Revocare la nomina di Mario Vattani ad ambasciatore italiano a Singapore

 

Revocare la nomina di Mario Vattani ad ambasciatore italiano a Singapore

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La promozione di Mario Vattani ad ambasciatore italiano a Singapore è una vergogna inaccettabile.

Nel 1989 Vattani partecipò alla brutale aggressione fascista che ridusse due ragazzi in fin di vita. Quell’aggressione coinvolse almeno quindici militanti di estrema destra e portò a 4 condanne per lesioni. Vattani, prosciolto, fu l’unico a risarcire i due ragazzi massacrati con una cifra molto rilevante, ottenendo in cambio il ritiro del processo di rito civile. Vattani poté pagare quella cifra così rilevante perché viene da una famiglia molto influente: suo padre era il consigliere diplomatico di Andreotti.

Non solo. Nel 2009, quando il sindaco di Roma Alemanno venne travolto dalle critiche per avere dato una nomina proprio a uno dei condannati della mattanza del 1989, si scoprì che il consigliere diplomatico di Alemanno - guarda caso - era proprio Vattani.

E ancora. Nel 2011, quando era console in Giappone, Vattani si esibì con il suo gruppo musicale sul palco di CasaPound, tra saluti romani e canzoni contro la Repubblica italiana e i partigiani.

In tutti questi anni Vattani non ha mai dato segnali di pentimento. Anzi, ha continuato a professare pubblicamente le sue simpatie fasciste. L’idea che un simile personaggio “rappresenti” una repubblica democratica e antifascista come l’Italia è semplicemente vergognosa.

Chiediamo al Presidente Mattarella di non firmare e revocare tale nomina inaccettabile. Se sei d’accordo firma anche tu!

Andrea Scanzi, Lorenzo Tosa, Saverio Tommasi, Fabrizio Delprete

DERIVATI DI STATO: quando Mario Draghi svendette l’Italia alle banche d’affari

 

DERIVATI DI STATO: quando Mario Draghi svendette l’Italia alle banche d’affari

Mario Draghi, nel suo recente e molto discusso intervento al Meeting di Rimini (che abbiamo già trattato qui), ha ribaltato una delle architravi della narrazione euro-austeritaria dell’ultima decennio (avallata dallo stesso Draghi), quella dell’imperativo assoluto della riduzione del debito pubblico, costi quel che costi in termini economici e sociali (per maggiori informazioni citofonare alla Grecia), sostenendo che l’attuale fase storica «sarà inevitabilmente accompagnata da stock di debito destinati a rimanere elevati a lungo». Insomma, contrordine compagni: il debito pubblico non è più il male assoluto, ma anzi l’aumento degli stock di debito è una necessità impellente per evitare «una distruzione permanente della capacità produttiva e quindi fiscale, [che] sarebbe ancora più dannosa per l’economia», come ha dichiarato qualche mese addietro in un’altra occasione.

Allo stesso tempo, però, Draghi si è affrettato a specificare che bisogna distinguere tra “debito buono” e “debito cattivo”, laddove il primo è quello “produttivo”, quello cioè, se decodifichiamo il gergo draghiano, che piace ai mercati finanziari, ovverosia che genera ritorni economici al capitale privato nel breve periodo, mentre il secondo è quello cosiddetto “improduttivo”, ovverosia quello che, nella migliore delle ipotesi, pur generando rendimenti sociali di lungo periodo potenzialmente molto benefici per la società nel complesso – laddove venisse utilizzato, poniamo, per aumentare le assunzioni e le retribuzioni di medici e insegnanti –, non offre rendimenti economici nel breve termine. Insomma, non siamo di fronte a nessuna conversione sulla via di Damasco, come hanno sostenuto alcuni; più banalmente, cambiano gattopardescamente le parole (“debito” al posto di “austerità”) affinché non cambi nulla: la visione del mondo e della società che sottende le parole di Draghi, e gli interessi che quest’ultimo rappresenta, sono gli stessi di sempre.

Ma il punto che ci preme sottolineare in questa sede è un altro. Fa specie che proprio Mario Draghi si permetta di moraleggiare di debito buono e debito cattivo, considerando che proprio Draghi, negli anni Novanta, quando era direttore generale del Tesoro italiano (carica che ha ricoperto dal 1991 al 2001, per poi andare alla Goldman Sachs), ha sovrinteso all’emissione, da parte dello Stato italiano, di una montagna di titoli di debito tra i più “tossici” e speculativi al mondo, di cui ancora oggi paghiamo – letteralmente – le conseguenze. Stiamo parlando, ovviamente, dei famigerati derivati di Stato.

Di cosa si tratta? I derivati sono degli strumenti finanziari che derivano il loro valore dall’andamento del valore di un’attività sottostante, che può avere natura finanziaria (come ad esempio i titoli azionari, i tassi di interesse e di cambio, gli indici ecc.) o reale (come ad esempio il caffè, il cacao, l’oro, il petrolio ecc.). Ora, se è vero che in alcuni casi i derivati possono servire a ridurre legittimamente i rischi di portafoglio, permettendo per esempio a un investitore di negoziare con un venditore il prezzo di un bene che intende acquistare in una data futura e dunque di tutelarsi rispetto a un aumento del costo del bene in questione, è altresì vero che la maggior parte dei contratti derivati ha una natura puramente speculativa, consiste cioè nell’assunzione di un rischio con l’obiettivo di conseguire un profitto.

Una scommessa, insomma, non diversa da quelle praticate quotidianamente nell’ambiente del gioco d’azzardo. Con la differenza, però, che i derivati finanziari muovono cifre incomparabilmente più grandi (si stima che il valore nozionale dei derivati in circolazione a livello mondiale sia pari a più di trenta volte il PIL mondiale) e, quando le cose vanno male, possono avere ripercussioni molto pesanti anche sull’economia reale; non a caso i derivati hanno giocato un ruolo fondamentale nella crisi finanziaria del 2007-9, tanto che molti al tempo proposero (invano) di metterli fuorilegge una volta per tutte.

Veniamo ora ai contratti derivati sottoscritti dallo Stato italiano ai tempi di Draghi. Siamo alla metà degli anni Novanta e in quel periodo le élite del nostro paese – Carlo Azeglio Ciampi, Giuliano Amato, Romano Prodi e ovviamente lo stesso Draghi, solo per citarne alcuni – avevano un unico obiettivo: aggiustare (letteralmente) i conti pubblici per ottemperare ai criteri di Maastricht e permettere così all’Italia di aderire all’euro. Ed è qui che entrano in gioco i derivati. La maggior parte dei derivati sottoscritti in quegli anni, per un valore di circa 160 miliardi, consisteva in cosiddetti interest rate swap: in sostanza lo Stato riceve da una banca d’affari un flusso di cassa a tasso variabile sufficiente a ripagare un certo numero di titoli in scadenza e in cambio si impegna a pagare alla stessa banca un tasso fisso a lunga scadenza.

Questo ha permesso all’Italia di ridurre artificialmente il proprio deficit di qualche decimale, con il placet della Commissione europea e di Eurostat, l’agenzia statistica europea, le cui regole, successivamente modificate in parte, permettevano al tempo di contabilizzare come un’entrata quello che di fatto è un debito. Nonché, ovviamente, una scommessa: in sostanza, se i tassi fossero cresciuti – come effettivamente è stato fino ai primi anni Duemila – lo Stato italiano ci avrebbe guadagnato; se invece fossero scesi, ci avrebbero perso, a tutto vantaggio delle banche d’affari. Se, dunque, in una prima fase, l’Italia ha effettivamente realizzato dei guadagni sui derivati creditizi, a partire dal 2005, con la riduzione dei tassi, i derivati hanno cominciato a generare perdite sempre più ingenti per lo Stato: qualche anno fa (non ho trovato stime più recenti) è stato lo stesso governo, dopo aver apposto per anni una sorta di informale segreto di Stato sulle perdite relative ai derivati, ad ammettere, in seguito a un’interrogazione parlamentare, che il valore di mercato dei derivati in questione era negativo per circa 35 miliardi di euro (e positivo per un valore equivalente per le banche). Una danno monumentale per l’erario, soprattutto in tempo di austerità (ma non per tutti, evidentemente).

