Plymouth, Mass., 15 dicembre 1914
Cara zia,
dopo un lungo silenzio io vengo con questa mia apportatrice di affetto e di memorie.
La vita in America è agitata e monotona al tempo stesso. Quindi, poco tempo per scrivere e
poche cose da dire. E siccome scrivo a parecchie persone, cosí scrivo di rado a ciascuno, per non ri-
petere sempre le stesse cose.
Ora è da più di un anno che lavoro in questo paese. Il posto è bello. Monti e mare e cielo az-
zurro, quando non è bigio. Ho quasi sempre lavorato; quindi, benché non si guadagni molto, finan-
ziariamente non posso lagnarmi.
Ho pure goduto sempre ottima salute. Qui vi e pure una libreria aperta ai lavoratori che lavo-
rano in una grande fabbrica di corde che impiega circa 3.000 persone e nella quale io lavoro attual-
mente. In detta libreria vi sono parecchi giornali in lingua italiana che escono in America: vi è pure
il Secolo di Milano.
Insomma il posto mi piace, non solo, ma il suo clima mi è molto adatto.
D'estate divido la mia vita col lavoro, col mare e col bosco. D'inverno corro di meno e studio
di piú. Cosí scorrono i miei giorni gravidi di pensiero, sereni alla coscienza, buoni per la salute.
Sicché la mia vita, benché un po' vuota, non è grama.
Ho smesso di bere vino, birra e qualsiasi bevanda alcoolica. Ho qualche amico e nessun ne-
mico. Ecco in breve l'esposizione del viver mio.
L'America è travagliata da una grande crisi. C'è una disoccupazione terribile, che va aumen-
tando giorno per giorno. La gente teme per l'avvenire. Mi domandi se mi piace tanto l'America dato
che non parlo di ritornare. Ecco tutto. Dato il mio carattere, il mio modo di pensare, l'amore per la
libertà, la forza fisica per cui non pavento durezza di fatica, mi rendono questo paese gradito. D'al-
tra parte se la nostalgia della famiglia, di voi tutti, degli amici, del cielo natio, mi corruscano soven-
te la fronte e mi serrano il cuore, il pensiero di sapermi per le mie idee cosí diverso da voi, da mio
padre, dall'opinione del mio paese natio, mi frena nel desiderio del ritorno. La fortuna non mi ha
ancora arriso, come non arride e non arriderà mai ai figli di Caino, che hanno cuore in petto e al la-
voro solo chiedono i mezzi per l'esistenza. Di piú, l'intenzione di prender moglie non è mai balenata
nel mio cervello, non ho mai avuto l'amante, e se amore mi ha colpito è stato un amore impossibile,
che dovetti soffocare in seno. Dunque anche questa intenzione, che spinge molti a rimpatriare, man-
ca in me. Tutte queste cose le dissi anche alla zia Maddalena, in risposta a una sua dalla quale tra-
spariva l'affetto che nutre per me. Ho scritto alle cugine dopo la dolorosa notizia della morte della
zia Francesca ma non ho ancora ricevuto risposta. Pregoti di avvisarle. Oltre a tutte le ragioni su e-
sposte ora v'è anche la guerra che mi tiene esule. Dici che questa guerra è giusta e che, siccome la
ragione fa la forza, speri nella vittoria.
