Quella dell’uranio impoverito è una strage silenziosa, che continua a mietere vittime. È una delle più scandalose conseguenze della guerra. L’ultimo, in ordine di tempo, a morire per un cancro al cervello provocato dalle radiazioni, a distanza di anni, è stato Luciano Cipriani, di professione militare. Aveva 47 anni e una carriera da maresciallo dell’Aeronautica alle spalle, tra cui figuravano missioni in Afghanistan, in Kosovo, in Albania. Era padre di due figli.

La storia del maresciallo Cipriani. Pochi giorni prima che il maresciallo Cipriani morisse per quello che i medici hanno definito essere un glioblastoma multiforme di IV grado, la sua storia è balzata agli onori delle cronache, con la sorella che ha rilasciato un’intervista in cui punta il dito contro la sanità militare, accusata di non aver mai ammesso la correlazione tra il tumore del fratello e l’uranio impoverito. «All’ospedale del Celio» – ha denunciato la signora Maria Grazia – «ci dissero che nostro fratello era inoperabile e aveva dai 3 ai 6 mesi di vita. Nessuno fece cenno all’uranio. L’altro mio fratello, anche lui militare, mi suggerì di sentire l’Osservatorio militare, l’ong che si occupa di assistere le vittime. Loro ci dissero di inviare le indagini cliniche ai dottori Gatti e Montanari di Modena, esperti di nanodiagnostica. E loro, a ottobre, hanno trovato la correlazione. Siamo rimasti senza parole».

 

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[Il maresciallo Luciano Cipriani]

 

I familiari di Cipriani non risparmiano critiche neanche al ministero della Difesa, che non avrebbe contribuito alle cure in Germania, unico centro deputato alle terapie alternative, che hanno reso possibile qualche miglioramento nella salute dell’ex maresciallo: «L’Asl diceva che mio fratello poteva fare chemio e radioterapia in Italia – continua Maria Grazia – ma non davano speranze. Dicevano: ha al massimo 6 mesi. Comunque, ci abbiamo provato. Abbiamo fatto un primo ciclo di chemio e radioterapia all’Humanitas di Milano, ma le condizioni peggioravano e così abbiamo tentato terapie alternative all’estero, in particolare dall’oncologo-virologo Arno Thaller, in Alta Baviera. Luciano migliorò, ancor più dopo il secondo ciclo. Ma i costi crescevano ed erano a nostre spese: 60mila euro, le fatture sono state vistate dal consolato italiano a Monaco. Abbiamo chiesto un rimborso, ma la Asl Roma B ci disse che per loro sono terapie prive di evidenze scientifiche. Così abbiamo consumato i risparmi e i debiti son saliti a 35mila euro. Abbiamo fatto un ricorso d’urgenza, ma è stato rigettato. Adesso abbiamo chiesto un ulteriore accertamento medico peritale. Speriamo». Mai, comunque, il maresciallo Cipriani ha voluto gettare la colpa sulle missioni in cui lui e altre 322 persone prima di lui ci hanno rimesso la vita a distanza di anni. Ma adesso la famiglia ha avviato una causa legale contro il Ministero della Difesa per vedere riconosciuti i propri diritti e onorare Luciano come vittima del dovere.

I numeri dei militari morti. Cipriani è solo l’ultimo dei tanti morti tra i militari italiani che hanno combattuto per esportare il modello occidentale di democrazia in Paesi che si sono rivelati essere poi focolai del terrorismo jihadista, come i Balcani. Nel corso degli anni, questi commilitoni, si stima oltre 3700 in poco più di dieci anni, sono tornati malati di tumore dalle missioni all’estero, dal Kosovo all’Afghanistan passando per Nassirya. E i danni delle polveri, dei metalli, dei veleni che le bombe all’uranio impoverito provocano li hanno trasmessi anche ai loro figli. Vittime terze, vengono definite, perché l’esposizione alle radiazioni da parte dei genitori ha ha avuto effetti anche sulle loro vite.

 

 

L’angelo di Nassirya. Come il maresciallo Cipriani, congedato e beneficiario di una pensione arrivata mesi dopo la diagnosi di cancro, ci sono moltissimi altri militari. Prima di lui, la sera del 27 dicembre scorso, è morto Gianluca Danise. Ad aprile avrebbe compiuto 44 anni. Era a Nassirya, e fu uno dei pochi che riuscì a ricomporre i corpi sventrati dei suoi compagni dopo l’attentato del 12 novembre 2003. Anche lui era un maresciallo dell’Aeronautica, ed era stato in missione in Kosovo, Albania, Eritrea, Afghanistan, Iraq, Gibuti.

Pochi giorni prima era morto Giovanni Passeri, 41 anni, originario di Scafati e residente a Pompei, in servizio nel reggimento Cavalleggeri Guide di Salerno. Lo ha ucciso un tumore ai polmoni, scoperto di ritorno dall’ultima missione, quando iniziò ad accusare strane febbri e tosse. Anche lui vittima di quella che viene chiamata la Sindrome dei Balcani, quella lunga serie di malattie – per lo più linfomi di Hodgkin e altre forme di cancro – che hanno colpito i soldati italiani al ritorno dalle missioni di “peacekeeping”, che altro non sono che guerre. I primi casi segnalati in Italia risalgono al 1999 quando il militare cagliaritano Salvatore Vacca morì di leucemia al ritorno della missione in Bosnia. Successe lo stesso anche con la prima Guerra del Golfo, di cui in questi giorni ricorrono i 25 anni.