Ma la vicenda non finisce qui. Oltre agli strumenti derivati più tradizionali sopracitati, tra la metà degli anni Novanta e la metà degli anni Duemila l’Italia ha anche sottoscritto operazioni più speculative, note come swaption, inserite nell’operatività del Tesoro proprio quando direttore generale era Mario Draghi. Una swaption consiste nella vendita da parte dello Stato, in cambio di un premio, di un’opzione che attribuisce alla banca acquirente la facoltà di decidere se sottoscrivere o meno, in una data futura, un interest rate swap a un tasso fisso prestabilito. Va da sé che si tratta di un’operazione ancora più rischiosa – o, appunto, speculativa – di un normale swap, poiché comporta il rischio per la parte venditrice, in questo caso lo Stato, di ritrovarsi a firmare un contratto swap che presenta condizioni sfavorevoli già al momento della stipula. Questo è esattamente quello che è successo nel 2005, quando la banca d’affari statunitense Morgan Stanley ha deciso di attivare una swaption sottoscritta l’anno precedente, in virtù della quale lo Stato aveva incassato un premio di 47 milioni di euro. Peccato che, secondo la Corte dei Conti, lo swap in questione aveva già in partenza un valore di mercato negativo di 600 milioni di euro; sarebbe a dire che da lì al 2035 quello swap sarebbe costato al Tesoro 600 milioni di interessi netti.

Ma non finisce neanche qui. Un accordo quadro siglato nel 1994 dal Tesoro sempre con la Morgan Stanley, che doveva regolare tutti i successivi derivati sottoscritti con la banca, includeva una clausola secondo la quale la banca americana avrebbe potuto esigere unilateralmente (a differenza dei contratti con le altre banche, che prevedevano clausole bilaterali) l’immediata chiusura di tutti i derivati, nel momento in cui il valore della propria esposizione nei confronti dello Stato avesse superato una certa soglia, variabile a seconda del rating dello Stato italiano. Nonostante quella soglia sia stata superata nel 2003, però, la Morgan Stanley ha continuato a firmare o a rinegoziare diversi contratti con il Tesoro, vedasi la swaption del 2004, aumentando in misura sostanziale l’esposizione negativa del Tesoro, senza che la banca attivasse la clausola per estinguere i derivati e farsi pagare dal governo italiano il valore di mercato degli stessi, a quel punto già negativo, così come prevedeva l’accordo del 1994. «Non avevamo conoscenza di tale clausola», avrebbero dichiarato in seguito i dirigenti del Tesoro.

La Morgan Stanley ha scelto di esercitare quella clausola solo nel 2011, all’indomani dell’attacco finanziario all’Italia che spianò la strada al governo “tecnico” di Mario Monti – attacco finanziario ordito, curiosamente, sempre dallo stesso Draghi, che «decise di cessare gli acquisti di titoli di Stato italiani da parte della BCE» per far schizzare in alto lo spread e costringere Berlusconi alle dimissioni, come ammesso persino da Mario Monti qualche tempo fa. È a quel punto che la banca d’affari – adducendo come causale il declassamento del rating italiano, pochi mesi prima, da parte dell’agenzia di rating statunitense S&P, tra i cui azionisti figura la stessa Morgan Stanley – decide di chiudere unilateralmente in maniera anticipata tutti i suoi contratti in essere con lo Stato, incassando sull’unghia dal governo Monti, che nel frattempo annunciava misure lacrime e sangue per i cittadini italiani, la colossale cifra di 2,5 miliardi di euro (di cui un miliardo relativo solo all’accordo del 2004, per il quale lo Stato aveva incassato, lo ricordiamo, ben 47 milioni di euro: lasciamo al lettore il calcolo del bilancio finale). Piccola curiosità: fino a qualche anno prima il figlio di Monti, Giovanni, aveva lavorato proprio alla Morgan Stanley.

Una vicenda talmente clamorosa da spingere la procura della Corte dei Conti, nel 2013, a citare in giudizio la Morgan Stanley per danno erariale. Secondo l’accusa, la banca si sarebbe resa responsabile del 70 per cento di un danno complessivo da 3,9 miliardi, commettendo, con la sua decisione di chiudere tutti i suoi contratti, nel 2011, «palesi violazioni dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione contrattuale». Questo perché la banca ricopriva un ruolo particolare, quello di “specialista”: si tratta delle banche che assistono il governo nelle aste dei titoli di Stato e che in quel ruolo devono contribuire alla gestione del debito pubblico anche attraverso un’attività di consulenza e ricerca.

Ancora più sorprendente, però, era la richiesta di risarcimento della Corte del restante 30 per cento dei danni, pari a più di un miliardo di euro, a carico dei dirigenti del Tesoro che per anni non si accorsero della succitata clausola: Maria Cannata, al Tesoro dal 1992 e dal 2000 a capo della direzione del debito pubblico, carica che ha ricoperto fino al 2017; il suo predecessore Vincenzo La Via, nominato alla direzione generale del Tesoro nel 2012 (fino al 2018); e gli ex direttori generali del Tesoro Domenico Siniscalco (2001-2004), poi passato, indovinate un po’, alla stessa Morgan Stanley, e Vittorio Grilli (2005-2011), diventato poi viceministro e successivamente ministro dell’Economia del governo Monti tra il 2011 e il 2013 (cioè nel periodo in cui fu liquidata la somma alla Morgan Stanley), per poi passare infine alla JPMorgan, altra banca d’affari statunitense. L’accusa era che alcuni contratti di derivati evidenziavano chiari «profili speculativi» che non li rendevano idonei alla finalità di ristrutturazione del debito, ossia l’unica finalità ammessa dalla normativa vigente. Né sarebbero state attivate adeguate garanzie. Curiosamente Mario Draghi non figurava tra gli imputati, nonostante ci fosse lui a capo della direzione generale del Tesoro quando fu siglato l’accordo quadro con la Morgan Stanley e quando le swaption furono inserite nell’operatività del Tesoro.

Quel processo si è intrecciato, seppur indirettamente, a un’altra indagine condotta dalla procura di Trani nei confronti delle agenzie di rating S&P e Fitch, accusate di aver deliberatamente generato il panico sui mercati con i loro declassamenti del 2011, alimentando così la speculazione ai danni del nostro paese, nonché di aver offerto il casus belli alla Morgan Stanley – azionista, lo ricordiamo, della stessa S&P – per recedere dal suo contratto con il Tesoro e chiedere la liquidazione dell’attivo in suo favore per circa 2,5 miliardi. Ciò su cui volevano far luce i magistrati era perché il Ministero dell’Economia avesse liquidato la somma «senza battere ciglio» e non avesse ritenuto di chiedere un parere giuridico sulla possibilità di difendersi da quella clausola o quantomeno di prendere tempo in attesa di capire la legittimità e trasparenza di quei declassamenti, considerando i legami azionari tra S&P e Morgan Stanley ma soprattutto il fatto che al tempo il procedimento penale della procura di Trani nei confronto delle agenzie di rating era già in corso. Nessuno dei diretti interessati – né Cannata, né Monti, né altri – si è però sentito in dovere di aiutare a fare luce sulla vicenda, schermandosi dietro alla ragion di Stato, di tutte le cose: mettersi di traverso o anche sospendere il versamento per chiarire la situazione «sarebbe stato reputazionalmente deleterio», dichiarò Cannata, che aggiunse di non essere a conoscenza della partecipazione di Morgan Stanley nella S&P.

Purtroppo entrambi i processi si sono conclusi con un nulla di fatto: nel 2017 i giudici di Trani hanno assolto S&P e Fitch, mentre nel 2019 la Corte dei Conti ha deliberato l’impossibilità di procedere contro gli ex vertici del Tesoro per «difetto di giurisdizione», riconoscendo cioè che i giudici non possono sindacare le scelte discrezionali dei funzionari se queste sono prese nel rispetto della legge. Eppure sono ancora tanti, troppi i punti oscuri in questa assurda vicenda, che riassume molti dei mali dei nostri tempi: la finanziarizzazione del debito pubblico, che da (fondamentale) strumento di politica economica è diventato, soprattutto in virtù della rinuncia dell’Italia alla sua sovranità monetaria, un veicolo per trasferire risorse dal basso verso l’alto e in particolare verso la grande finanza internazionale; il fenomeno delle “porti girevoli” tra politica e finanza (praticamente tutti i protagonisti della vicenda sono poi andati a lavorare per qualche grande banca d’affari o venivano da lì, come nel caso di Monti); l’infimo livello delle nostre classi dirigenti, che ormai da tempo rispondono a logiche che nulla hanno a che vedere con l’interesse nazionale; la spregiudicatezza delle oligarchie internazionali e dei loro lacchè locali, che non si fanno scrupolo di commettere i loro saccheggi alla luce del sole; i limiti del diritto, data la capacità del capitale oligarchico di piegare la legge ai propri interessi.

