncia provvedimenti di risibile impatto in questa situazione di emergenza.

Alan Friedman ha voluto prendere una posizione molto netta, seguito da tanti altri economisti e politici europei.“Christine Lagarde ha fatto un flop. Si è dimostrata indegna della sedia che è stata di Mario Draghi. Dovrebbe dimettersi.”

Alan Friedman ha voluto ricordare anche chi è davvero Christine Lagarde “È una politica francese, una fedelissima di Nicolas Sarkozy, che ha fatto il gioco sporco contro l’Italia durante il famoso G20 di Cannes del 2011, quando ha cercato di imporre un prestito del FMI all’Italia, che avrebbe distrutto l’Italia stessa in quel momento. Non è un banchiere e non sa parlare, è più un salottiere di Washington, un personaggio molto ambiguo”.

Alan Friedman ha voluto ricordare che “Christine Lagarde è stata condannata a Parigi, la cui sentenza è tutt’ora sospesa, per la “malagestione” di oltre 400 milioni di Euro dei contribuenti francesi insieme a una persona vicina all’ex premier Nicolas Sarkozy”. La vicenda a cui si riferisce è datata 2007, quando Christine Lagarde, all’ora in carica come ministro, fu accusata di aver favorito Bernard Tapie, pluricondannato ed ex ministro francese vicino a Nicolas Sarkozy, nella sua richiesta di indennizzo nei confronti del Credit Lyonnais per la cessione del noto marchio Adidas. In tale occasione Christine Lagarde, contro il parere dell’organo consultivo, avrebbe deciso di ricorrere all’arbitrato privato che deliberò in favore dell’ex ministro. I soldi furono poi restituiti a seguito di un’altra sentenza e Christine Lagarde fu immediatamente processata e condannata per “negligenza”. La pena, che prevedeva 1 anno di carcere, 15 mila euro di multa e l’iscrizione nel casellario giudiziario, fu sospesa a causa del “ruolo rivestito” e della sua “reputazione internazionale”.

Christine Lagarde, nel corso della conferenza stampa ha anche dichiarato “Non siamo qui per chiudere gli spread”, una frase che ha avuto un effetto immediato sullo spread dei Btp italiani. Una frase che confonde, date le sue dichiarazioni durante la prima conferenza da presidente della BCE, in cui asseriva di voler portare avanti una politica incentrata sull’unione fiscale, quasi come se nella sua idea di unione fiscale prevedesse paesi di serie A e serie B.

Le parole di Christine Lagarde hanno suscitato non poco imbarazzo anche all’interno della Commissione Europea, che ha subito cercato di aggiustare il tiro delle parole dell’attuale presidente Ursula von der Leyen: “Massima flessibilità” nell’applicazione del Patto di Stabilità e per gli aiuti di Stato destinati a far fronte alle conseguenze del Coronavirus. Siamo pronti ad aiutare l’Italia con tutto quello di cui ha bisogno, in questo momento è colpita severamente dal virus, sosteniamo tutto quello di cui ha bisogno e tutto quello che chiederà. Il prossimo potrebbe essere un altro Stato membro”.

Rassicurazioni importanti sostenute anche dal vice presidente della Commissione europea Valdis Dombrovskis: “Abbiamo tutti gli strumenti necessari a nostra disposizione» per affrontare le conseguenze economiche dell’epidemia influenzale da coronavirus. Sosterremo i Paesi che useranno la piena flessibilità concessa dal Patto di Stabilità”.

Ma a quanto pare, al meno per il momento, queste sono solo parole. Nel progetto di investimenti della Commissione Europea, reso pubblico scorso venerdì 13 marzo, si legge che l’Italia riceverà fondi pari a 853 milioni di euro, contro i 1,16 miliardi della Spagna, 1,12 miliardi della Polonia e 855 milioni dell’Ungheria. Questi fondi, in realtà provengono da fondi già stanziati per i diversi stati a sostegno di progetti per opere strutturali che, qualora non fossero spesi, vanno restituite all’Unione Europea. Con questa attribuzione di fondi, non si tiene conto del reale impatto del Coronavirus sul singolo Paese, se prendiamo in considerazione il numero delle vittime accertate (in Polonia erano 49 casi accertati nel giorno in cui sono stati dichiarati questi aiuti).

“Avessimo avuto il tempo di progettare un nuovo strumento di finanziamento, non saremmo arrivati a questa ripartizione di risorse” ha voluto precisare il Direttore Generale per il Bilancio presso l’esecutivo della UE, Gert Jan Koopman, “questa ripartizione riflette solamente la realtà di ciò che i Paesi membri hanno lasciato nella cassa dei fondi di coesione”.

Tornando al commento di Alan Friedman sulle parole di Christine Lagarde, secondo l’economista il fatto più grave consiste nell’incapacità comunicativa fondamentale per il ruolo che ricopre il presidente della BCE. “Ha fatto un grave errore e lo ha fatto con arroganza, dicendo con tono compiaciuto che non si potesse aspettare da lei un altro “whatever it takes”. Quando un banchiere centrale parla con i mercati, può affossare i mercati e distruggere la situazione.”

Ma secondo Alan Friedman, non è stato solo un problema di comunicazione: “In sé il quantitative easing di 12 miliardi di euro non è sufficiente per un’Europa che rischia di avere una strage economica e subire una recessione pesante, ci si sarebbe aspettati un vero big bazooka.” Le misure auspicate e necessarie, secondo Alan Friedman, sono similari a quelle annunciate nei giorni scorsi dalla Federal Reserve, che ha stanziato fondi per 1.500 miliardi come iniezione di liquidità per far fronte alla situazione.

“Christine Lagarde insulta i mercati, insulta Mario Draghi, fa delle gaffe terribili e offre solo 120 miliardi da qui a dicembre? È poca roba. Christine Lagarde non va solo contro gli interessi delll’Italia, ma contro l’Europa. È un disastro, un fallimento Europeo. Mia auguro che da tutto questo Christine Lagarde impari a fare il suo mestiere. “

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Lagarde condannata in Francia, da Fmi 'piena fiducia': FATE DOMANDA DI LAVORO ALLA BCE E ALL'IMF E POSTATE COSA VI DICONO

 

Lagarde condannata in Francia, da Fmi 'piena fiducia'

Verdetto a sorpresa per Christine Lagarde. La direttrice generale del Fondo Monetario internazionale (Fmi) è stata condannata dalla Cour de Justice de la République. KEYSTONE/EPA FILE/CHRISTOPHE PETIT TESSON sda-ats
Questo contenuto è stato pubblicato il 20 dicembre 2016 - 07:47 20 dicembre 2016 - 07:47
(Keystone-ATS)

Verdetto a sorpresa per Christine Lagarde. La direttrice generale del Fondo Monetario internazionale (Fmi) è stata condannata dalla Cour de Justice de la République

Il tribunale di Parigi incaricato di giudicare i responsabili del governo su atti commessi nell'esercizio delle loro funzioni ha condannato la Lagarde per "negligenza" nel caso dell'arbitrato tra l'imprenditore Bernard Tapie e il Credit Lyonnais, ai tempi in cui era ministra dell'Economia nel governo di Sarkozy.

Il Fmi ribadisce la sua "piena fiducia" in Lagarde e nella "sua capacità" di portare avanti l'incarico. Il direttore generale ringrazia e si difende: "Ho sempre agito nell'interesse pubblico", mette in evidenza, precisando che non presenterà' nessun appello. "La mia attenzione e i miei sforzi sono tutti per il Fmi".

Il procuratore generale voleva l'assoluzione ma i giudici non hanno accolto la sua richiesta. Dopo Dominique Strauss-Kahn è la seconda francese alla guida dell'organismo di Washington a finire nei guai con la giustizia, anche se la condanna viene definita come puramente "simbolica". Lagarde, che rischiava un anno di prigione e almeno 15.000 euro di multa, è stata infatti esonerata dall'esecuzione della pena e il verdetto non avrà impatto sulla sua fedina penale.

Tra i motivi che hanno indotto i magistrati ad assumere questa inconsueta decisione, viene evocata la sua "personalità" e la sua "reputazione internazionale", come anche il fatto che all'epoca, da ministra, fosse in prima linea contro la "crisi finanziaria internazionale".

Intanto, a Washington, i 24 membri del board del Fmi si stanno riunendo per decidere se riconfermare la fiducia nella dirigente rieletta alla guida dell'organismo nel febbraio scorso o chiederle di lasciare. La prima opzione appare più probabile. Uscendo dal tribunale a Parigi il suo legale Patrick Maisonneuve ha minimizzato il verdetto. "Avremmo certamente preferito l'assoluzione pura e semplice, in ogni caso, la corte ha deciso di esonerarla di una qualsiasi pena e di non intaccare il suo casellario giudiziario", ha commentato parlando di condanna soltanto "parziale".