Ed è sulla guerra che mi voglio soffermare un pochino, come sulle tue parole. La ragione fa
la forza? Io non ci credo, come non ci crede nessuno di coloro che hanno occhi per vedere, orecchi
per sentire, mente per pensare. La ragione o il credere di averla può dare, è vero, all'individuo o a un
popolo lo slancio e la forza di compiere grandi cose, o di morire eroicamente. Nulla piú. Che ragio-
ni aveva l'Italia di andare in Africa, fra gente diversa, di diversa lingua, religione, costumi, e ostile a
noi e alla nostra civiltà per giunta? Nessuna, se si scarta la vanità del re, aspirante alla corona impe-
riale, la fortuna del Banco di Roma che ha laggiú impiegate somme ingenti e sperava che sotto il
governo italiano queste rendessero di piú, nonché l'ardente desiderio di diversi decaduti e impoveri-
ti, che speravano di rifar la fortuna calando quali luride civette a dissanguare in ogni modo possibile
quel povero popolo vinto e sottomesso. Tutte le altre ragioni economiche, politiche, storiche e pa-
triottiche, lanciate al vento da coloro che tale guerra hanno iniziata, preparata da lungo tempo, senza
che tu e il popolo d'Italia ne sapeste nulla, erano menzogne. E nessuno lo sapeva meglio di coloro
che le bandirono, collo scopo di avere l'approvazione della povera gente che deve fare e pagare la
guerra col sangue, col pianto, colla miseria, con la vita, senza nulla guadagnare, neppure se si vince.
Dunque nessuna ragione.
Eppure han vinto. Perché? La voce dei cannoni italiani era piú forte di quella dei vecchi fu-
cili arabi. In questo caso la forza ha fatto la ragione. Le conseguenze di tal guerra? Aumento di mi-
seria, quindi rivolte popolari soffocate nel sangue, coi medesimi moschetti che lacerarono il petto
degli arabi, anelanti alla libertà della patria; aumento dell'emigrazione colle sue dolorose conse-
guenze.
Cristo aveva ragione, ma i farisei come i gentili erano piú forti e lo crocifissero. E poi la ra-
gione la conosciamo noi? Siamo sicuri di essere nel vero?
Niente affatto. Ti basti sapere che tutte le nazioni che si trovano ora in guerra credono di a-
vere la ragione e la giustizia ciascuna dal canto suo. Ciò non è possibile, ed è la prova piú palpante,
che nessun popolo come pochi individui conoscono la ragione relativa, per non parlare della ragione
pura. In caso contrario le guerre non avverrebbero piú. Si dice che l'Italia fa la guerra per liberare i
fratelli triestini. Gli italiani residenti in quelle due provincie formano solo un quinto della loro popo-
lazione; gli altri 4/5 di quella popolazione sono composti di gente di diverse lingue e religioni, ma
concordi tutti nel preferire il governo austriaco a quello italiano. Quindi se ha ragione l'Italia di fare
la guerra per liberare 1/5 di quella popolazione, ha piú ragione l'Austria per tenere liberi da un go-
verno non voluto i 4/5. I giornali italiani, pagati dall'italico governo, mentono per la gola, e la verità
la sappiamo meglio noi, per mezzo di lettere provenienti dall'Italia e dall'estero, che non voi che sie-
te in patria e leggete tutti i giorni una pagina di giornale, zeppa di menzogne, cioè di «notizie».
E per ora fo punto. Farei un volume se avessi a tradurre in iscritto il pensiero che zampilla
dal cervello in fiamme. Consolati dunque, che per ora non torno in Italia, fra mille pericoli.
Chissà, forse il mio ritorno sarà piú presto di quello che voi e io stesso immaginiamo.
Accetta, cara zia, tanti saluti e baci dal tuo nipote che ti ricorda sempre con affetto.
Bartolomeo Vanzetti
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QUESTO E-BOOK:
TITOLO: Non piangete la mia morte
AUTORE: Vanzetti, Bartolomeo
TRADUTTORE:
CURATORE: Pillon, Cesare e Vanzetti, Vincenzina
NOTE:
DIRITTI D'AUTORE: no
LICENZA: questo testo è distribuito con la licenza
specificata al seguente indirizzo Internet:
http://www.liberliber.it/biblioteca/licenze/
TRATTO DA: Non piangete la mia morte : lettere ai familiari / Bartolomeo Vanzet-
ti ; a cura di Cesare Pillon e Vincenzina Vanzetti. - Roma : Editori riuniti,
1962. - 221 p. ; 23 cm. – (Orientamenti)
CODICE ISBN: informazione non disponibile
1a EDIZIONE ELETTRONICA DEL: 21 febbraio 2008
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