E al centro di questa trama c’è una persona in particolare, che non a caso ha fatto la carriera più stellare di tutti: l’ex presidente della BCE Mario Draghi. Che oggi, forte probabilmente del consenso pressoché unanime di cui gode nel nostro paese maledettamente smemorato, si permette persino di dare lezioni in materia di debito buono e cattivo. Chissà in quale categoria Draghi collocherebbe i derivati e i contratti capestro siglati dall’Italia all’epoca della sua permanenza al Tesoro, che sono costati al paese – e che continueranno a costarci negli anni a venire – decine e decine di miliardi.

Per concludere, un piccolo quiz. Dove lavorava secondo voi il figlio di Draghi, Giacomo, all’epoca dei fatti relativi alla famigerata swaption con la Morgan Stanley, cioè tra il 2004 e il 2011? Ma che domande: alla Morgan Stanley, ovviamente!

Fonte: sinistrainrete.info

QUALE RIVOLTA, PER QUALE FUTURO?

 

QUALE RIVOLTA, PER QUALE FUTURO?

In risposta all’articolo di Umberto Spurio, apparso nei giorni scorsi e riguardante il tema delle rivolte negli Stati Uniti, è giunto alla Redazione un articolo di Massimo Franceschini, che su alcuni punti muove delle critiche. Pensiamo che l’azione delle masse popolari nel riprendersi gli spazi pubblici di protesta, sia senza dubbio cruciale per rivitalizzare la nostra democrazia fortemente depotenziata negli ultimi decenni. E’ giusto al tempo stesso consentire la maggiore partecipazione possibile su questo tema, che non riguarda soltanto l’America ma anche la Francia dei gilet gialli e la loro parabola, per alcuni fortunata, per altri insoddisfacente. A breve seguirà la replica finale di Umberto Spurio.

* * *

La situazione socio-politica attuale necessita di ben altro impegno ed ingegno, rispetto a quanto espresso nei decenni passati

Con questo articolo intendo svolgere varie riflessioni, anche in relazione a quale approccio debba avere una politica che possa realmente chiamarsi alternativa al “sistema” che stiamo vivendo sulle nostre teste.

Quanto andrò a dire è ispirato da questo articolo, sempre pubblicato su Liberiamo l’Italia, in cui ravvedo quelli che reputo “errori” in relazione all’analisi svolta, e con il quale dissento riguardo agli auspici finali.

Ciò che andrò a dire è da intendersi come contributo di discussione in merito al carattere dell’impegno politico ed alle prospettive del movimento.

Il tema dell’articolo è quello delle manifestazioni in USA, poi esportate in tutto il mondo da una sapiente regia, susseguitesi all’uccisione di un cittadino di colore da parte delle forze di polizia.

Non sto qui a narrare la storia, ormai ampiamente sviscerata da ogni angolazione, almeno nel WEB, storia che potrebbe comunque rivelarci ancora sorprese.

L’apertura dell’articolo spiega il problema sollevato dall’autore.

Le imponenti manifestazioni di protesta che stanno scuotendo “il paese delle opportunità” sono lette in due versioni: una vede le proteste come effetto della propaganda anti Trump delle forze di potere più o meno nascoste (deep state) che ruotano intorno ai liberal (Obama, Clinton); un’altra vede una ribellione priva di progetto politico per conquistare il potere elettorale e dedita solo a saccheggi e disordini.

Entrambe le letture sono in errore. La prima commette l’errore di esaltare troppo il ruolo di chi soffia sul fuoco per aizzare le folle contro Trump; la seconda commette l’errore di guardare solo ai saccheggi e ai danneggiamenti (per altro limitati e circoscritti a ben poche situazioni).

[…] la prima nega che sono le gravi contraddizioni sociali ed economiche a produrre rivolta e la seconda nega la portata politica della rivolta. In qualche caso le due letture sono fuse per partorire l’idea che la rivolta si è sviluppata per effetto delle azioni, più o meno sotterranee, dei liberal obama-clintoniani e non ha respiro politico per costruire un partito che vinca le elezioni come dimostrato dai danneggiamenti.

Fermiamoci qui, per ora.

Anche se sono completamente consapevole dei gravissimi problemi socio-economici degli USA e del sostanziale razzismo ancora molto presente nel tessuto sociale, non posso non notare che la parte violenta prende la scena della maggioranza pacifica; non posso comunque non tener conto del fatto che gli Stati interessati siano per la maggior parte dem, con episodi assai “singolari” di poliziotti che forniscono bancali di mattoni da lanciare ai “rivoltosi” o che lasciano bruciare le loro macchine messe in bella fila; in ultimo, non posso non vedere come questo caso sia condizionato dalla campagna elettorale e dalle minacce di Trump in relazione all’Obamagate ed alla sua volontà, reale o presunta, ma chiaramente espressa, di fermare il deep state ed arrestare la Clinton.

Oltre a questo vediamo che in men che non si dica le organizzazioni dietro la protesta, finanziate anche da Soros e da svariate multinazionali, le stesse che giorno dopo giorno “ambientano” il nostro presente e costruiscono l’“amorevole” futuro di controllo post covid – il documento Colao di questi giorni ne è prova lampante – hanno messo in campo tutto il potere mediatico per regalarci una tournée estiva della protesta stile gruppo rock assai ben servita da media che, a crimini similari compiuti però in altri momenti, hanno dato spazi assai minori.

Insomma, per farla breve, trovo la protesta del tutto normale, almeno nella sua parte pacifica e largamente maggioritaria, mentre quella violenta, insieme alla conseguente operazione mediatica ed “internazionalista”, credo rispondano ad esigenze ben precise legate alle elezioni di novembre, culmine della faida fra deep state e “patrioti” capeggiati da Trump, di cui non vediamo ancora gli esatti contorni; una lotta che non credo si possa negare e che sembra scompaginare in modo inusitato, anche in maniera trasversale, assetti politici e molto altro ancora fino ad arrivare, potenzialmente, a mettere in dubbio e riscrivere l’attuale globalizzazione.

Riguardo al fatto che la rivolta non avrebbe “respiro politico per costruire un partito che vinca le elezioni come dimostrato dai danneggiamenti”, indicando questo come un errore di lettura, l’autore non apporta dati o ragionamenti che indichino, al contrario, una reale presenza organizzativa di questo “respiro”.

Seguitiamo con l’articolo.

Quello che manca completamente in queste letture è il riconoscimento che nella fase attuale del dominio capitalistico la potenza messa in campo dagli apparati di sistema è di tale portata e penetrazione da prevenire ogni possibilità di arrivare a disturbare il manovratore. […]

La domanda è: il neoliberismo con la sua economia predatoria, guerrafondaia, emarginante, che assegna tutti i poteri ai mercati finanziari, è il nemico delle classi popolari che protestano? Se la risposta è Sì, chi può affermare che esso consenta la nascita di un progetto politico parlamentare che dichiari di volerlo spazzare via, di togliere potere ai mercati e di costruire un’economia comunitaria?

Quindi, se l’autore riconosce la potenza del sistema nell’impedire la nascita di un progetto politico alternativo, ma vede un errore nel ritenere la protesta non in grado di esprimere un partito che vinca le lezioni, credo di doverne dedurre – a meno di non aver frainteso, cosa della quale mi scuserei in anticipo – che se dalla protesta nascesse un soggetto politico, comunque non sarebbe realmente di rottura per il sistema, ok?

Altrimenti, se ho ben capito, ci sarebbe una contraddizione nel ragionamento.

Anche la questione del non poter “arrivare a disturbare il manovratore”, mi sembra si riferisca al sistema in generale, data la sua potenza; quindi, anche qui, l’eventuale progetto politico che si formasse dalla protesta non arriverebbe a disturbare chi detiene le leve del potere.