"Ora - ha continuato - avremmo la possibilità di ricorrere in cassazione, esamineremo certamente questa opzione, ma visto che non c'è nessuna pena credo non sia necessario".

Richiamata a Washington per "imperativi professionali" l'imputata non ha assistito oggi alla sentenza ma aveva invece partecipato alla prima parte del processo apertosi a Parigi la scorsa settimana. Davanti ai giudici ha sempre garantito la sua buona fede. Secondo la tesi accusatoria, avrebbe commesso errori nell'arbitrato fra Tapie e il Crédit Lyonnais, la banca pubblica a cui l'imprenditore reclamava un indennizzo stratosferico per la cessione che si trovò costretto a fare del marchio Adidas. Per mettere fine alla disputa giudiziaria, il ministero da lei guidato decise nel 2007, contro il parere di un organo consultivo, di aggirare la giustizia ordinaria ricorrendo a un arbitrato privato.

L'anno dopo, i tre magistrati individuati concessero oltre 404 milioni di euro di denaro pubblico a Tapie come indennizzo. In Francia scattarono subito le polemiche su un ipotetico inciucio tra l'imprenditore e Sarkozy. La sentenza fu annullata l'anno scorso e l'uomo d'affari considerato vicino all'ex presidente venne costretto a rimborsare quella pioggia di euro.

Oggi Lagarde non è stata condannata per il via libera all'arbitrato, di cui non è responsabile, ma per aver agito con leggerezza, rinunciando a ricorrere contro quel maxi-risarcimento. Di qui la condanna soltanto "parziale" pronunciata dalla corte parigina. A più riprese Lagarde ha sostenuto di aver agito "nell'interesse dello Stato e nel rispetto della legge".

Nella stessa vicenda è indagato tra gli altri anche il suo ex capo di gabinetto al ministero dell'Economia, oggi amministratore delegato di Orange, Stéphane Richard, accusato di truffa, complicità in appropriazione indebita di fondi pubblici e di associazione per delinquere. L'arbitrato oggetto dell'inchiesta è stato annullato nei mesi scorsi e a Tapie è stato chiesto di restituire l'indennizzo ricevuto. "Sono rovinato", commentò allora su Le Monde il navigato businessman transalpino ed ex manager dell'Olympique Marseille.

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Lagarde "negligente", condannata per affare Tapie ma dispensata da pena

 

Lagarde "negligente", condannata per affare Tapie ma dispensata da pena

By Reuters Staff

1 Min Read

La direttrice del Fondo monetario internazionale Christine Lagarde. REUTERS/Charles Platiau

PARIGI (Reuters) - Christine Lagarde, direttore del Fondo monetario internazionale, è stata formalmente condannata per la gestione dell’arbitraggio nell’affare Tapie, giudicata colpevole di “negligenza” ma dispensata dalla pena.

Lo comunica la corte di giustizia della repubblica francese, l’istanza che si occupa dei procedimenti nei confronti di ministri o ex ministri.

La difesa del numero uno Fmi annuncia l’intenzione di fare ricorso contro la sentenza.

Da Washington, intanto, un portavoce del Fondo dichiara che è probabile il board si riunisca a breve per valutare il verdetto della corte francese.

La Lagarde aveva l’incarico di ministro delle Finanze nel governo guidato da Francois Fillon nel 2007, quando si chiuse il lungo contenzioso tra lo Stato e il finanziare Bernard Tapie, che metteva in dubbio la correttezza dell’ex banca pubblica Crédit Lyonnais nella cessione di Adidas.

Sul sito www.reuters.it altre notizie Reuters in italiano.Le top news anche su www.twitter.com/reuters_italia

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Christine Lagarde è stata condannata in Francia

 

Christine Lagarde è stata condannata in Francia

La direttrice del FMI era accusata di "negligenza" nella sua gestione – da ministro dell'Economia – del cosiddetto "affaire Tapie": la sentenza non prevede pena

(MARTIN BUREAU/AFP/Getty Images)


Christine Lagarde, direttrice del Fondo Monetario Internazionale, è stata giudicata colpevole di “negligenza” nel processo cominciato lunedì scorso sulla sua gestione di un caso di frode finanziaria risalente a quasi dieci anni fa, quando era il ministro dell’Economia francese, conosciuto come “affaire Tapie”. Nonostante la condanna la Cour de Justice de la République – un tribunale speciale con sede a Parigi e con il compito di giudicare i casi di infrazioni commesse da ministri della Repubblica francese, che si è occupata del caso – ha ritenuto di non punire Lagarde né con la reclusione né con una multa: rischiava fino a un anno di carcere e 15mila euro di sanzione.

A giudicare Lagarde è stata una commissione composta da tre magistrati e da dodici parlamentari francesi – sei deputati e sei senatori. In breve, Lagarde è stata condannata per non avere fatto abbastanza, da ministro, per far valere le ragioni dello stato in una grossa e famosa contesa legale con l’imprenditore Bernard Tapie, e di aver speso centinaia di milioni di euro pubblici per un risarcimento che poteva essere evitato. Lagarde a questo punto potrebbe perdere il posto di direttrice del FMI: un portavoce del fondo ha detto di aspettarsi che il Consiglio esecutivo si riunisca a breve per valutare cosa fare. Lagarde era stata confermata come direttrice per un secondo mandato quest’anno.

Tapie, oltre alla sua attività da imprenditore, è stato anche Ministro delle città tra il 1992 e il 1993, durante la seconda presidenza di François Mitterrand. Fin dagli anni Settanta, era conosciuto come un imprenditore molto abile nel risollevare aziende sull’orlo della bancarotta: nel 1990 comprò dalla famiglia Dassler il 95 per cento dell’azienda tedesca di abbigliamento sportivo Adidas, che alla fine degli anni Ottanta stava attraversando molte difficoltà economiche. Spese 1,6 miliardi di franchi, l’equivalente di 360 milioni d’euro, grazie a un prestito della banca Crédit Lyonnais, allora controllata dallo stato francese. Tapie risollevò Adidas, spostando la produzione in Asia e assumendo testimonial come Madonna, e nel 1993 l’azienda cominciò di nuovo a ottenere profitti. Quando Tapie fu nominato ministro, Mitterrand gli chiese di vendere Adidas per evitare un conflitto d’interessi. Lui allora affidò la vendita della sua quota della società (allora scesa al 78 per cento) a Crédit Lyonnais, che la vendette nel febbraio del 1993 a una cordata di investitori guidata da Robert Louis-Dreyfus, per 2,1 miliardi di franchi (circa 440 milioni di euro). Una controllata di Crédit Lyonnais, SDBO, era tra gli investitori che comprarono Adidas, partecipando per il 19 per cento all’operazione.

Tapie scoprì solo dopo che Crédit Lyonnais aveva rappresentato sia la parte offerente che quella acquirente nella transazione. La banca nel 1994 vendette a Louis-Dreyfus la sua quota di Adidas, che ancora controllava tramite SDBO: Adidas in quel momento era valutata 2,6 miliardi di franchi (533 milioni di euro). Nello stesso periodo, Crédit Lyonnais stava per fallire, e fu salvata dallo stato attraverso una struttura pubblica appositamente creata, il Consortium de réalisation (CDR). Tapie, che voleva denunciare Crédit Lyonnais per la gestione della vendita di Adidas, portò in tribunale il CDR, in quanto responsabile delle finanze di Crédit Lyonnais. Dopo un processo durato dieci anni, nel 2005 la Corte d’Appello di Parigi condannò il CDR a pagare 135 milioni di euro a Tapie. Ma nel 2006 la Cassazione francese ribaltò la sentenza, ordinando alla Corte d’Appello di valutare di nuovo il caso: Tapie propose allora di creare un arbitraato, cioè un tribunale privato composto da giuristi indipendenti, creato per giudicare oggettivamente una contesa legale. La creazione di arbitrati in Francia è molto rara per casi che sono già passati attraverso la giustizia pubblica, ma nel 2007 l’allora ministro francese dell’Economia, Christine Lagarde, accettò la proposta di Tapie. Meno di un anno dopo, l’arbitrato decise che il CDR doveva pagare a Tapie 405 milioni di euro, per le irregolarità commesse da Crédit Lyonnais nella vendita di Adidas.

