Chi immaginava che con l'insediamento del governo Draghi -13 febbraio 2021- il clima politico diventasse idilliaco e che l'Italia si avviasse verso una fase di fattiva concordia nazionale era un ottimista. Forse un illuso, anche se, occorre riconoscerlo, sono tanti i dossier sui quali ministri e sottosegretari di parti politiche opposte hanno lavorato avendo di mira l'interesse generale.
Nelle ultime settimane, tuttavia, abbiamo assistito a un ribollio di distinguo e di dissensi del cui perimetro e delle cui finalità non si individuano i fini.
Sembra attendibile ritenere tutto accada perché stiamo per affrontare l'ultimo tornante prima di raggiungere la vetta, cioè la definizione del Recovery Plan e dei suoi strumenti di attuazione. Non va dimenticato che è sul Recovery Plan (e sulle sue difficoltà di definirne uno accettabile in Italia e a Bruxelles) che è caduto il Conte 2 e non è nato il Conte 3. Si tratta, quindi, di un appuntamento cruciale, quale mai l'Italia era stata chiamata a onorare nella sua storia.
Voglio sottolineare, a questo punto, che il pilota della grande operazione, Mario Draghi, si trova a Palazzo Chigi per una scelta personale di patriottismo e di generosità. Nell'accettare l'incarico di primo ministro aveva molto da perdere e poco da guadagnare, parlando nei termini in uso nel mondo politicante. La sua risposta alla chiamata del presidente Sergio Mattarella è stata la risposta del dovere e della volontà di non sottrarsi a una sfida epocale.
I movimenti dei partiti che votano e, in parte, costituiscono il suo governo mancano della visione complessiva di ciò che c'è sul tappeto e della consapevolezza che i piccoli interessi di fazione andrebbero tralasciati al cospetto dei grandi interessi della Nazione.
La questione degli orari dei ristoratori (che hanno ragione a pretendere la fine della discriminazione tra chi ha spazi esterni e chi non li ha) e della proroga del coprifuoco alle 23 può trovare presto una composizione senza la necessità che un partito marchi la propria differenza e la propria «amicizia» nei confronti della categoria facendo mancare il proprio consenso in consiglio dei ministri.
Così come i presidenti di regione (dell'ente cioè che, nell'emergenza, ha presentato le maggiori insufficienze amministrative, organizzative e politiche) sembrano strepitare in modo strumentale rispetto al ritorno del 70% degli studenti a scuola. Come dire, «lassisti» sulla movida notturna, «ultraprudenti» sulla scuola.
Una contraddizione in termini. E una sorta di manipolazione della pubblica opinione in funzione antigovernativa e per affermare un proprio ruolo, quando, sulla scuola, governo e regioni hanno convenuto che l'obbiettivo è il rientro generalizzato, 100%, e la strada è flessibile e progressiva. E che quel 70% è il proposito ottimale, derogabile per tutte le situazioni speciali che possono incontrarsi nella penisola.
Si cerca così di dimenticare tutto ciò che non è stato fatto per organizzare il rientro a scuola sotto il profilo del trasporto pubblico (su di esso le esigenze scolastiche si collocano intorno al 15% e, quindi, non siamo di fronte a dimensioni impossibili da affrontare). Sul punto, sono portato a concordare con ciò che osservano alcuni autorevoli commentatori: «gli studenti non votano». O comunque votano solo i 18enni, cioè una piccola percentuale.
Sembra paradossale che, mentre il governo, lo Stato, sono impegnati, appunto nel tornante storico del rilancio del Paese, in dimensioni mai viste o immaginate prima, le pulsioni dei partiti, nelle quali la non-conoscenza dei problemi si accoppia a piccole esigenze elettoralistiche, siano volte a svalutare o impedire lo sforzo che l'Italia si appresta a compiere. E mi riesce difficile capire come i partiti che compongono la maggioranza non puntino a potersi fregiare di un «io c'ero e ho contribuito o fatto».
Ma questi sono i misteri e le miserie di una politica che ha condotto l'Italia nell'abisso in cui s'è trovata al momento di affrontare la tragedia della pandemia. Sarebbe colpevole e autolesionistico che qualcuno, a parte Giorgia Meloni (che sulla sconfitta di Draghi ha puntato per il proprio futuro), scommettesse sull'insuccesso o operasse per l'insuccesso.
Ieri il consiglio dei ministri ha iniziato l'esame del Recovery Plan che entro la prossima settimana dovrà vedere la luce dopo un passaggio parlamentare che certificherà il consenso o il dissenso delle forze politiche. Di certo, ci sarà battaglia politica. Ma la qualità dei principali interlocutori si spinge a ritenere che la composizione di proposte e pretese, dopo anche drammatici confronti, si potrà realizzare.
E che il richiamo alla ragione funzionerà, dandoci, alla fine, la possibilità di presentare a Bruxelles ciò che l'Unione si aspetta. Un passaggio vitale per l'Italia e per il suo peso in un'Europa dalla quale si sta allontanando, per fisiologica eclissi, Angela Merkel. La crescita di Mario Draghi e del Paese dipenderà molto dalle decisioni della prossima settimana e dalle modalità con cui saranno adottate.
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