Credo occorra dire qualcosa anche sul “manovratore”: descrivendo la forza e la penetrazione degli apparati del sistema, l’autore sembra intendere con questo termine il sistema stesso, non l’attuale presidente.

Anche qui non mi trovo concorde, dato che secondo me, con tutta evidenza, si è organizzato tutto il gran casino sopra le proteste pacifiche proprio per mettere in difficoltà Trump, e magari distogliere l’attenzione da questioni come l’Obamagate ed altre, che se esplodessero in tutta la loro portata metterebbero in seria difficoltà i “dem”, anche in Italia.

E veniamo alla conclusione dell’articolo, sulla quale ho le più grandi perplessità.

Dunque se non vogliamo credere alle befane, apriamo gli occhi e riconosciamo una cosa: la tendenza al cambiamento vero, quello che scuote dalle fondamenta tutto il marciume del sistema predatorio neoliberista, ha la forma dell’insurrezione popolare proprio perché ogni altra possibilità è preclusa al popolo o boicottata, dall’affitto di sedi organizzative, alle campagne mediatiche, dalle criminalizzazioni fatte ad arte alle infiltrazioni di agenti provocatori, dalla mancanza di supporto legale alla mancanza di soldi.

La tendenza all’insurrezione viene con ogni evidenza dimostrata dal movimento dei gilet gialli francesi.

La questione centrale è dunque un’altra: la costruzione di un organismo politico che dia direzione e coerenza rivoluzionaria alle ribellioni.

Intanto diciamo che, proprio grazie alla pervasività del sistema, trovo assai difficile poter arrivare a dar direzioni e coerenze a fenomeni troppo esposti alle infiltrazioni sistemiche, all’opera dei media, all’azione di apparati e corporazioni in grado di capire, conoscere e “guidare” praticamente tutto, viste le tecnologie che usano.

L’illusione di poter cavalcare vere o presunte “insurrezioni” ci rimanda, a mio parere, a prassi da anni ’60-’70 del tutto controproducenti, oltreché fuori dal tempo: questo se teniamo conto proprio della pervasività del sistema, pure ammessa dall’autore, in grado di iniettare quel “pensiero unico progressista” capace di prendere possesso della maggior parte delle persone come mai accaduto prima, anche delle menti più istruite e potenzialmente più “libere”.

Ed anche qui mi sembra di riscontrare un’analisi non del tutto centrata se, come a me pare, si intende dimostrare la presenza di una generale “tendenza all’insurrezione” introducendo la questione gilet gialli, fenomeno ben diverso ed a mio parere non assimilabile a quanto accade negli USA.

L’esperienza francese ci mostra anche l’assoluta sproporzione fra l’impegno profuso, certamente encomiabile, con i risultati ottenuti: praticamente nulli elettoralmente e del tutto insufficienti nell’intaccare il sistema ed i rapporti sociali.

Non ho seguito abbastanza la loro vicenda, ma non credo si sia realizzata la “costruzione di un organismo rivoluzionario” che avrebbe dato “direzione e coerenza rivoluzionaria alle ribellioni”: il sostanziale fallimento del movimento, credo ormai spento, è quindi dovuto a tale mancanza?

Siamo sicuri che un “soggetto rivoluzionario” sarebbe stato ben metabolizzato dai gilet gialli?

Soprattutto se, inoltre, si fosse presentato con bandiere ideologiche atte a riportare la narrazione al secolo scorso, come se il fallimento di tutto ciò non sia ormai più che evidente e conclamato, anche se forse non ancora completamente metabolizzato da tutti.

Come possiamo ancora pensare, oggi come oggi, che avanguardie rivoluzionarie di vecchia memoria possano condurre le “masse” verso una liberazione?

Facendo anche parte della Confederazione Sovranità Popolare, sono fra i primi ad aver espresso la speranza che da movimenti ed associazioni possa nascere un nuovo partito, ma solo se capace di riunire il fronte alternativo sotto le insegne di Costituzione e dei diritti umani: i valori unificanti che contengono le migliori aspirazioni del ‘900, quei diritti sociali e civili espressi in una forma che non avrebbe permesso, se onestamente perseguiti, l’opera di divisione sociale sul quale si sono gettate le ideologie, con i risultati che tutti possiamo oggi vedere.

A tale scopo sto anche scrivendo una serie di articoli su quello che chiamo un “partito ideale”, in cui intendo tracciarne contenuti, carattere, strutture e funzionamento.

Penso che “ribellione” sia oggi una voce facilmente “digeribile” dal pensiero unico, che ha da un bel pezzo compreso come ridurre a moda passeggera ed ininfluente ogni istanza diversa dal buonismo di Stato, magari cooptandola in un disegno più grande di oppressione spacciata per “progresso”, come per tematiche in ordine alla biopolitica e la questione gender.

Penso che solo una nuova POLITICA trasparente ed unificante, espressione resiliente di ciò che non possiamo ancora perdere, abbia ancora una pur minima chance di rompere l’accerchiamento: a patto che provenga da un atto  visibile ed umile, in cui i migliori e disinteressati militanti, intellettuali, giuristi, filosofi, artisti e giornalisti smettano le insegne ideologiche, depongano le armi dialettiche e si siedano al tavolo per descrivere il nuovo Stato di diritto, vera espressione di comunità non più sovrane, che ancora non capiscono come diritti civili e sociali possano convivere in maniera responsabile e creativa.

Solo i diritti umani e le Costituzioni che li incarnano hanno questa sintesi, per tutto il resto c’è quanto “concesso” dalla giostra politica-spettacolo, fra un talk ed un’“emergenza sanitaria”, parte 1.

Fonte: https://www.massimofranceschiniblog.it/

9 giugno 2020

fonte immagine: Flickr

DALLO STATO DI DIRITTO ALLO STATO DI CONCESSIONE

 

DALLO STATO DI DIRITTO ALLO STATO DI CONCESSIONE

Attenzione… Allarme…

Quello cui state assistendo non è un esercitazione! Quello che vedete è il proseguio di un progetto che parte da lontano, che ha vissuto dei momenti “magici” come la modifica della legge Anselmi del 1978, la promulgazione della legge Balduzzi del 2012, la cancellazione dell’articolo 18, la nascita della legge Gelli nel 2017 lo stesso anno in cui è nata la legge 119 della Lorenzin. Tutti passaggi che hanno creato l’epoca che stiamo vivendo in cui la sanità pubblica, trasformata da strumento per assolvere un importante diritto costituzionale come la salute, in una concessione data da aziende convenzionate con lo stato.

Così l’esercito che in Italia si occupa di sanità, oggi in piena pandemia mondiale, si è trasformato in uno dei settori speculativi di maggior rilevanza nel paese, ed i lavoratori dipendenti di quel settore  in galline dalle uova d’oro da sfruttare.

Di questi giorni è la polemica sull’obbligo vaccinale per chi lavora nella sanità, lo stesso obbligo che ha escluso dal sistema scolastico i bambini 0-5 a partire dal 2017, un imposizione indiretta: i dirigenti ospedalieri, i datori di lavoro così come fu per i dirigenti scolastici trasformati in responsabili per eventuali contagi negli spazi da loro gestiti che, per questo, escludono dal lavoro coloro che non vogliono essere privati della libertà di scelta sul proprio corpo; questo sui lavoratori si trasforma in minaccie di licenziamento.

Ma sono davvero i lavoratori l’obiettivo? È davvero la salute pubblica quello cui lo stato ambisce?

In un paese in cui i lavoratori con contratti a tempo indeterminato sono davvero pochi e perlopiù abbiamo persone con contratti atipici, a tempo determinato, contratti a progetto dalle mille arzigogolate modalità, quanti piegheranno la testa ed accetteranno questa imposizione?

E se l’obiettivo fosse quello di ridurre un altro diritto in concessione???

Parliamoci chiaro se passa il concetto che il lavoro è una concessione, così come la salute, perché non dovrebbe esserlo l’istruzione?

Immaginate, i ragazzi dai 6 ai 16 anni che oggi possono accedere nelle scuole, anche senza vaccini pagando una sanzione amministrativa, per avere il diritto all’istruzione, se passa l’esclusione dei lavoratori contrari all’obbligo, perché non dovrebbero conseguentemente essere espulsi dalle scuole?!