I 405 milioni che il CDR doveva dare a Tapie erano soldi pubblici, e la decisione di Lagarde di accettare l’arbitrato, e quella successiva di non contestarne la decisione sul risarcimento, furono molto criticate. Nel 2011 un gruppo di deputati chiese alla Cour de justice de la République di verificare il comportamento di Lagarde. Nello stesso anno emersero anche i rapporti tra Tapie e uno dei giudici dell’arbitrato, Pierre Estoup, considerato il più competente e influente del comitato che decise sul risarcimento. Tapie venne indagato dalla procura di Parigi, e accusato di frode organizzata. Dopo un percorso giudiziario abbastanza tortuoso, nel dicembre del 2015 la Corte d’Appello di Parigi ha condannato la società di Tapie a pagare 404 milioni di euro per l’arbitriato del 2008.

Lagarde era accusata di avere preso decisioni sbagliate quando accettò l’arbitrato e rinunciò a contestarne la decisione sul risarcimento in un tribunale pubblico. Dal processo è emerso che diverse agenzie statali diedero consigli opposti a Lagarde, che secondo la Cour de Justice de la République non consultò l’ufficio legale del proprio ministero, neanche informalmente. La commissione della corte che ha portato avanti l’indagine ha scritto che «le negligenze ripetute commesse in quell’occasione da un ministro con molta esperienza di contenziosi finanziari e della procedura d’arbitrato sono difficilmente spiegabili, se non con la volontà di imporre delle scelte fatte in precedenza». Secondo la stessa commissione, però, Lagarde non aveva legami particolari con Tapie, e ha ipotizzato esplicitamente che possa avere subito pressioni dal presidente della Repubblica di allora, Nicolas Sarkozy, e da altri suoi collaboratori, come il segretario generale dell’Eliseo Claude Guéant, il predecessore di Lagarde al ministero dell’Economia Jean-Louis Borloo e il suo direttore di gabinetto, Stéphane Richard.

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La pregiudicata alla presidenza della BCE: QUANTI CE NE SONO IN REALTA' NELLA UE E NELLE SUE AGENZIE?

 

Fondo Monetario, Christine Lagarde condannata per negligenza per il caso dell’arbitrato Adidas/Tapie

Fondo Monetario, Christine Lagarde condannata per negligenza per il caso dell’arbitrato Adidas/Tapie

La Cour de justice de la République, il tribunale dei ministri di Parigi, l'ha giudicata colpevole nel caso dell’arbitrato Adidas/Tapie ai tempi in cui era ministro dell’Economia di Nicolas Sarkozy. Il procuratore aveva chiesto l’assoluzione ma i giudici non hanno accolto la richiesta. Il direttore del Fmi nei giorni scorsi aveva detto: "Ho agito con coscienza"

di F. Q. | 19 Dicembre 2016



Il direttore del Fmi, Christine Lagarde, è stata condannata dalla Cour de justice de la République, il tribunale dei ministri di Parigi, per “negligenza” nel caso dell’arbitrato Adidas/Tapie ai tempi in cui era ministro dell’Economia di Nicolas Sarkozy (dal 2007 al 2011). Il procuratore aveva chiesto l’assoluzione ma i giudici non hanno accolto la richiesta.

Per l’accusa l’ex ministro avrebbe commesso errori nell’arbitrato fra l’uomo d’affari Bernard Tapie, che reclamava al Crédit Lyonnais un enorme indennizzo per la cessione che dovette fare alla banca negli anni Novanta del marchio Adidas. Per mettere fine alla disputa giudiziaria, il ministero guidato dalla Lagarde decise nel 2007, contro il parere di un organo consultivo, di ricorrere al controverso arbitrato privato. L’anno dopo, i tre magistrati individuati concessero oltre 404 milioni di euro di denaro pubblico a Tapie come indennizzo. La sentenza, nel frattempo, è stata annullata e l’uomo d’affari è stato obbligato a rimborsare la cifra. La Lagarde, secondo le accuse, avrebbe agito “con leggerezza”, rinunciando poi nel 2008 a ogni ricorso.

Lagarde, che oggi non era presente in aula, il primo giorno di udienza era apparsa battagliera: “Non ho intenzione di stare zitta. Ho agito con coscienza e fiducia, il mio unico obiettivo era l’interesse generale”. In una nota, gli stessi esperti del ministero dell’Economia suggerirono alla Lagarde di non optare per l’arbitrato . All’epoca, si è difesa lei, “ricevevo una media di 8.000-9.000 note annuali e questo solo dal ministero del Tesoro…”. In quelle condizioni sei costretto ad avere “fiducia” nei collaboratori, in particolare, il suo ex capo di gabinetto Stéphane Richard. “Quell’arbitrato non era una priorità”, ha insistito Lagarde, dicendo che in quei momenti le preoccupazioni era ben altre, a cominciare da quelle “macroeconomiche” e “internazionali”, all’inizio della grande crisi finanziaria, che lei doveva contenere dalla cabina di comando di un ministero “gigantesco”. Lagarde rischia fino a un anno di prigione e 15.000 euro di multa.

Nonostante la condanna “parziale” per “negligenza” Lagarde “non è stata condannata a nessuna pena” come spiega Patrick Maisonneuve, legale dell’ex ministro. “Avremmo certamente preferito l’assoluzione piena e semplice, in ogni caso, la corte ha deciso di non condannarla a una qualsiasi pena e di non intaccare il suo casellario giudiziario. Ora abbiamo la possibilità di ricorrere in Cassazione, esamineremo questa opzione, ma visto che non c’è nessuna pena credo che non sarà necessario”. Sulle reti all news di Francia i commentatori parlano di una “condanna simbolica”, visto che la direttrice generale del Fmi è stata dispensata dalla pena. Lagarde rischiava fino a un anno di carcere e 15.000 euro di multa. Sempre secondo quanto spiegato da Maisonneuve, Lagarde è stata considerata colpevole solo “parzialmente”. Due erano i capi d’accusa per “negligenza”: 1) aver dato luce verde all’arbitrato Crédit Lyonnais/Bernard Tapie sulla vendita di Adidas. 2) Non aver presentato ricorso contro la successiva decisione arbitrale, poi annullata, che riconobbe a Tapie un maxi-risarcimento da oltre 400 milioni direttamente tratti dalle casse dello Stato. Sempre secondo quanto riferito da Maisonneuve, i giudici non l’hanno ritenuta colpevole del primo punto, in quanto il ricorso all’arbitrato, non può essere considerato come un errore della ex ministra. Lagarde sarebbe stata dunque condannata “parzialmente” solo per il secondo punto, vale a dire, non aver reagito alla decisione arbitrale di risarcire Tapie con una pioggia di euro.

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Revocare la nomina di Mario Vattani ad ambasciatore italiano a Singapore

 

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Lorenzo Tosa started this petition to Presidente della Repubblica Sergio Mattarella

La promozione di Mario Vattani ad ambasciatore italiano a Singapore è una vergogna inaccettabile.

Nel 1989 Vattani partecipò alla brutale aggressione fascista che ridusse due ragazzi in fin di vita. Quell’aggressione coinvolse almeno quindici militanti di estrema destra e portò a 4 condanne per lesioni. Vattani, prosciolto, fu l’unico a risarcire i due ragazzi massacrati con una cifra molto rilevante, ottenendo in cambio il ritiro del processo di rito civile. Vattani poté pagare quella cifra così rilevante perché viene da una famiglia molto influente: suo padre era il consigliere diplomatico di Andreotti.

Non solo. Nel 2009, quando il sindaco di Roma Alemanno venne travolto dalle critiche per avere dato una nomina proprio a uno dei condannati della mattanza del 1989, si scoprì che il consigliere diplomatico di Alemanno - guarda caso - era proprio Vattani.

E ancora. Nel 2011, quando era console in Giappone, Vattani si esibì con il suo gruppo musicale sul palco di CasaPound, tra saluti romani e canzoni contro la Repubblica italiana e i partigiani.

In tutti questi anni Vattani non ha mai dato segnali di pentimento. Anzi, ha continuato a professare pubblicamente le sue simpatie fasciste. L’idea che un simile personaggio “rappresenti” una repubblica democratica e antifascista come l’Italia è semplicemente vergognosa.

Chiediamo al Presidente Mattarella di non firmare e revocare tale nomina inaccettabile. Se sei d’accordo firma anche tu!

