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Il giro del mondo di Di Maio. Da filocinese ad atlantista

Il ministro firma un articolo con il segretario di Stato degli Usa. Ma fino a ieri lodava Pechino e gilet gialli

Il giro del mondo di Di Maio. Da filocinese ad atlantista

Se, come ripeteva il poeta e diplomatico americano James Russel Lowell, «solo i morti e gli stolti non cambiano mai idea», allora siamo fortunati, la Farnesina è nelle mani di una delle menti più lucide e immortali dei tempi moderni. Perché, non c'è nulla da dire, pochi sanno cambiar idee, opinioni e schieramenti con la stessa agilità e freschezza di Luigi di Maio.

L'ultima prova di tanta lucida destrezza è incorniciata in quella prima pagina di Repubblica dove, solo ieri, il nostro ministro degli Esteri firmava un articolo a quattro mani con il suo omologo statunitense Antony Blinken. Un testo irreprensibile con il quale il nostro ministro degli Esteri e il segretario di Stato hanno celebrato insieme «il 160° anniversario dello stabilimento delle relazioni diplomatiche tra Italia e Stati Uniti», ricordando come i rapporti tra i due Paesi «affondino le loro radici nei valori condivisi e nel comune impegno per promuovere le libertà civili e i principi democratici».

A menti semplici come le nostre sfugge - forse - come convinzioni di quella portata si coniughino con quelle del Blog di Grillo, summa e sintesi di un pensiero pentastellato in cui Di Maio sembra ancora riconoscersi. Solo due giorni prima infatti un articolo del professor Fabio Massimo Parenti, Foreign Associate Professor di Economia Politica Internazionale alla China Foreign Affairs University di Pechino, apparso sul blog sotto il titolo «Un Maccartismo disastroso, Usa e Ue hanno perso la ragione», definiva il segretario di Stato Blinken e il suo presidente Joe Biden un «duo ben più pericoloso di quello Trump -Pompeo» e accusava entrambi di usare «toni bellicosi nei confronti di Russia e Cina» invece di «costruire nuove fondamenta per una più ampia cooperazione internazionale». Come - neppure quarantotto ore dopo lo stesso cattivissimo Blinken sia diventato l'amico di penna del «Giggino» a 5 stelle può risultare arduo e ostico da capire.

Ma non possiamo attribuirne la responsabilità a Di Maio. La colpa, se c'è, sta nella ristrettezza delle nostre menti. Nell'incapacità di star al passo di un leader che solo tre anni fa giurava di volersi battere anima e corpo contro le inique sanzioni europee alla Russia. Lo stesso leader pronto oggi a denunciare con volto severo e contrito l'«atto ostile di estrema gravita» messo a segno dalle spie di Mosca.

Ma del resto chi siamo noi per giudicare il vulcanico estro intellettuale di un politico pronto a correre in Francia per abbracciare - esortandolo a «non mollare» - un signore in gilet giallo deciso a bruciare Parigi? Un politico pronto, oggi, con la stessa «nonchalance», a volare in Libia a braccetto di Jean Yves Le Drian, ministro degli esteri del già detestato Macron.

Ma se sul fronte francese pensieri e parole volano agili dimenticando il fumo di molotov e attacchi vandalici per assaporare, invece, quello della grande politica che dire dell'assoluta libertà di pensiero esibita da Di Maio sulle problematiche cinesi. «L'Italia non vuole intromettersi nelle vicende interne di altri Paesi», sanciva a novembre 2019 liquidando gli scocciatori che disturbavano la sua visita a Shangai chiedendogli un'opinione sui tentativi cinesi di cancellare la democrazia a Hong Kong.

Un'opinione trasformatasi oggi in una mirabile sintesi di pensiero con quell'Antony Blinken che accusa Pechino di smantellare l'autonomia di Hong Kong, calpestare i diritti umani e perseguitare la minoranza uighura.

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