Una generazione che di fatto sarà vittima di un passaggio epocale: la trasformazione dello stato di diritto nello stato di concessione.

La trasformazione delle comunità in community, la costituzione sostituita dalle policy. È chiaro che in un mondo in cui, il capitalismo ha preso il controllo di ogni settore della società fino a trasformare i diritti in merce, la verticalizzazione del potere è indispensabile.

Ed è altrettanto chiaro che non basteranno atteggiamenti ribelli e riforme sociali.

Per tornare ad uno stato di diritto con aspirazioni umanistiche è indispensabile un presa di coscienza della situazione attuale per sperare in una nuova evoluzione che porti gli individui a vedersi protagonisti della propria esistenza.

“Mala tempora currunt”.

Solo noi, riconoscendo la tirannide ideologica e le strategie che usano, potremo tornare a far risorgere il sole.

L’OBBEDIENZA NON E’ UNA VIRTU’

 

L’OBBEDIENZA NON E’ UNA VIRTU’

Riflettere non è cosa che nel XXI secolo facciamo volentieri. Lo sappiamo e lo ripetiamo in continuazione.. dobbiamo agire, fare, muoverci, digitare, chattare, lavorare, comprare, vendere, parlare. Attività che richiedono la lentezza, come riflettere, leggere, ascoltare sono sgradevoli e sgradite. Chi insegna lo sa perfettamente.

Non piacciono, queste attività, non solo ai giovanissimi, i cosiddetti “millennials”, parola orribile e priva di senso, come in genere quelle che mutuiamo dall’inglese, non a caso lingua veloce, e poco ricca di sfumature lessicali, che tutti parlano o dicono di parlare. Non piacciono neppure agli adulti. A quelli di età compresa tra 40-50 anni soprattutto.

Naturalmente tutto questo è filtrato dalla mia esperienza personale … Però tra mille difetti ho il pregio di essere osservatrice attenta: e vedo intorno a me donne e uomini fatti che con la testa china sui tablets e sui cellulari chattano in continuazione, e dichiarano di informarsi via internet, e difatti ripetono nei loro discorsi parole mutuate dalla rete e credono come all’oracolo a quanto leggono sul loro smartphone. Ognuno ha la sua Delfi. Panorama a parte.

Nulla da dire. Non si può negare il merito di avere oggi la possibilità di conoscere in tempo reale eventi e fatti. Ma occorrerebbe un ulteriore passaggio, fondamentale. E cioè che informazioni, letture, parole fossero ri-masticate, ri-visitate, ri-pensate con calma e senso critico da ciascuno di noi. E questo raramente accade. Costa fatica. Rallenta. Infastidisce. Può indurre a dubitare ed è proprio questo che non vogliamo fare, perché … Perché il dubbio su un singolo fatto, su una singola parola potrebbe produrre una sorta di effetto domino. In tal modo ci sentiremmo sospesi, senza rassicuranti certezze e saremmo costretti a confrontarci con gli altri per chiarimenti, domande, risposte. Confrontarci non coi like, il ditino su e giù, ma gli altri di carne e ossa.

Ci chiederemmo inevitabilmente infatti chi ha detto, chi ha scritto, chi ha pensato certe parole e/o teorie e come e quando e dove e perché.. Insomma un casino. Il ditino dei like invece lo puoi dimenticare, lo puoi ignorare. Non mina il tuo mondo sicuro di certezze, di frasi fatte, di emoji e di faccine.

Avete mai riflettuto sulle tonnellate di cuori e bacini e manine che ci arrivano su whatsapp? Quando li vedi, non si può negare, ci sentiamo amati, accettati, ci sentiamo in gamba. Tutti ci amano e se qualcuno ci odia … possiamo ignorarlo o odiarlo a nostra volta da lontano o cancellarlo e/o sputtanarlo con altri simboli su altre chat. Insomma, chissenefrega.

La persona che non la pensa come noi, che può dircelo, motivarcelo, spiegarcelo in presenza va affrontata e bisogna essere in grado di farlo. Dobbiamo a nostra volta motivare, spiegare, discutere ciò che pensiamo e perché lo pensiamo… Devi avere idee tue davvero e idee chiare, che per essere tali devono scaturire da una riflessione, implicano una  presa di posizione. Idee che sono state interiorizzate, per le quali sappiamo trovare parole e dimostrazioni efficaci, che reggano l’onere della prova dell’antitesi argomentativa.  Frutto di una sorta di dialettica interiore. Ma quanto tempo costa. Quanta energia improduttiva in termini di risultati concreti, come quelli che nella nostra società capitalistico-digitale contano unicamente. E questo lavorio faticoso è tipico ormai  solamente di chi ha vocazione filosofica.  E non dimentichiamo che la filosofia  è una malattia che  i più evitano da secoli, almeno dalla rivoluzione industriale in poi, essendo tipica di  colui o colei per cui il fare conta meno dell’essere. Essere non nel senso di Fromm, chiaramente, ma nel senso dei millennials … Essere come omologazione, accettazione, imitazione.

Che diavolo c’entra tutto questo pistolotto con il tempo del covid? Me lo chiedo da sola, non perché sono sola fisicamente essendo questi tempi di quarantena, o zona rossa o variamente colorata o altra fantasiosa  invenzione partorita dai cervelli, si fa per dire, che conducono noi poveri cristi per mano da nove lunghi mesi in questa via crucis della pandemia, raccomandandoci, ordinandoci, spaventandoci su quanto ci circonda, memento mori, come se fossimo incapaci di avere paura da soli. Siamo capaci, garantito.

In tempo di covid, di vita relegata in casa, condizionata negli scambi sociali e ahimè culturali, si potrebbe credere che l’atto del pensare, del riflettere sia facilitato: c’è più tempo, c’è più solitudine, meno distrazioni. Completamente sbagliato, a parer mio.

In questa sorta di tempo sospeso il riflettere invece fa ancora più paura. Si teme di scoprire che i nostri pensieri più nascosti sono difformi da quanto viene accettato comunemente e sdoganato come accettabile. Di scoprire che abbiamo idee non condivise, come se ciò significasse ipso facto che non sono condivisibili. Paura fuori e paura dentro di noi… troppo da sopportare. Allora viene a soccorrerci l’istinto di conservazione.

Sospendiamo il giudizio sui fatti, smettiamo di interrogarci sul giusto e lo sbagliato, ci mettiamo a “fare”. Ci teniamo occupati. Facciamo di tutto. Ci mettiamo a cucinare, come all’inizio della quarantena, a cantare sui balconi, a chattare con gli amici e anche i non amici, a seguire le serie di cuochi e cucine in tv: tutto, pur di evitare l’incubo. Che è: Pensare con la nostra testa. Per esempio al virus. Quella sfera con gli spunzoni colorati che ci uccide. Che ci pensino i medici, i virologi a quello che bisogna fare noi. Noi ascoltiamo in religioso silenzio e fingiamo di non cogliere contraddizioni, sciocchezze, castronerie inframmezzate alla verità. Noi obbediamo.

Ciechi, sordi, muti. Crediamo a tutto riguardo ai dati e alle cure. Al numero dei morti. Al fatto che ne usciremo, o non ne usciremo. Qualsiasi cosa diranno loro è giusta, ci toglie un bel pensiero, interrogarci su quello che pensiamo davvero noi. Non in merito alla malattia, non potremmo farlo,  lo fanno gli esperti ed è giusto così, ma in merito a come noi viviamo la malattia e ciò che ha prodotto su di noi anche senza averla contratta. Ci ha cambiato? Sarà un cambiamento duraturo?  Torneremo mai come prima del virus?

Eppure dovremmo rifletterci. Riflettere se è vero che la pandemia ci ha reso più solidali, più disposti verso gli altri, anzi basterebbe dire, disposti ad ascoltare UN altro. Sembrerebbe di sì, ci ripetiamo di sì. Il dolore migliora secondo la credenza comune. Io non ho questa impressione. Vedo intorno a me persone più diffidenti, più chiuse in se stesse di prima, più gelose del proprio microcosmo, che comprende la loro famiglia e pochi altri. D’altra parte non ci consigliano di viaggiare in due in auto, di visitare in non più di due i parenti, pochi, di stare ad un metro anche in strada, di precipitarsi a rialzare la mascherina appena una sagoma umana si profila all’orizzonte? E allora, se uno sviene in strada, cavoli suoi. Se un vecchietto inciampa, che si rialzi da solo. Alla faccia della solidarietà. Al supermercato ti fulminano se in 20 secondi netti non ti disinfetti le mani e ti allontani dalla fila. Quando si viene a sapere di un morto per covid la prima domanda è: quanti anni aveva? Se era “vecchio”, definizione elastica e mai chiarita, segue spallucciata accennata e sospiro di sollievo… Dai, in fondo più che vecchi non si diventa …  tutti chiusi nel proprio io. Tutti, ma tutti.