Andrea Scanzi, Lorenzo Tosa, Saverio Tommasi, Fabrizio Delprete

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DERIVATI DI STATO: quando Mario Draghi svendette l’Italia alle banche d’affari

 

DERIVATI DI STATO: quando Mario Draghi svendette l’Italia alle banche d’affari

di Thomas Fazi
11 Settembre 2020
in Economia
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DERIVATI DI STATO: quando Mario Draghi svendette l’Italia alle banche d’affari
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Mario Draghi, nel suo recente e molto discusso intervento al Meeting di Rimini (che abbiamo già trattato qui), ha ribaltato una delle architravi della narrazione euro-austeritaria dell’ultima decennio (avallata dallo stesso Draghi), quella dell’imperativo assoluto della riduzione del debito pubblico, costi quel che costi in termini economici e sociali (per maggiori informazioni citofonare alla Grecia), sostenendo che l’attuale fase storica «sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo». Insomma, contrordine compagni: il debito pubblico non è più il male assoluto, ma anzi l’aumento degli stock di debito è una necessità impellente per evitare «una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi fiscale, [che] sarebbe ancora più dannosa per l’economia», come ha dichiarato qualche mese addietro in un’altra occasione.

Allo stesso tempo, però, Draghi si è affrettato a specificare che bisogna distinguere tra “debito buono” e “debito cattivo”, laddove il primo è quello “produttivo”, quello cioè, se decodifichiamo il gergo draghiano, che piace ai mercati finanziari, ovverosia che genera ritorni economici al capitale privato nel breve periodo, mentre il secondo è quello cosiddetto “improduttivo”, ovverosia quello che, nella migliore delle ipotesi, pur generando rendimenti sociali di lungo periodo potenzialmente molto benefici per la società nel complesso – laddove venisse utilizzato, poniamo, per aumentare le assunzioni e le retribuzioni di medici e insegnanti –, non offre rendimenti economici nel breve termine. Insomma, non siamo di fronte a nessuna conversione sulla via di Damasco, come hanno sostenuto alcuni; più banalmente, cambiano gattopardescamente le parole (“debito” al posto di “austerità”) affinché non cambi nulla: la visione del mondo e della società che sottende le parole di Draghi, e gli interessi che quest’ultimo rappresenta, sono gli stessi di sempre.

Ma il punto che ci preme sottolineare in questa sede è un altro. Fa specie che proprio Mario Draghi si permetta di moraleggiare di debito buono e debito cattivo, considerando che proprio Draghi, negli anni Novanta, quando era direttore generale del Tesoro italiano (carica che ha ricoperto dal 1991 al 2001, per poi andare alla Goldman Sachs), ha sovrinteso all’emissione, da parte dello Stato italiano, di una montagna di titoli di debito tra i più “tossici” e speculativi al mondo, di cui ancora oggi paghiamo – letteralmente – le conseguenze. Stiamo parlando, ovviamente, dei famigerati derivati di Stato.

Di cosa si tratta? I derivati sono degli strumenti finanziari che derivano il loro valore dall’andamento del valore di un’attività sottostante, che può avere natura finanziaria (come ad esempio i titoli azionari, i tassi di interesse e di cambio, gli indici ecc.) o reale (come ad esempio il caffè, il cacao, l’oro, il petrolio ecc.). Ora, se è vero che in alcuni casi i derivati possono servire a ridurre legittimamente i rischi di portafoglio, permettendo per esempio a un investitore di negoziare con un venditore il prezzo di un bene che intende acquistare in una data futura e dunque di tutelarsi rispetto a un aumento del costo del bene in questione, è altresì vero che la maggior parte dei contratti derivati ha una natura puramente speculativa, consiste cioè nell’assunzione di un rischio con l’obiettivo di conseguire un profitto.

Una scommessa, insomma, non diversa da quelle praticate quotidianamente nell’ambiente del gioco d’azzardo. Con la differenza, però, che i derivati finanziari muovono cifre incomparabilmente più grandi (si stima che il valore nozionale dei derivati in circolazione a livello mondiale sia pari a più di trenta volte il PIL mondiale) e, quando le cose vanno male, possono avere ripercussioni molto pesanti anche sull’economia reale; non a caso i derivati hanno giocato un ruolo fondamentale nella crisi finanziaria del 2007-9, tanto che molti al tempo proposero (invano) di metterli fuorilegge una volta per tutte.

Veniamo ora ai contratti derivati sottoscritti dallo Stato italiano ai tempi di Draghi. Siamo alla metà degli anni Novanta e in quel periodo le élite del nostro paese – Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato, Romano Prodi e ovviamente lo stesso Draghi, solo per citarne alcuni – avevano un unico obiettivo: aggiustare (letteralmente) i conti pubblici per ottemperare ai criteri di Maastricht e permettere così all’Italia di aderire all’euro. Ed è qui che entrano in gioco i derivati. La maggior parte dei derivati sottoscritti in quegli anni, per un valore di circa 160 miliardi, consisteva in cosiddetti interest rate swap: in sostanza lo Stato riceve da una banca d’affari un flusso di cassa a tasso variabile sufficiente a ripagare un certo numero di titoli in scadenza e in cambio si impegna a pagare alla stessa banca un tasso fisso a lunga scadenza.

Questo ha permesso all’Italia di ridurre artificialmente il proprio deficit di qualche decimale, con il placet della Commissione europea e di Eurostat, l’agenzia statistica europea, le cui regole, successivamente modificate in parte, permettevano al tempo di contabilizzare come un’entrata quello che di fatto è un debito. Nonché, ovviamente, una scommessa: in sostanza, se i tassi fossero cresciuti – come effettivamente è stato fino ai primi anni Duemila – lo Stato italiano ci avrebbe guadagnato; se invece fossero scesi, ci avrebbero perso, a tutto vantaggio delle banche d’affari. Se, dunque, in una prima fase, l’Italia ha effettivamente realizzato dei guadagni sui derivati creditizi, a partire dal 2005, con la riduzione dei tassi, i derivati hanno cominciato a generare perdite sempre più ingenti per lo Stato: qualche anno fa (non ho trovato stime più recenti) è stato lo stesso governo, dopo aver apposto per anni una sorta di informale segreto di Stato sulle perdite relative ai derivati, ad ammettere, in seguito a un’interrogazione parlamentare, che il valore di mercato dei derivati in questione era negativo per circa 35 miliardi di euro (e positivo per un valore equivalente per le banche). Una danno monumentale per l’erario, soprattutto in tempo di austerità (ma non per tutti, evidentemente).

Ma la vicenda non finisce qui. Oltre agli strumenti derivati più tradizionali sopracitati, tra la metà degli anni Novanta e la metà degli anni Duemila l’Italia ha anche sottoscritto operazioni più speculative, note come swaption, inserite nell’operatività del Tesoro proprio quando direttore generale era Mario Draghi. Una swaption consiste nella vendita da parte dello Stato, in cambio di un premio, di un’opzione che attribuisce alla banca acquirente la facoltà di decidere se sottoscrivere o meno, in una data futura, un interest rate swap a un tasso fisso prestabilito. Va da sé che si tratta di un’operazione ancora più rischiosa – o, appunto, speculativa – di un normale swap, poiché comporta il rischio per la parte venditrice, in questo caso lo Stato, di ritrovarsi a firmare un contratto swap che presenta condizioni sfavorevoli già al momento della stipula. Questo è esattamente quello che è successo nel 2005, quando la banca d’affari statunitense Morgan Stanley ha deciso di attivare una swaption sottoscritta l’anno precedente, in virtù della quale lo Stato aveva incassato un premio di 47 milioni di euro. Peccato che, secondo la Corte dei Conti, lo swap in questione aveva già in partenza un valore di mercato negativo di 600 milioni di euro; sarebbe a dire che da lì al 2035 quello swap sarebbe costato al Tesoro 600 milioni di interessi netti.

Ma non finisce neanche qui. Un accordo quadro siglato nel 1994 dal Tesoro sempre con la Morgan Stanley, che doveva regolare tutti i successivi derivati sottoscritti con la banca, includeva una clausola secondo la quale la banca americana avrebbe potuto esigere unilateralmente (a differenza dei contratti con le altre banche, che prevedevano clausole bilaterali) l’immediata chiusura di tutti i derivati, nel momento in cui il valore della propria esposizione nei confronti dello Stato avesse superato una certa soglia, variabile a seconda del rating dello Stato italiano. Nonostante quella soglia sia stata superata nel 2003, però, la Morgan Stanley ha continuato a firmare o a rinegoziare diversi contratti con il Tesoro, vedasi la swaption del 2004, aumentando in misura sostanziale l’esposizione negativa del Tesoro, senza che la banca attivasse la clausola per estinguere i derivati e farsi pagare dal governo italiano il valore di mercato degli stessi, a quel punto già negativo, così come prevedeva l’accordo del 1994. «Non avevamo conoscenza di tale clausola», avrebbero dichiarato in seguito i dirigenti del Tesoro.

