L’OBBEDIENZA NON E’ UNA VIRTU’

 

L’OBBEDIENZA NON E’ UNA VIRTU’

Riflettere non è cosa che nel XXI secolo facciamo volentieri. Lo sappiamo e lo ripetiamo in continuazione.. dobbiamo agire, fare, muoverci, digitare, chattare, lavorare, comprare, vendere, parlare. Attività che richiedono la lentezza, come riflettere, leggere, ascoltare sono sgradevoli e sgradite. Chi insegna lo sa perfettamente.

Non piacciono, queste attività, non solo ai giovanissimi, i cosiddetti “millennials”, parola orribile e priva di senso, come in genere quelle che mutuiamo dall’inglese, non a caso lingua veloce, e poco ricca di sfumature lessicali, che tutti parlano o dicono di parlare. Non piacciono neppure agli adulti. A quelli di età compresa tra 40-50 anni soprattutto.

Naturalmente tutto questo è filtrato dalla mia esperienza personale … Però tra mille difetti ho il pregio di essere osservatrice attenta: e vedo intorno a me donne e uomini fatti che con la testa china sui tablets e sui cellulari chattano in continuazione, e dichiarano di informarsi via internet, e difatti ripetono nei loro discorsi parole mutuate dalla rete e credono come all’oracolo a quanto leggono sul loro smartphone. Ognuno ha la sua Delfi. Panorama a parte.

Nulla da dire. Non si può negare il merito di avere oggi la possibilità di conoscere in tempo reale eventi e fatti. Ma occorrerebbe un ulteriore passaggio, fondamentale. E cioè che informazioni, letture, parole fossero ri-masticate, ri-visitate, ri-pensate con calma e senso critico da ciascuno di noi. E questo raramente accade. Costa fatica. Rallenta. Infastidisce. Può indurre a dubitare ed è proprio questo che non vogliamo fare, perché … Perché il dubbio su un singolo fatto, su una singola parola potrebbe produrre una sorta di effetto domino. In tal modo ci sentiremmo sospesi, senza rassicuranti certezze e saremmo costretti a confrontarci con gli altri per chiarimenti, domande, risposte. Confrontarci non coi like, il ditino su e giù, ma gli altri di carne e ossa.

Ci chiederemmo inevitabilmente infatti chi ha detto, chi ha scritto, chi ha pensato certe parole e/o teorie e come e quando e dove e perché.. Insomma un casino. Il ditino dei like invece lo puoi dimenticare, lo puoi ignorare. Non mina il tuo mondo sicuro di certezze, di frasi fatte, di emoji e di faccine.

Avete mai riflettuto sulle tonnellate di cuori e bacini e manine che ci arrivano su whatsapp? Quando li vedi, non si può negare, ci sentiamo amati, accettati, ci sentiamo in gamba. Tutti ci amano e se qualcuno ci odia … possiamo ignorarlo o odiarlo a nostra volta da lontano o cancellarlo e/o sputtanarlo con altri simboli su altre chat. Insomma, chissenefrega.

La persona che non la pensa come noi, che può dircelo, motivarcelo, spiegarcelo in presenza va affrontata e bisogna essere in grado di farlo. Dobbiamo a nostra volta motivare, spiegare, discutere ciò che pensiamo e perché lo pensiamo… Devi avere idee tue davvero e idee chiare, che per essere tali devono scaturire da una riflessione, implicano una  presa di posizione. Idee che sono state interiorizzate, per le quali sappiamo trovare parole e dimostrazioni efficaci, che reggano l’onere della prova dell’antitesi argomentativa.  Frutto di una sorta di dialettica interiore. Ma quanto tempo costa. Quanta energia improduttiva in termini di risultati concreti, come quelli che nella nostra società capitalistico-digitale contano unicamente. E questo lavorio faticoso è tipico ormai  solamente di chi ha vocazione filosofica.  E non dimentichiamo che la filosofia  è una malattia che  i più evitano da secoli, almeno dalla rivoluzione industriale in poi, essendo tipica di  colui o colei per cui il fare conta meno dell’essere. Essere non nel senso di Fromm, chiaramente, ma nel senso dei millennials … Essere come omologazione, accettazione, imitazione.

Che diavolo c’entra tutto questo pistolotto con il tempo del covid? Me lo chiedo da sola, non perché sono sola fisicamente essendo questi tempi di quarantena, o zona rossa o variamente colorata o altra fantasiosa  invenzione partorita dai cervelli, si fa per dire, che conducono noi poveri cristi per mano da nove lunghi mesi in questa via crucis della pandemia, raccomandandoci, ordinandoci, spaventandoci su quanto ci circonda, memento mori, come se fossimo incapaci di avere paura da soli. Siamo capaci, garantito.

In tempo di covid, di vita relegata in casa, condizionata negli scambi sociali e ahimè culturali, si potrebbe credere che l’atto del pensare, del riflettere sia facilitato: c’è più tempo, c’è più solitudine, meno distrazioni. Completamente sbagliato, a parer mio.

In questa sorta di tempo sospeso il riflettere invece fa ancora più paura. Si teme di scoprire che i nostri pensieri più nascosti sono difformi da quanto viene accettato comunemente e sdoganato come accettabile. Di scoprire che abbiamo idee non condivise, come se ciò significasse ipso facto che non sono condivisibili. Paura fuori e paura dentro di noi… troppo da sopportare. Allora viene a soccorrerci l’istinto di conservazione.