Solidarietà oggi è sinonimo di fare donazioni alla protezione civile, agli ospedali. Se timidamente uno fa notare che pagare le tasse in un paese normale dovrebbe includere per un cittadino pagare per ospedali e protezione civile, sei una stronza. Non sei solidale, sei egoista. Non sei caritatevole.

Qualcosa non torna. Ma se non ci rifletti non ci fai caso. Come riflettere sul vaccino. Vaccino sì o no? Vaccino sì, certo per tutti, belli e brutti, vecchi e giovani, a rischio alto e a rischio meno alto. Eminenti opinionisti che hanno fatto la loro fortuna in termini di denaro, ovvio, sul covid dichiarano senza battere ciglio che bisogna renderlo obbligatorio subito, per tutti, senza se e senza ma. Che bisogna prendere a pedate chi osasse rifiutarlo. Che un governo deciso e autorevole non deve pensarci un secondo ad obbligare tutti. Ma non c’è libertà di scelta? Non siamo garantiti dall’articolo tre della Costituzione repubblicana? Risposta perentoria: esistono deroghe alle libertà dell’individuo. Fuori luogo appellarsi alle libertà costituzionali, che palle quelli che agitano ogni due per tre per la costituzione! Salus Publica Suprema Lex. Per una volta gli opinionisti si lasciano andare anche a una citazione, loro che aborrono le citazioni come in genere accade a quelli che sono ignorantelli.

Il vaccino ci salverà. Non si discute. Lo dicono i virologi, i politici, e soprattutto le aziende farmaceutiche che generosamente mettono a disposizione subito dosi sottocosto. Se non fosse tragico, ci sarebbe da riflettere sul potere della pubblicità… quanti dei cittadini  cosiddetti comuni conoscevano il nome Pfizer? Ora è il nome della salvezza. Qualsiasi medicinale con quel marchio sarà per forza ottimo. Tutti farmacisti …

Ma se osiamo fare a voce alta queste riflessioni ci prendono per seminatori di zizzania. Dobbiamo rimanere uniti obbedendo senza pensare, come bravi soldatini. Questa pandemia è una guerra, dicono, anzi peggiore della guerra. Ammettiamolo. Ma anche i soldati possono pensare e lo hanno fatto anche in passato; non che sia attività amata dai generali, tanto per rimanere in tema. Certo se i soldati pensano troppo magari si scocciano di andare al macello e magari decidono di disobbedire e piantare tutto. L’obbedienza è una virtù solo per chi comanda. Non ci rende migliori, ci rende solo passivi. Invece no, i migliori in questo mondo terrorizzato e terrorizzante obbediscono. Stanno a due metri non a uno di distanza, scopano con la mascherina, chattano in rete per evitare il contatto umano e non pensano. Mai.

*Floriana Balducci è membro del Cpt di Lucca

MANIFESTO PER LA SOVRANITÀ, LA DEMOCRAZIA E L’AUTODETERMINAZIONE

 

MANIFESTO PER LA SOVRANITÀ, LA DEMOCRAZIA E L’AUTODETERMINAZIONE

In occasione dell’anniversario della ratifica del Trattato di Maastricht (1 novembre 1993), il nascente partito Italexit con Paragone, Brexit Party, Génération Frexit e Somos España hanno sottoscritto il seguente Manifesto.

MANIFESTO PER LA SOVRANITÀ, LA DEMOCRAZIA E L’AUTODETERMINAZIONE
Le organizzazioni firmatarie, provenienti da vari paesi membri dell’Unione europea, sottoscrivono la seguente dichiarazione di principi:
1. 28 anni dopo la firma del Trattato di Maastricht e 63 anni dopo la firma del Trattato di Roma, l’Unione europea è diventata una tirannia tecnocratica che opprime gran parte dei paesi dell’Europa, calpestandone la sovranità e condannandoli alla deindustrializzazione e alla stagnazione economica. Lungi dall’unire i popoli d’Europa, l’UE ha seminato discordia tra di loro. È arrivato il momento di prendere atto dell’inequivocabile fallimento sociale, economico e politico dell’UE e dell’euro e di chiedere il conto ai politici che hanno sostenuto – e continuano a sostenere – il processo di integrazione sovranazionale.
2. A coloro che decretano la morte dello Stato-nazione, rispondiamo che la sovranità deve risiedere solo ed esclusivamente nel popolo, e che non c’è popolo senza nazione. Questo è in netto contrasto con la natura sovranazionale dell’Unione europea e delle sue istituzioni antidemocratiche. Non esiste democrazia senza nazione e l’Unione europea, indipendentemente dai desiderata degli europeisti, non è uno Stato-nazione.
3. Il ritorno del ruolo dello Stato-nazione non implica, come alcuni vorrebbero farci credere, un ritorno alle ostilità e alle guerre del passato. Questo perché siamo patrioti e non nazionalisti. Come disse Charles de Gaulle, «un patriota è colui che ama il suo paese, un nazionalista è colui che odia il paese degli altri». Vogliamo un’Europa fondata sulla cooperazione internazionale, sugli scambi culturali e studenteschi, nonché sul commercio equo tra i paesi. Ma questa Europa che vogliamo dovrà necessariamente essere costruita al di fuori dell’Unione europea. Amiamo l’Europa; per questo ci opponiamo all’Unione europea.
4. A vent’anni dalla sua creazione, l’euro si è dimostrato un clamoroso fallimento. Soffoca l’economia di molti paesi europei, contribuisce alla loro deindustrializzazione e avvantaggia solo un gruppo ristretto di paesi – Germania in primis. Asseriamo che il diritto di battere la propria moneta è un attributo fondamentale dello Stato-nazione, alla pari del controllo dei confini, delle forze armate e dei corpi diplomatici. Questo è il motivo per cui sosteniamo la fuoriuscita dei nostri paesi dall’euro (richiesta che le parti firmatarie che non fanno parte della zona euro sostengono appieno).
5. Lungi dall’essere una fatalità della storia, il globalismo – un progetto essenzialmente volto a scindere i processi economici e politici dal processo democratico, di cui l’UE rappresenta l’esempio più lampante – non è una realtà ineluttabile. Asseriamo che è possibile e necessario che gli Stati riprendano il controllo delle loro economie, nella misura in cui ogni paese valuterà opportuno. È una questione di volontà politica. Ma questo richiede dei veri patrioti alla guida dei nostri paesi, e la liberazione di questi ultimi dai vincoli dell’UE e dell’euro.
6. I grandi Stati-nazione d’Europa, emersi tra il XVII e il XX secolo, sono un tesoro da preservare e fanno parte del patrimonio comune di tutta l’umanità. Questo è il motivo per cui ci opponiamo alla loro disarticolazione e alla loro frammentazione in micro-Stati, come aspira surrettiziamente a fare la politica delle euroregioni. Lo scopo della creazione di tali micro-Stati è garantire che il rullo compressore del globalismo non incontri più nessun ostacolo alla sua politica di soggiogamento dei popoli. Solo gli Stati-nazione possono resistere all’offensiva globalista. Per questo affermiamo che la questione della sovranità nazionale è strettamente collegata a quella dell’unità nazionale.
7. L’Unione europea non può essere riformata. Dalla firma del Trattato di Roma, abbiamo sentito più e più volte promesse di “un’altra Europa”, ma questo non si è mai tradotto in fatti concreti. Per recuperare la sovranità e dunque la democrazia è necessario abbandonare l’Unione europea e l’euro, e prima è meglio è.
8. Per tutti questi motivi, ci impegniamo a perseguire l’obiettivo di far uscire i nostri paesi dalla gabbia dell’Unione europea (se necessario, per quei paesi che lo riterranno utile, promuovendo un referendum sull’uscita, come è stato fatto nel Regno Unito), accelerando così il suo inevitabile scioglimento.
Organizzazioni firmatarie:
Brexit Party
Italexit con Paragone
Génération Frexit
SOMOS España
Qui il sito dell’appello multi-lingua: eurexit.org

 

COVID-19: UNA INQUIETANTE ANALOGIA: LE CLASSI DIRIGENTI ITALIANE NON SONO MALVIVENTI, SONO CRIMINALI INCALLITI

 

COVID-19: UNA INQUIETANTE ANALOGIA

L’attuale momento storico che l’Italia sta attraversando trova un parallelo in quanto avvenne nella tarda primavera del 1924. La mattina del 10 giugno di quell’anno, il deputato socialista Giacomo Matteotti fu aggredito e rapito da alcuni sicari del regime fascista. Matteotti venne ucciso nel corso della colluttazione che ebbe luogo all’interno dell’automobile utilizzata per il rapimento.  