La Morgan Stanley ha scelto di esercitare quella clausola solo nel 2011, all’indomani dell’attacco finanziario all’Italia che spianò la strada al governo “tecnico” di Mario Monti – attacco finanziario ordito, curiosamente, sempre dallo stesso Draghi, che «decise di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della BCE» per far schizzare in alto lo spread e costringere Berlusconi alle dimissioni, come ammesso persino da Mario Monti qualche tempo fa. È a quel punto che la banca d’affari – adducendo come causale il declassamento del rating italiano, pochi mesi prima, da parte dell’agenzia di rating statunitense S&P, tra i cui azionisti figura la stessa Morgan Stanley – decide di chiudere unilateralmente in maniera anticipata tutti i suoi contratti in essere con lo Stato, incassando sull’unghia dal governo Monti, che nel frattempo annunciava misure lacrime e sangue per i cittadini italiani, la colossale cifra di 2,5 miliardi di euro (di cui un miliardo relativo solo all’accordo del 2004, per il quale lo Stato aveva incassato, lo ricordiamo, ben 47 milioni di euro: lasciamo al lettore il calcolo del bilancio finale). Piccola curiosità: fino a qualche anno prima il figlio di Monti, Giovanni, aveva lavorato proprio alla Morgan Stanley.

Una vicenda talmente clamorosa da spingere la procura della Corte dei Conti, nel 2013, a citare in giudizio la Morgan Stanley per danno erariale. Secondo l’accusa, la banca si sarebbe resa responsabile del 70 per cento di un danno complessivo da 3,9 miliardi, commettendo, con la sua decisione di chiudere tutti i suoi contratti, nel 2011, «palesi violazioni dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione contrattuale». Questo perché la banca ricopriva un ruolo particolare, quello di “specialista”: si tratta delle banche che assistono il governo nelle aste dei titoli di Stato e che in quel ruolo devono contribuire alla gestione del debito pubblico anche attraverso un’attività di consulenza e ricerca.

Ancora più sorprendente, però, era la richiesta di risarcimento della Corte del restante 30 per cento dei danni, pari a più di un miliardo di euro, a carico dei dirigenti del Tesoro che per anni non si accorsero della succitata clausola: Maria Cannata, al Tesoro dal 1992 e dal 2000 a capo della direzione del debito pubblico, carica che ha ricoperto fino al 2017; il suo predecessore Vincenzo La Via, nominato alla direzione generale del Tesoro nel 2012 (fino al 2018); e gli ex direttori generali del Tesoro Domenico Siniscalco (2001-2004), poi passato, indovinate un po’, alla stessa Morgan Stanley, e Vittorio Grilli (2005-2011), diventato poi viceministro e successivamente ministro dell’Economia del governo Monti tra il 2011 e il 2013 (cioè nel periodo in cui fu liquidata la somma alla Morgan Stanley), per poi passare infine alla JPMorgan, altra banca d’affari statunitense. L’accusa era che alcuni contratti di derivati evidenziavano chiari «profili speculativi» che non li rendevano idonei alla finalità di ristrutturazione del debito, ossia l’unica finalità ammessa dalla normativa vigente. Né sarebbero state attivate adeguate garanzie. Curiosamente Mario Draghi non figurava tra gli imputati, nonostante ci fosse lui a capo della direzione generale del Tesoro quando fu siglato l’accordo quadro con la Morgan Stanley e quando le swaption furono inserite nell’operatività del Tesoro.

Quel processo si è intrecciato, seppur indirettamente, a un’altra indagine condotta dalla procura di Trani nei confronti delle agenzie di rating S&P e Fitch, accusate di aver deliberatamente generato il panico sui mercati con i loro declassamenti del 2011, alimentando così la speculazione ai danni del nostro paese, nonché di aver offerto il casus belli alla Morgan Stanley – azionista, lo ricordiamo, della stessa S&P – per recedere dal suo contratto con il Tesoro e chiedere la liquidazione dell’attivo in suo favore per circa 2,5 miliardi. Ciò su cui volevano far luce i magistrati era perché il Ministero dell’Economia avesse liquidato la somma «senza battere ciglio» e non avesse ritenuto di chiedere un parere giuridico sulla possibilità di difendersi da quella clausola o quantomeno di prendere tempo in attesa di capire la legittimità e trasparenza di quei declassamenti, considerando i legami azionari tra S&P e Morgan Stanley ma soprattutto il fatto che al tempo il procedimento penale della procura di Trani nei confronto delle agenzie di rating era già in corso. Nessuno dei diretti interessati – né Cannata, né Monti, né altri – si è però sentito in dovere di aiutare a fare luce sulla vicenda, schermandosi dietro alla ragion di Stato, di tutte le cose: mettersi di traverso o anche sospendere il versamento per chiarire la situazione «sarebbe stato reputazionalmente deleterio», dichiarò Cannata, che aggiunse di non essere a conoscenza della partecipazione di Morgan Stanley nella S&P.

Purtroppo entrambi i processi si sono conclusi con un nulla di fatto: nel 2017 i giudici di Trani hanno assolto S&P e Fitch, mentre nel 2019 la Corte dei Conti ha deliberato l’impossibilità di procedere contro gli ex vertici del Tesoro per «difetto di giurisdizione», riconoscendo cioè che i giudici non possono sindacare le scelte discrezionali dei funzionari se queste sono prese nel rispetto della legge. Eppure sono ancora tanti, troppi i punti oscuri in questa assurda vicenda, che riassume molti dei mali dei nostri tempi: la finanziarizzazione del debito pubblico, che da (fondamentale) strumento di politica economica è diventato, soprattutto in virtù della rinuncia dell’Italia alla sua sovranità monetaria, un veicolo per trasferire risorse dal basso verso l’alto e in particolare verso la grande finanza internazionale; il fenomeno delle “porti girevoli” tra politica e finanza (praticamente tutti i protagonisti della vicenda sono poi andati a lavorare per qualche grande banca d’affari o venivano da lì, come nel caso di Monti); l’infimo livello delle nostre classi dirigenti, che ormai da tempo rispondono a logiche che nulla hanno a che vedere con l’interesse nazionale; la spregiudicatezza delle oligarchie internazionali e dei loro lacchè locali, che non si fanno scrupolo di commettere i loro saccheggi alla luce del sole; i limiti del diritto, data la capacità del capitale oligarchico di piegare la legge ai propri interessi.

E al centro di questa trama c’è una persona in particolare, che non a caso ha fatto la carriera più stellare di tutti: l’ex presidente della BCE Mario Draghi. Che oggi, forte probabilmente del consenso pressoché unanime di cui gode nel nostro paese maledettamente smemorato, si permette persino di dare lezioni in materia di debito buono e cattivo. Chissà in quale categoria Draghi collocherebbe i derivati e i contratti capestro siglati dall’Italia all’epoca della sua permanenza al Tesoro, che sono costati al paese – e che continueranno a costarci negli anni a venire – decine e decine di miliardi.

Per concludere, un piccolo quiz. Dove lavorava secondo voi il figlio di Draghi, Giacomo, all’epoca dei fatti relativi alla famigerata swaption con la Morgan Stanley, cioè tra il 2004 e il 2011? Ma che domande: alla Morgan Stanley, ovviamente!

Fonte: sinistrainrete.info

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QUALE RIVOLTA, PER QUALE FUTURO?

 

QUALE RIVOLTA, PER QUALE FUTURO?

di Massimo Franceschini
14 Giugno 2020
in Esteri
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QUALE RIVOLTA, PER QUALE FUTURO?
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In risposta all’articolo di Umberto Spurio, apparso nei giorni scorsi e riguardante il tema delle rivolte negli Stati Uniti, è giunto alla Redazione un articolo di Massimo Franceschini, che su alcuni punti muove delle critiche. Pensiamo che l’azione delle masse popolari nel riprendersi gli spazi pubblici di protesta, sia senza dubbio cruciale per rivitalizzare la nostra democrazia fortemente depotenziata negli ultimi decenni. E’ giusto al tempo stesso consentire la maggiore partecipazione possibile su questo tema, che non riguarda soltanto l’America ma anche la Francia dei gilet gialli e la loro parabola, per alcuni fortunata, per altri insoddisfacente. A breve seguirà la replica finale di Umberto Spurio.

* * *

La situazione socio-politica attuale necessita di ben altro impegno ed ingegno, rispetto a quanto espresso nei decenni passati

Con questo articolo intendo svolgere varie riflessioni, anche in relazione a quale approccio debba avere una politica che possa realmente chiamarsi alternativa al “sistema” che stiamo vivendo sulle nostre teste.