Sospendiamo il giudizio sui fatti, smettiamo di interrogarci sul giusto e lo sbagliato, ci mettiamo a “fare”. Ci teniamo occupati. Facciamo di tutto. Ci mettiamo a cucinare, come all’inizio della quarantena, a cantare sui balconi, a chattare con gli amici e anche i non amici, a seguire le serie di cuochi e cucine in tv: tutto, pur di evitare l’incubo. Che è: Pensare con la nostra testa. Per esempio al virus. Quella sfera con gli spunzoni colorati che ci uccide. Che ci pensino i medici, i virologi a quello che bisogna fare noi. Noi ascoltiamo in religioso silenzio e fingiamo di non cogliere contraddizioni, sciocchezze, castronerie inframmezzate alla verità. Noi obbediamo.

Ciechi, sordi, muti. Crediamo a tutto riguardo ai dati e alle cure. Al numero dei morti. Al fatto che ne usciremo, o non ne usciremo. Qualsiasi cosa diranno loro è giusta, ci toglie un bel pensiero, interrogarci su quello che pensiamo davvero noi. Non in merito alla malattia, non potremmo farlo,  lo fanno gli esperti ed è giusto così, ma in merito a come noi viviamo la malattia e ciò che ha prodotto su di noi anche senza averla contratta. Ci ha cambiato? Sarà un cambiamento duraturo?  Torneremo mai come prima del virus?

Eppure dovremmo rifletterci. Riflettere se è vero che la pandemia ci ha reso più solidali, più disposti verso gli altri, anzi basterebbe dire, disposti ad ascoltare UN altro. Sembrerebbe di sì, ci ripetiamo di sì. Il dolore migliora secondo la credenza comune. Io non ho questa impressione. Vedo intorno a me persone più diffidenti, più chiuse in se stesse di prima, più gelose del proprio microcosmo, che comprende la loro famiglia e pochi altri. D’altra parte non ci consigliano di viaggiare in due in auto, di visitare in non più di due i parenti, pochi, di stare ad un metro anche in strada, di precipitarsi a rialzare la mascherina appena una sagoma umana si profila all’orizzonte? E allora, se uno sviene in strada, cavoli suoi. Se un vecchietto inciampa, che si rialzi da solo. Alla faccia della solidarietà. Al supermercato ti fulminano se in 20 secondi netti non ti disinfetti le mani e ti allontani dalla fila. Quando si viene a sapere di un morto per covid la prima domanda è: quanti anni aveva? Se era “vecchio”, definizione elastica e mai chiarita, segue spallucciata accennata e sospiro di sollievo… Dai, in fondo più che vecchi non si diventa …  tutti chiusi nel proprio io. Tutti, ma tutti.

Solidarietà oggi è sinonimo di fare donazioni alla protezione civile, agli ospedali. Se timidamente uno fa notare che pagare le tasse in un paese normale dovrebbe includere per un cittadino pagare per ospedali e protezione civile, sei una stronza. Non sei solidale, sei egoista. Non sei caritatevole.

Qualcosa non torna. Ma se non ci rifletti non ci fai caso. Come riflettere sul vaccino. Vaccino sì o no? Vaccino sì, certo per tutti, belli e brutti, vecchi e giovani, a rischio alto e a rischio meno alto. Eminenti opinionisti che hanno fatto la loro fortuna in termini di denaro, ovvio, sul covid dichiarano senza battere ciglio che bisogna renderlo obbligatorio subito, per tutti, senza se e senza ma. Che bisogna prendere a pedate chi osasse rifiutarlo. Che un governo deciso e autorevole non deve pensarci un secondo ad obbligare tutti. Ma non c’è libertà di scelta? Non siamo garantiti dall’articolo tre della Costituzione repubblicana? Risposta perentoria: esistono deroghe alle libertà dell’individuo. Fuori luogo appellarsi alle libertà costituzionali, che palle quelli che agitano ogni due per tre per la costituzione! Salus Publica Suprema Lex. Per una volta gli opinionisti si lasciano andare anche a una citazione, loro che aborrono le citazioni come in genere accade a quelli che sono ignorantelli.

Il vaccino ci salverà. Non si discute. Lo dicono i virologi, i politici, e soprattutto le aziende farmaceutiche che generosamente mettono a disposizione subito dosi sottocosto. Se non fosse tragico, ci sarebbe da riflettere sul potere della pubblicità… quanti dei cittadini  cosiddetti comuni conoscevano il nome Pfizer? Ora è il nome della salvezza. Qualsiasi medicinale con quel marchio sarà per forza ottimo. Tutti farmacisti …

Ma se osiamo fare a voce alta queste riflessioni ci prendono per seminatori di zizzania. Dobbiamo rimanere uniti obbedendo senza pensare, come bravi soldatini. Questa pandemia è una guerra, dicono, anzi peggiore della guerra. Ammettiamolo. Ma anche i soldati possono pensare e lo hanno fatto anche in passato; non che sia attività amata dai generali, tanto per rimanere in tema. Certo se i soldati pensano troppo magari si scocciano di andare al macello e magari decidono di disobbedire e piantare tutto. L’obbedienza è una virtù solo per chi comanda. Non ci rende migliori, ci rende solo passivi. Invece no, i migliori in questo mondo terrorizzato e terrorizzante obbediscono. Stanno a due metri non a uno di distanza, scopano con la mascherina, chattano in rete per evitare il contatto umano e non pensano. Mai.

*Floriana Balducci è membro del Cpt di Lucca

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