Fin da subito alla popolazione italiana fu chiaro che l’atroce, vile evento andava ricondotto ad una vendetta di Mussolini verso un uomo onesto, coraggioso, dalla schiena dritta, che dagli scranni delle aule parlamentari, ormai asservite alla dittatura, aveva saputo denunciare tutte le uccisioni e gli imbrogli del regime fascista. Le recenti ricostruzioni storiche di Mauro Canali e Giovanni Fasanella, basate in gran parte su documenti provenienti da archivi britannici, ci hanno detto di più, hanno mostrato che Mussolini e i suoi sgherri eliminando Matteotti, intendevano coprire un’enorme ruberia di stato, un accordo sottobanco con un’importante compagnia petrolifera americana al fine di sfruttare le risorse energetiche italiane.

Quel che importa, che può essere d’insegnamento ai giorni nostri, è il fatto che, in quei convulsi, febbrili giorni del 1924, l’Italia intera venne percorsa da un’onda di furente indignazione, il popolo sdegnato realizzò pienamente quanto fosse crudele quel gruppo di malviventi, come li chiamerà cinquant’anni più tardi Pier Paolo Pasolini, il cui unico scopo era di ingrassarsi a spese delle classi popolari.

Non si poteva più celare la verità in quel frangente, che fu, prima ancora dell’8 settembre 1943, la fine dell’innocenza per il nostro popolo. Eppure quella rabbia genuina non seppe tradursi e indirizzarsi ad una strategia politico-militare coesa e lungimirante. Non vi fu alcuna sollevazione di piazza, utile a sovvertire le sorti della nazione. Le opposizioni al regime fascista, divise da anni da rancori e feroci inimicizie, non seppero andare oltre la sterile protesta dell’abbandono delle aule parlamentari, il cosiddetto Aventino, e permisero così al regime di serrare le file e riprendere il controllo del paese, con il sostanziale contributo del monarca Vittorio Emanuele III.

Quanto avvenne allora, non dovrà ripetersi oggi.

L’attuale governo, perseguendo una  gestione autoritaria e ansiogena del Covid-19, ha gravemente leso la libertà personale di ciascuno di noi, impedendo il diritto di movimento, di associazione, di espressione del dissenso politico.

Ha fermato l’economia l’italiana, senza che vi fossero evidenze sufficienti, dal punto di vista scientifico, per procedere ad un così scriteriato blocco delle attività produttive. Non ha saputo approntare rimedi, atti a sfamare la popolazione, impossibilitata a provvedere ai bisogni più elementari come il cibo. Infine, non ha saputo alzare il capo di fronte ai diktat dell’Unione Europea, e ancor oggi persegue una linea di confusa ed equivoca trattativa che sembra attendere non si sa bene che cosa.

Tutto questo, mentre 21 milioni di italiani, lo dicono anche i giornali dell’establishment, non sono più in grado di sfamare i propri cari.

Se vi è un aspetto positivo, in questa folle vicenda a metà tra rigurgiti del passato e un futuro distopico dove verremo tracciati, marchiati e vaccinati come bestie, sta nella nuova consapevolezza che anima molti nostri connazionali, non più succubi delle menzogne a un tanto al chilo. Che l’Unione Europea non sia nostra amica, ma che da anni stia gravemente indebolendo il nostro tessuto vitale, è ormai convinzione di milioni di italiani.

Non dobbiamo però illuderci che questo sentimento possa condurre, di per sé, ad un esito felice. Cullarsi nell’illusione che l’Unione Europea possa implodere nelle proprie contraddizioni sarebbe quanto mai pernicioso. Gli avversari possiedono ancora molte armi, e non esiteranno ad utilizzarle, non appena lo riterranno opportuno.

Per questo la questione del passaggio da colonia dell’Unione Europea ad una nuova, vitale Repubblica Italiana non si può slegare da quello della guida politica di questa nostra nazione. La salvezza non verrà dai guru anti-europeisti del web, spesso vogliosi di ottenere un trapuntino in parlamento, comunque in grado di affascinare platee telematiche non più abituate ad un sano esercizio di diffidenza e di spirito critico.

Soltanto moltiplicando gli sforzi, già in atto, si potrà giungere ad una sostanziale unità fra le forze politiche e sociali che si rifanno al cosiddetto “sovranismo costituzionale”. Nel dialogo che si apre sempre più fra coloro che auspicano una nuova liberazione italiana dagli invasori stranieri, andrà costruita una solida base fatta di trasparenza e di difesa del diritto di rappresentanza democratica. La costruzione di un nuovo fronte popolare, dovrà andare di pari passo ad un processo di rottura dell’accerchiamento fin qui subito da tutti noi, un riappropriarsi delle piazze e dei luoghi della protesta e del dissenso politico.

Sarà questo il nostro 25 aprile.

*Alberto Melotto è membro del Comitato Popolare Territoriale di Torino

L’attuale momento storico che l’Italia sta attraversando trova un parallelo in quanto avvenne nella tarda primavera del 1924. La mattina del 10 giugno di quell’anno, il deputato socialista Giacomo Matteotti fu aggredito e rapito da alcuni sicari del regime fascista. Matteotti venne ucciso nel corso della colluttazione che ebbe luogo all’interno dell’automobile utilizzata per il rapimento.  

Fin da subito alla popolazione italiana fu chiaro che l’atroce, vile evento andava ricondotto ad una vendetta di Mussolini verso un uomo onesto, coraggioso, dalla schiena dritta, che dagli scranni delle aule parlamentari, ormai asservite alla dittatura, aveva saputo denunciare tutte le uccisioni e gli imbrogli del regime fascista. Le recenti ricostruzioni storiche di Mauro Canali e Giovanni Fasanella, basate in gran parte su documenti provenienti da archivi britannici, ci hanno detto di più, hanno mostrato che Mussolini e i suoi sgherri eliminando Matteotti, intendevano coprire un’enorme ruberia di stato, un accordo sottobanco con un’importante compagnia petrolifera americana al fine di sfruttare le risorse energetiche italiane.

Quel che importa, che può essere d’insegnamento ai giorni nostri, è il fatto che, in quei convulsi, febbrili giorni del 1924, l’Italia intera venne percorsa da un’onda di furente indignazione, il popolo sdegnato realizzò pienamente quanto fosse crudele quel gruppo di malviventi, come li chiamerà cinquant’anni più tardi Pier Paolo Pasolini, il cui unico scopo era di ingrassarsi a spese delle classi popolari.

Non si poteva più celare la verità in quel frangente, che fu, prima ancora dell’8 settembre 1943, la fine dell’innocenza per il nostro popolo. Eppure quella rabbia genuina non seppe tradursi e indirizzarsi ad una strategia politico-militare coesa e lungimirante. Non vi fu alcuna sollevazione di piazza, utile a sovvertire le sorti della nazione. Le opposizioni al regime fascista, divise da anni da rancori e feroci inimicizie, non seppero andare oltre la sterile protesta dell’abbandono delle aule parlamentari, il cosiddetto Aventino, e permisero così al regime di serrare le file e riprendere il controllo del paese, con il sostanziale contributo del monarca Vittorio Emanuele III.

Quanto avvenne allora, non dovrà ripetersi oggi.

L’attuale governo, perseguendo una  gestione autoritaria e ansiogena del Covid-19, ha gravemente leso la libertà personale di ciascuno di noi, impedendo il diritto di movimento, di associazione, di espressione del dissenso politico.