Quanto andrò a dire è ispirato da questo articolo, sempre pubblicato su Liberiamo l’Italia, in cui ravvedo quelli che reputo “errori” in relazione all’analisi svolta, e con il quale dissento riguardo agli auspici finali.

Ciò che andrò a dire è da intendersi come contributo di discussione in merito al carattere dell’impegno politico ed alle prospettive del movimento.

Il tema dell’articolo è quello delle manifestazioni in USA, poi esportate in tutto il mondo da una sapiente regia, susseguitesi all’uccisione di un cittadino di colore da parte delle forze di polizia.

Non sto qui a narrare la storia, ormai ampiamente sviscerata da ogni angolazione, almeno nel WEB, storia che potrebbe comunque rivelarci ancora sorprese.

L’apertura dell’articolo spiega il problema sollevato dall’autore.

Le imponenti manifestazioni di protesta che stanno scuotendo “il paese delle opportunità” sono lette in due versioni: una vede le proteste come effetto della propaganda anti Trump delle forze di potere più o meno nascoste (deep state) che ruotano intorno ai liberal (Obama, Clinton); un’altra vede una ribellione priva di progetto politico per conquistare il potere elettorale e dedita solo a saccheggi e disordini.

Entrambe le letture sono in errore. La prima commette l’errore di esaltare troppo il ruolo di chi soffia sul fuoco per aizzare le folle contro Trump; la seconda commette l’errore di guardare solo ai saccheggi e ai danneggiamenti (per altro limitati e circoscritti a ben poche situazioni).

[…] la prima nega che sono le gravi contraddizioni sociali ed economiche a produrre rivolta e la seconda nega la portata politica della rivolta. In qualche caso le due letture sono fuse per partorire l’idea che la rivolta si è sviluppata per effetto delle azioni, più o meno sotterranee, dei liberal obama-clintoniani e non ha respiro politico per costruire un partito che vinca le elezioni come dimostrato dai danneggiamenti.

Fermiamoci qui, per ora.

Anche se sono completamente consapevole dei gravissimi problemi socio-economici degli USA e del sostanziale razzismo ancora molto presente nel tessuto sociale, non posso non notare che la parte violenta prende la scena della maggioranza pacifica; non posso comunque non tener conto del fatto che gli Stati interessati siano per la maggior parte dem, con episodi assai “singolari” di poliziotti che forniscono bancali di mattoni da lanciare ai “rivoltosi” o che lasciano bruciare le loro macchine messe in bella fila; in ultimo, non posso non vedere come questo caso sia condizionato dalla campagna elettorale e dalle minacce di Trump in relazione all’Obamagate ed alla sua volontà, reale o presunta, ma chiaramente espressa, di fermare il deep state ed arrestare la Clinton.

Oltre a questo vediamo che in men che non si dica le organizzazioni dietro la protesta, finanziate anche da Soros e da svariate multinazionali, le stesse che giorno dopo giorno “ambientano” il nostro presente e costruiscono l’“amorevole” futuro di controllo post covid – il documento Colao di questi giorni ne è prova lampante – hanno messo in campo tutto il potere mediatico per regalarci una tournée estiva della protesta stile gruppo rock assai ben servita da media che, a crimini similari compiuti però in altri momenti, hanno dato spazi assai minori.

Insomma, per farla breve, trovo la protesta del tutto normale, almeno nella sua parte pacifica e largamente maggioritaria, mentre quella violenta, insieme alla conseguente operazione mediatica ed “internazionalista”, credo rispondano ad esigenze ben precise legate alle elezioni di novembre, culmine della faida fra deep state e “patrioti” capeggiati da Trump, di cui non vediamo ancora gli esatti contorni; una lotta che non credo si possa negare e che sembra scompaginare in modo inusitato, anche in maniera trasversale, assetti politici e molto altro ancora fino ad arrivare, potenzialmente, a mettere in dubbio e riscrivere l’attuale globalizzazione.

Riguardo al fatto che la rivolta non avrebbe “respiro politico per costruire un partito che vinca le elezioni come dimostrato dai danneggiamenti”, indicando questo come un errore di lettura, l’autore non apporta dati o ragionamenti che indichino, al contrario, una reale presenza organizzativa di questo “respiro”.

Seguitiamo con l’articolo.

Quello che manca completamente in queste letture è il riconoscimento che nella fase attuale del dominio capitalistico la potenza messa in campo dagli apparati di sistema è di tale portata e penetrazione da prevenire ogni possibilità di arrivare a disturbare il manovratore. […]

La domanda è: il neoliberismo con la sua economia predatoria, guerrafondaia, emarginante, che assegna tutti i poteri ai mercati finanziari, è il nemico delle classi popolari che protestano? Se la risposta è Sì, chi può affermare che esso consenta la nascita di un progetto politico parlamentare che dichiari di volerlo spazzare via, di togliere potere ai mercati e di costruire un’economia comunitaria?

Quindi, se l’autore riconosce la potenza del sistema nell’impedire la nascita di un progetto politico alternativo, ma vede un errore nel ritenere la protesta non in grado di esprimere un partito che vinca le lezioni, credo di doverne dedurre – a meno di non aver frainteso, cosa della quale mi scuserei in anticipo – che se dalla protesta nascesse un soggetto politico, comunque non sarebbe realmente di rottura per il sistema, ok?

Altrimenti, se ho ben capito, ci sarebbe una contraddizione nel ragionamento.

Anche la questione del non poter “arrivare a disturbare il manovratore”, mi sembra si riferisca al sistema in generale, data la sua potenza; quindi, anche qui, l’eventuale progetto politico che si formasse dalla protesta non arriverebbe a disturbare chi detiene le leve del potere.

Credo occorra dire qualcosa anche sul “manovratore”: descrivendo la forza e la penetrazione degli apparati del sistema, l’autore sembra intendere con questo termine il sistema stesso, non l’attuale presidente.

Anche qui non mi trovo concorde, dato che secondo me, con tutta evidenza, si è organizzato tutto il gran casino sopra le proteste pacifiche proprio per mettere in difficoltà Trump, e magari distogliere l’attenzione da questioni come l’Obamagate ed altre, che se esplodessero in tutta la loro portata metterebbero in seria difficoltà i “dem”, anche in Italia.

E veniamo alla conclusione dell’articolo, sulla quale ho le più grandi perplessità.

Dunque se non vogliamo credere alle befane, apriamo gli occhi e riconosciamo una cosa: la tendenza al cambiamento vero, quello che scuote dalle fondamenta tutto il marciume del sistema predatorio neoliberista, ha la forma dell’insurrezione popolare proprio perché ogni altra possibilità è preclusa al popolo o boicottata, dall’affitto di sedi organizzative, alle campagne mediatiche, dalle criminalizzazioni fatte ad arte alle infiltrazioni di agenti provocatori, dalla mancanza di supporto legale alla mancanza di soldi.

La tendenza all’insurrezione viene con ogni evidenza dimostrata dal movimento dei gilet gialli francesi.

La questione centrale è dunque un’altra: la costruzione di un organismo politico che dia direzione e coerenza rivoluzionaria alle ribellioni.

Intanto diciamo che, proprio grazie alla pervasività del sistema, trovo assai difficile poter arrivare a dar direzioni e coerenze a fenomeni troppo esposti alle infiltrazioni sistemiche, all’opera dei media, all’azione di apparati e corporazioni in grado di capire, conoscere e “guidare” praticamente tutto, viste le tecnologie che usano.

L’illusione di poter cavalcare vere o presunte “insurrezioni” ci rimanda, a mio parere, a prassi da anni ’60-’70 del tutto controproducenti, oltreché fuori dal tempo: questo se teniamo conto proprio della pervasività del sistema, pure ammessa dall’autore, in grado di iniettare quel “pensiero unico progressista” capace di prendere possesso della maggior parte delle persone come mai accaduto prima, anche delle menti più istruite e potenzialmente più “libere”.

Ed anche qui mi sembra di riscontrare un’analisi non del tutto centrata se, come a me pare, si intende dimostrare la presenza di una generale “tendenza all’insurrezione” introducendo la questione gilet gialli, fenomeno ben diverso ed a mio parere non assimilabile a quanto accade negli USA.

L’esperienza francese ci mostra anche l’assoluta sproporzione fra l’impegno profuso, certamente encomiabile, con i risultati ottenuti: praticamente nulli elettoralmente e del tutto insufficienti nell’intaccare il sistema ed i rapporti sociali.

Non ho seguito abbastanza la loro vicenda, ma non credo si sia realizzata la “costruzione di un organismo rivoluzionario” che avrebbe dato “direzione e coerenza rivoluzionaria alle ribellioni”: il sostanziale fallimento del movimento, credo ormai spento, è quindi dovuto a tale mancanza?

Siamo sicuri che un “soggetto rivoluzionario” sarebbe stato ben metabolizzato dai gilet gialli?

Soprattutto se, inoltre, si fosse presentato con bandiere ideologiche atte a riportare la narrazione al secolo scorso, come se il fallimento di tutto ciò non sia ormai più che evidente e conclamato, anche se forse non ancora completamente metabolizzato da tutti.

Come possiamo ancora pensare, oggi come oggi, che avanguardie rivoluzionarie di vecchia memoria possano condurre le “masse” verso una liberazione?

Facendo anche parte della Confederazione Sovranità Popolare, sono fra i primi ad aver espresso la speranza che da movimenti ed associazioni possa nascere un nuovo partito, ma solo se capace di riunire il fronte alternativo sotto le insegne di Costituzione e dei diritti umani: i valori unificanti che contengono le migliori aspirazioni del ‘900, quei diritti sociali e civili espressi in una forma che non avrebbe permesso, se onestamente perseguiti, l’opera di divisione sociale sul quale si sono gettate le ideologie, con i risultati che tutti possiamo oggi vedere.

A tale scopo sto anche scrivendo una serie di articoli su quello che chiamo un “partito ideale”, in cui intendo tracciarne contenuti, carattere, strutture e funzionamento.

Penso che “ribellione” sia oggi una voce facilmente “digeribile” dal pensiero unico, che ha da un bel pezzo compreso come ridurre a moda passeggera ed ininfluente ogni istanza diversa dal buonismo di Stato, magari cooptandola in un disegno più grande di oppressione spacciata per “progresso”, come per tematiche in ordine alla biopolitica e la questione gender.

Penso che solo una nuova POLITICA trasparente ed unificante, espressione resiliente di ciò che non possiamo ancora perdere, abbia ancora una pur minima chance di rompere l’accerchiamento: a patto che provenga da un atto  visibile ed umile, in cui i migliori e disinteressati militanti, intellettuali, giuristi, filosofi, artisti e giornalisti smettano le insegne ideologiche, depongano le armi dialettiche e si siedano al tavolo per descrivere il nuovo Stato di diritto, vera espressione di comunità non più sovrane, che ancora non capiscono come diritti civili e sociali possano convivere in maniera responsabile e creativa.

Solo i diritti umani e le Costituzioni che li incarnano hanno questa sintesi, per tutto il resto c’è quanto “concesso” dalla giostra politica-spettacolo, fra un talk ed un’“emergenza sanitaria”, parte 1.

Fonte: https://www.massimofranceschiniblog.it/

9 giugno 2020

fonte immagine: Flickr

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DALLO STATO DI DIRITTO ALLO STATO DI CONCESSIONE

 

DALLO STATO DI DIRITTO ALLO STATO DI CONCESSIONE

di Emiliano Gioia
18 Gennaio 2021
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DALLO STATO DI DIRITTO ALLO STATO DI CONCESSIONE
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Attenzione… Allarme…

Quello cui state assistendo non è un esercitazione! Quello che vedete è il proseguio di un progetto che parte da lontano, che ha vissuto dei momenti “magici” come la modifica della legge Anselmi del 1978, la promulgazione della legge Balduzzi del 2012, la cancellazione dell’articolo 18, la nascita della legge Gelli nel 2017 lo stesso anno in cui è nata la legge 119 della Lorenzin. Tutti passaggi che hanno creato l’epoca che stiamo vivendo in cui la sanità pubblica, trasformata da strumento per assolvere un importante diritto costituzionale come la salute, in una concessione data da aziende convenzionate con lo stato.

Così l’esercito che in Italia si occupa di sanità, oggi in piena pandemia mondiale, si è trasformato in uno dei settori speculativi di maggior rilevanza nel paese, ed i lavoratori dipendenti di quel settore  in galline dalle uova d’oro da sfruttare.

Di questi giorni è la polemica sull’obbligo vaccinale per chi lavora nella sanità, lo stesso obbligo che ha escluso dal sistema scolastico i bambini 0-5 a partire dal 2017, un imposizione indiretta: i dirigenti ospedalieri, i datori di lavoro così come fu per i dirigenti scolastici trasformati in responsabili per eventuali contagi negli spazi da loro gestiti che, per questo, escludono dal lavoro coloro che non vogliono essere privati della libertà di scelta sul proprio corpo; questo sui lavoratori si trasforma in minaccie di licenziamento.

Ma sono davvero i lavoratori l’obiettivo? È davvero la salute pubblica quello cui lo stato ambisce?

In un paese in cui i lavoratori con contratti a tempo indeterminato sono davvero pochi e perlopiù abbiamo persone con contratti atipici, a tempo determinato, contratti a progetto dalle mille arzigogolate modalità, quanti piegheranno la testa ed accetteranno questa imposizione?

E se l’obiettivo fosse quello di ridurre un altro diritto in concessione???

Parliamoci chiaro se passa il concetto che il lavoro è una concessione, così come la salute, perché non dovrebbe esserlo l’istruzione?

Immaginate, i ragazzi dai 6 ai 16 anni che oggi possono accedere nelle scuole, anche senza vaccini pagando una sanzione amministrativa, per avere il diritto all’istruzione, se passa l’esclusione dei lavoratori contrari all’obbligo, perché non dovrebbero conseguentemente essere espulsi dalle scuole?!

Una generazione che di fatto sarà vittima di un passaggio epocale: la trasformazione dello stato di diritto nello stato di concessione.

La trasformazione delle comunità in community, la costituzione sostituita dalle policy. È chiaro che in un mondo in cui, il capitalismo ha preso il controllo di ogni settore della società fino a trasformare i diritti in merce, la verticalizzazione del potere è indispensabile.

Ed è altrettanto chiaro che non basteranno atteggiamenti ribelli e riforme sociali.

Per tornare ad uno stato di diritto con aspirazioni umanistiche è indispensabile un presa di coscienza della situazione attuale per sperare in una nuova evoluzione che porti gli individui a vedersi protagonisti della propria esistenza.

“Mala tempora currunt”.

Solo noi, riconoscendo la tirannide ideologica e le strategie che usano, potremo tornare a far risorgere il sole.

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L’OBBEDIENZA NON E’ UNA VIRTU’

 

L’OBBEDIENZA NON E’ UNA VIRTU’

di Floriana Balducci*
27 Dicembre 2020
in Sociale
2
L’OBBEDIENZA NON E’ UNA VIRTU’
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Letture: 81

Riflettere non è cosa che nel XXI secolo facciamo volentieri. Lo sappiamo e lo ripetiamo in continuazione.. dobbiamo agire, fare, muoverci, digitare, chattare, lavorare, comprare, vendere, parlare. Attività che richiedono la lentezza, come riflettere, leggere, ascoltare sono sgradevoli e sgradite. Chi insegna lo sa perfettamente.

Non piacciono, queste attività, non solo ai giovanissimi, i cosiddetti “millennials”, parola orribile e priva di senso, come in genere quelle che mutuiamo dall’inglese, non a caso lingua veloce, e poco ricca di sfumature lessicali, che tutti parlano o dicono di parlare. Non piacciono neppure agli adulti. A quelli di età compresa tra 40-50 anni soprattutto.

Naturalmente tutto questo è filtrato dalla mia esperienza personale … Però tra mille difetti ho il pregio di essere osservatrice attenta: e vedo intorno a me donne e uomini fatti che con la testa china sui tablets e sui cellulari chattano in continuazione, e dichiarano di informarsi via internet, e difatti ripetono nei loro discorsi parole mutuate dalla rete e credono come all’oracolo a quanto leggono sul loro smartphone. Ognuno ha la sua Delfi. Panorama a parte.

Nulla da dire. Non si può negare il merito di avere oggi la possibilità di conoscere in tempo reale eventi e fatti. Ma occorrerebbe un ulteriore passaggio, fondamentale. E cioè che informazioni, letture, parole fossero ri-masticate, ri-visitate, ri-pensate con calma e senso critico da ciascuno di noi. E questo raramente accade. Costa fatica. Rallenta. Infastidisce. Può indurre a dubitare ed è proprio questo che non vogliamo fare, perché … Perché il dubbio su un singolo fatto, su una singola parola potrebbe produrre una sorta di effetto domino. In tal modo ci sentiremmo sospesi, senza rassicuranti certezze e saremmo costretti a confrontarci con gli altri per chiarimenti, domande, risposte. Confrontarci non coi like, il ditino su e giù, ma gli altri di carne e ossa.