Ha fermato l’economia l’italiana, senza che vi fossero evidenze sufficienti, dal punto di vista scientifico, per procedere ad un così scriteriato blocco delle attività produttive. Non ha saputo approntare rimedi, atti a sfamare la popolazione, impossibilitata a provvedere ai bisogni più elementari come il cibo. Infine, non ha saputo alzare il capo di fronte ai diktat dell’Unione Europea, e ancor oggi persegue una linea di confusa ed equivoca trattativa che sembra attendere non si sa bene che cosa.

Tutto questo, mentre 21 milioni di italiani, lo dicono anche i giornali dell’establishment, non sono più in grado di sfamare i propri cari.

Se vi è un aspetto positivo, in questa folle vicenda a metà tra rigurgiti del passato e un futuro distopico dove verremo tracciati, marchiati e vaccinati come bestie, sta nella nuova consapevolezza che anima molti nostri connazionali, non più succubi delle menzogne a un tanto al chilo. Che l’Unione Europea non sia nostra amica, ma che da anni stia gravemente indebolendo il nostro tessuto vitale, è ormai convinzione di milioni di italiani.

Non dobbiamo però illuderci che questo sentimento possa condurre, di per sé, ad un esito felice. Cullarsi nell’illusione che l’Unione Europea possa implodere nelle proprie contraddizioni sarebbe quanto mai pernicioso. Gli avversari possiedono ancora molte armi, e non esiteranno ad utilizzarle, non appena lo riterranno opportuno.

Per questo la questione del passaggio da colonia dell’Unione Europea ad una nuova, vitale Repubblica Italiana non si può slegare da quello della guida politica di questa nostra nazione. La salvezza non verrà dai guru anti-europeisti del web, spesso vogliosi di ottenere un trapuntino in parlamento, comunque in grado di affascinare platee telematiche non più abituate ad un sano esercizio di diffidenza e di spirito critico.

Soltanto moltiplicando gli sforzi, già in atto, si potrà giungere ad una sostanziale unità fra le forze politiche e sociali che si rifanno al cosiddetto “sovranismo costituzionale”. Nel dialogo che si apre sempre più fra coloro che auspicano una nuova liberazione italiana dagli invasori stranieri, andrà costruita una solida base fatta di trasparenza e di difesa del diritto di rappresentanza democratica. La costruzione di un nuovo fronte popolare, dovrà andare di pari passo ad un processo di rottura dell’accerchiamento fin qui subito da tutti noi, un riappropriarsi delle piazze e dei luoghi della protesta e del dissenso politico.

Sarà questo il nostro 25 aprile.

*Alberto Melotto è membro del Comitato Popolare Territoriale di Torino

E’ NATO IL FRONTE DEL DISSENSO

 

E’ NATO IL FRONTE DEL DISSENSO

Ce l’abbiamo fatta! Dopo la partecipatissima e vivace Assemblea del Circo Massimo a Roma, lo scorso 24 aprile, promossa dalla Marcia della Liberazione, con un forte appello all’unità, è nato il Fronte del Dissenso. Di seguito ne pubblichiamo il documento costitutivo, precisando che l’elenco delle associazioni, gruppi, movimenti che ne fanno parte, è in fase di elaborazione e verrà pubblicato quanto prima.

SORGE IL FRONTE DEL DISSENSO

Oltre cento tra associazioni civiche, mediche, di avvocati, comitati territoriali e movimenti politici, dichiarano solennemente di unirsi al fine di coordinare la loro azione a livello locale e nazionale.

Sappiamo di essere diversi, di possedere differenti identità. Il momento drammatico che vive il nostro Paese ci spinge alla cooperazione e all’unità, affinché si possa, tutti insieme, liberarci dallo Stato d’emergenza e da un regime che si va trasformando in una vera e propria dittatura.

Molto è ciò che ci unisce. L’amore per la Patria, la fedeltà alla Costituzione del 1948, la difesa della sovranità nazionale e popolare, l’idea della democrazia reale basata sulla consapevole e attiva partecipazione dei cittadini alla vita politica, i valori della giustizia sociale, della fratellanza tra i popoli e della solidarietà reciproca. Ci unisce il principio che il popolo ha il diritto-dovere di rovesciare il governo quando questo diventa tirannia. Chiunque condivide le nostre idee è benvenuto nella nostra solidale comunità.

Con l’arrivo del nuovo governo la situazione è peggiorata, sia dal punto di vista sociale ed economico che dal punto di vista dei diritti civili. Con la leggenda della “distruzione creativa” centinaia di migliaia di piccole e medie aziende falliranno, moltissimi perderanno il lavoro. Il Mezzogiorno e intere zone del Paese saranno condannate ad un inesorabile declino. In nome dell’Unione europea Draghi (vedi le condizioni capestro degli “aiuti” di Bruxelles) cederà gli ultimi brandelli di sovranità lasciando che l’Italia diventi preda delle multinazionali e della finanza predatoria.

Fondamentali diritti sociali, democratici e umani continuano ad essere calpestati ogni giorno: ci viene infatti impedito di lavorare, di circolare, di manifestare liberamente, di socializzare, di scegliere come vogliamo curarci. Il governo non solo riconferma la violazione dell’habeas corpus imponendo l’obbligo vaccinale (compresi i bambini). Sempre ubbidendo all’Unione europea sta cercando di istituire un regime di apartheid che prevede, per chi rifiuti legittimamente di vaccinarsi, la privazione di essenziali diritti civili e umani.

In queste condizioni non resistere, equivale a diventare collusi con gli abusivi che ci governano. Chi ci comanda teme la crescita dell’opposizione popolare e per questo ci vuole divisi. Contro chi sta in alto dobbiamo quindi unire tutti coloro che stanno in basso. Ci diamo come compiti immediati lo stop all’obbligo vaccinale per il personale sanitario e la cancellazione della legge che anticipa il “passaporto vaccinale”.

Sosteniamo quindi tutte le multiformi mobilitazioni in corso e quelle che verranno attuate nelle prossime settimane portando i nostri contenuti:

1) La fine immediata dello stato d’emergenza ripristinando lo stato di diritto le libertà e i diritti costituzionali a cominciare dal lavoro; 2) L’adozione delle esistenti cure contro il Corona Virus attraverso le reti di assistenza domiciliare; 3) No all’obbligo vaccinale, libertà di scelta terapeutica, a fianco dei medici che tengono fede al giuramento di Ippocrate; 4) Il rifiuto del passaporto sanitario, che priverebbe tanti cittadini di fondamentali diritti di libertà; 5) La riapertura immediata delle scuole e di tutte le attività imprenditoriali, lavorative e commerciali e di tutti i luoghi della cultura e dello sport; 6) Indennizzi adeguati alle categorie, ai lavoratori, alle Partite Iva, falcidiati dai lockdown; 7) Moratoria sul 5G contro il capitalismo della tecno-sorveglianza; 8) La difesa della libera informazione contro le censure.

Non ci fermeremo qui. Il nostro è un impegno che va oltre questa stagione. Con i metodi di una disobbedienza civile ben organizzata ci batteremo affinché sia posto fine allo Stato d’emergenza e cacciati gli abusivi al potere.

La nostra lotta si concluderà solo quando avremo ottenuto la definitiva liberazione nazionale e torneremo ad essere donne e uomini liberi.

Chiunque condivide le nostre idee è benvenuto nella nostra comunità solidale

11 maggio 2021.

Per adesioni e contatti: frontedeldissenso@gmail.com

Fonte: marciadellaliberazione.it

Comments 6

  1. Lidia Beduschi

    Ci sono sempre.
    Lidia Beduschi

  2. Klaus Monreal

    E vai!!!
    Finalmente!!!!!

  3. Stefano

    Ottima e grandiosa iniziativa, più siamo meglio é…

  4. Daniela

    Bravissimi concordo in pieno

  5. Andrea

    Siete e saremo ogni giorno più grandi.Viva la LIBERTÀ!!!!

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Lettera aperta al signor Luigi di Maio, deputato del Popolo Italiano

ZZZ, 04.07.2020 C.A. deputato Luigi di Maio sia nella sua funzione di deputato sia nella sua funzione di ministro degli esteri ...