Ci chiederemmo inevitabilmente infatti chi ha detto, chi ha scritto, chi ha pensato certe parole e/o teorie e come e quando e dove e perché.. Insomma un casino. Il ditino dei like invece lo puoi dimenticare, lo puoi ignorare. Non mina il tuo mondo sicuro di certezze, di frasi fatte, di emoji e di faccine.

Avete mai riflettuto sulle tonnellate di cuori e bacini e manine che ci arrivano su whatsapp? Quando li vedi, non si può negare, ci sentiamo amati, accettati, ci sentiamo in gamba. Tutti ci amano e se qualcuno ci odia … possiamo ignorarlo o odiarlo a nostra volta da lontano o cancellarlo e/o sputtanarlo con altri simboli su altre chat. Insomma, chissenefrega.

La persona che non la pensa come noi, che può dircelo, motivarcelo, spiegarcelo in presenza va affrontata e bisogna essere in grado di farlo. Dobbiamo a nostra volta motivare, spiegare, discutere ciò che pensiamo e perché lo pensiamo… Devi avere idee tue davvero e idee chiare, che per essere tali devono scaturire da una riflessione, implicano una  presa di posizione. Idee che sono state interiorizzate, per le quali sappiamo trovare parole e dimostrazioni efficaci, che reggano l’onere della prova dell’antitesi argomentativa.  Frutto di una sorta di dialettica interiore. Ma quanto tempo costa. Quanta energia improduttiva in termini di risultati concreti, come quelli che nella nostra società capitalistico-digitale contano unicamente. E questo lavorio faticoso è tipico ormai  solamente di chi ha vocazione filosofica.  E non dimentichiamo che la filosofia  è una malattia che  i più evitano da secoli, almeno dalla rivoluzione industriale in poi, essendo tipica di  colui o colei per cui il fare conta meno dell’essere. Essere non nel senso di Fromm, chiaramente, ma nel senso dei millennials … Essere come omologazione, accettazione, imitazione.

Che diavolo c’entra tutto questo pistolotto con il tempo del covid? Me lo chiedo da sola, non perché sono sola fisicamente essendo questi tempi di quarantena, o zona rossa o variamente colorata o altra fantasiosa  invenzione partorita dai cervelli, si fa per dire, che conducono noi poveri cristi per mano da nove lunghi mesi in questa via crucis della pandemia, raccomandandoci, ordinandoci, spaventandoci su quanto ci circonda, memento mori, come se fossimo incapaci di avere paura da soli. Siamo capaci, garantito.

In tempo di covid, di vita relegata in casa, condizionata negli scambi sociali e ahimè culturali, si potrebbe credere che l’atto del pensare, del riflettere sia facilitato: c’è più tempo, c’è più solitudine, meno distrazioni. Completamente sbagliato, a parer mio.

In questa sorta di tempo sospeso il riflettere invece fa ancora più paura. Si teme di scoprire che i nostri pensieri più nascosti sono difformi da quanto viene accettato comunemente e sdoganato come accettabile. Di scoprire che abbiamo idee non condivise, come se ciò significasse ipso facto che non sono condivisibili. Paura fuori e paura dentro di noi… troppo da sopportare. Allora viene a soccorrerci l’istinto di conservazione.

Sospendiamo il giudizio sui fatti, smettiamo di interrogarci sul giusto e lo sbagliato, ci mettiamo a “fare”. Ci teniamo occupati. Facciamo di tutto. Ci mettiamo a cucinare, come all’inizio della quarantena, a cantare sui balconi, a chattare con gli amici e anche i non amici, a seguire le serie di cuochi e cucine in tv: tutto, pur di evitare l’incubo. Che è: Pensare con la nostra testa. Per esempio al virus. Quella sfera con gli spunzoni colorati che ci uccide. Che ci pensino i medici, i virologi a quello che bisogna fare noi. Noi ascoltiamo in religioso silenzio e fingiamo di non cogliere contraddizioni, sciocchezze, castronerie inframmezzate alla verità. Noi obbediamo.

Ciechi, sordi, muti. Crediamo a tutto riguardo ai dati e alle cure. Al numero dei morti. Al fatto che ne usciremo, o non ne usciremo. Qualsiasi cosa diranno loro è giusta, ci toglie un bel pensiero, interrogarci su quello che pensiamo davvero noi. Non in merito alla malattia, non potremmo farlo,  lo fanno gli esperti ed è giusto così, ma in merito a come noi viviamo la malattia e ciò che ha prodotto su di noi anche senza averla contratta. Ci ha cambiato? Sarà un cambiamento duraturo?  Torneremo mai come prima del virus?

Eppure dovremmo rifletterci. Riflettere se è vero che la pandemia ci ha reso più solidali, più disposti verso gli altri, anzi basterebbe dire, disposti ad ascoltare UN altro. Sembrerebbe di sì, ci ripetiamo di sì. Il dolore migliora secondo la credenza comune. Io non ho questa impressione. Vedo intorno a me persone più diffidenti, più chiuse in se stesse di prima, più gelose del proprio microcosmo, che comprende la loro famiglia e pochi altri. D’altra parte non ci consigliano di viaggiare in due in auto, di visitare in non più di due i parenti, pochi, di stare ad un metro anche in strada, di precipitarsi a rialzare la mascherina appena una sagoma umana si profila all’orizzonte? E allora, se uno sviene in strada, cavoli suoi. Se un vecchietto inciampa, che si rialzi da solo. Alla faccia della solidarietà. Al supermercato ti fulminano se in 20 secondi netti non ti disinfetti le mani e ti allontani dalla fila. Quando si viene a sapere di un morto per covid la prima domanda è: quanti anni aveva? Se era “vecchio”, definizione elastica e mai chiarita, segue spallucciata accennata e sospiro di sollievo… Dai, in fondo più che vecchi non si diventa …  tutti chiusi nel proprio io. Tutti, ma tutti.

Solidarietà oggi è sinonimo di fare donazioni alla protezione civile, agli ospedali. Se timidamente uno fa notare che pagare le tasse in un paese normale dovrebbe includere per un cittadino pagare per ospedali e protezione civile, sei una stronza. Non sei solidale, sei egoista. Non sei caritatevole.

Qualcosa non torna. Ma se non ci rifletti non ci fai caso. Come riflettere sul vaccino. Vaccino sì o no? Vaccino sì, certo per tutti, belli e brutti, vecchi e giovani, a rischio alto e a rischio meno alto. Eminenti opinionisti che hanno fatto la loro fortuna in termini di denaro, ovvio, sul covid dichiarano senza battere ciglio che bisogna renderlo obbligatorio subito, per tutti, senza se e senza ma. Che bisogna prendere a pedate chi osasse rifiutarlo. Che un governo deciso e autorevole non deve pensarci un secondo ad obbligare tutti. Ma non c’è libertà di scelta? Non siamo garantiti dall’articolo tre della Costituzione repubblicana? Risposta perentoria: esistono deroghe alle libertà dell’individuo. Fuori luogo appellarsi alle libertà costituzionali, che palle quelli che agitano ogni due per tre per la costituzione! Salus Publica Suprema Lex. Per una volta gli opinionisti si lasciano andare anche a una citazione, loro che aborrono le citazioni come in genere accade a quelli che sono ignorantelli.

Il vaccino ci salverà. Non si discute. Lo dicono i virologi, i politici, e soprattutto le aziende farmaceutiche che generosamente mettono a disposizione subito dosi sottocosto. Se non fosse tragico, ci sarebbe da riflettere sul potere della pubblicità… quanti dei cittadini  cosiddetti comuni conoscevano il nome Pfizer? Ora è il nome della salvezza. Qualsiasi medicinale con quel marchio sarà per forza ottimo. Tutti farmacisti …

Ma se osiamo fare a voce alta queste riflessioni ci prendono per seminatori di zizzania. Dobbiamo rimanere uniti obbedendo senza pensare, come bravi soldatini. Questa pandemia è una guerra, dicono, anzi peggiore della guerra. Ammettiamolo. Ma anche i soldati possono pensare e lo hanno fatto anche in passato; non che sia attività amata dai generali, tanto per rimanere in tema. Certo se i soldati pensano troppo magari si scocciano di andare al macello e magari decidono di disobbedire e piantare tutto. L’obbedienza è una virtù solo per chi comanda. Non ci rende migliori, ci rende solo passivi. Invece no, i migliori in questo mondo terrorizzato e terrorizzante obbediscono. Stanno a due metri non a uno di distanza, scopano con la mascherina, chattano in rete per evitare il contatto umano e non pensano. Mai.

*Floriana Balducci è membro del Cpt di Lucca

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