Così i Paesi dell’Est stanno uccidendo l’Unione Europea
Non la crisi economica del 2008. Non la crisi dell’immigrazione del 2015. A mettere fine al progetto europeo rischia di essere la crisi del sistema legale su cui si regge l’architettura democratica dell’Unione europea, per cui ogni sistema giudiziario nazionale è indipendente dal suo governo e applica la legislazione europea in un clima di fiducia reciproca tra Stati. Oggi, sotto il peso di anni di violazioni sempre più gravi, quella fiducia sta venendo meno.
«Potrebbe essere una crisi letale se la Commissione continuerà a non opporsi con forza a chi non rispetta le leggi dell’Unione», avverte Daniel Keleman, professore di politica dell’Unione europea alla Rutgers University. Il riferimento diretto è a Ungheria e Polonia, i due Paesi che da tempo non rispettano più i valori europei, dai diritti umani alla libertà di stampa, e, ultimamente, nemmeno il diritto comune, che violano ogni volta che contraddice i loro piani di governo, finendo per ergersi a esempio negativo per le altre giovani repubbliche della regione orientale d’Europa. Sempre più tentate da una svolta sovranista e autoritaria. «Il degrado delle istituzioni democratiche è un cancro che sta andando in metastasi», continua Keleman: «Ha iniziato dieci anni fa con l’Ungheria, poi nel 2015 si è allargato alla Polonia, quindi si è esteso alla Bulgaria e ora anche la Slovenia. Senza contare Malta e la Romania».
Per oltre dieci anni le
pose autoritarie e le affermazioni apertamente sovraniste, quando non
razziste, del premier ungherese Viktor Orban sono state tollerate da
Commissione e Consiglio, entrambi convinti che si trattasse
prima di tattica politica interna e poi di atteggiamenti isolati che non
avrebbero influenzato il funzionamento delle Istituzioni. Ma la
retorica reazionaria ed euroscettica, che nel 2019 attaccò in Patria
persino l’allora presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, nel
tempo si è tradotta, a Bruxelles, in un’opposizione ferrea a qualsiasi
progetto di condivisione della crisi migratoria e all’elaborazione di
una coerente politica estera comune, e, a Budapest, nella riduzione
della libertà di stampa, nella subordinazione del potere giudiziario a
quello esecutivo e nella soppressione sempre più violenta di ogni tipo
di minoranza o di atteggiamento non conforme.
«Kaczynski ha visto che il metodo di Orban funzionava e l’ha immediatamente adottato», spiega Sophie Pornschlegel del think-tank European Policy Center. L’obiettivo di Budapest e Varsavia è la creazione, con i soldi dell’Unione, di una nuova società conservatrice che non lasci spazio alle cosiddette “élite liberali” e consolidi il potere nelle mani di pochi oligarchi vicini al regime in nome di un nazionalismo spinto. In questa società non c’è spazio per la diversità, dunque nemmeno per i cittadini della comunità Lgbtqi, al punto che la Polonia ha creato zone in cui i suoi membri non possono mettere piede, in barba al diritto di libera circolazione nell’Unione, e che l’Ungheria, con la scusa dell’emergenza del Covid-19, ha varato una legislazione che impedisce il cambio di genere. In piena violazione della libertà delle istituzioni accademiche, Budapest ha poi cacciato dal Paese la “Central European University” perché critica del suo crescente autoritarismo e ora pensa di rimpiazzarla con una succursale dell’università cinese Fudan.
Con i cinesi i due Paesi
europei cominciano ad avere in comune la visione della libertà di
stampa, o meglio della sua assenza. Dal 2018, quando un oligarca vicino a
Orban prese il controllo di Kesma, l’organizzazione che racchiude 500
portali ungheresi, la repressione della stampa ha subito
un’accelerazione fino ad arrivare alla recente vendita a sodali di Orban
sia di Index, l’ultimo grande sito di informazione, sia di Klubrádió,
una delle ultime radio indipendenti. Nella classifica appena pubblicata
di “Giornalisti senza frontiere”, l’Ungheria è al 92esimo posto al mondo
per la libertà di stampa e il peggiore Paese europeo. Ai giornalisti
ungheresi, tacciati dal governo di diffondere fake news, è oggi impedito
persino entrare negli ospedali per raccontare come il governo sta
gestendo la pandemia. La crisi sanitaria è invece la scusa con cui il
governo polacco ha imposto nuove tasse sulla raccolta pubblicitaria dei
media, nel tentativo di indebolirli ulteriormente: una mossa che si
accompagna all’acquisizione pubblica di radio e giornali detenuti da
aziende straniere. «Polonia e Ungheria hanno messo in atto la “cattura
dei media”», dice Marius Dragomir, direttore del centro per i media, i
dati e la società alla Central Eastern University di Vienna: «Un
fenomeno che si sta espandendo a macchia d’olio nell’Europa dell’Est
tramite nuove leggi restrittive sulla stampa, con il pieno controllo
governativo dei media pubblici e con l’acquisizione di media privati da
parte di soggetti vicini al governo».
Oltre all’eliminazione della stampa libera, Varsavia e Budapest hanno lanciato un vero e proprio assalto al potere giudiziario.
In barba al principio di non discriminazione, hanno iniziato con
l’abbassamento dell’età di pensionamento dei giudici, in modo da mandare
a casa una serie di magistrati ritenuti scomodi. Poi hanno introdotto
varie misure disciplinari contro le toghe che insistono
nell’applicazione della costituzione nazionale e della legislazione
europea. Bruxelles ha risposto lanciando alcune procedure d’infrazione
contro Ungheria e Polonia ma sempre in ritardo e senza incidere davvero
sul corso degli eventi.
«La Commissione non sta affatto facendo un buon lavoro», dice Judy Dempsey del think-tank Carnegie Europe, esprimendo quello che in molti pensano a Bruxelles: «Dovrebbe essere molto più aggressiva per ottenere un risultato e arrestare questa continua erosione dei principi europei». Anche perché ormai Polonia e Ungheria non sono più casi isolati. «Il modello ungherese ha funzionato così bene che il nostro primo ministro Janez Jansa lo sta importando di sana pianta», dice da Lubiana Petra Lesjaktusek, presidente dell’Associazione slovena dei giornalisti: «All’agenzia di stampa nazionale il governo ha tolto i fondi per farla fallire e, se la perdiamo, abbiamo perso la democrazia». Talmente capillare e ossessiva è diventata la campagna di denigrazione dei giornalisti, da Jansa accusati persino di diffondere il Covid-19, che «praticamente scrivi un articolo e poi aspetti la valanga di insulti che ti arriverà via Twitter», racconta David Jug, direttore del giornale online Zurnal24: «La cosa peggiore è che anche il tono del discorso pubblico è cambiato: la violenza verbale contro chi la pensa in modo diverso è fortissima». E questo in un Paese che dal primo luglio assumerà la presidenza dell’Unione europea.
La violenza contro la stampa non fedele al regime è aumentata anche in Bulgaria,
dove le autorità non solo non proteggono i giornalisti ma li arrestano,
racconta Sophie In’T Vled, l’olandese a capo della Commissione per le
libertà civili, la giustizia e gli affari interni del Parlamento
europeo: la corruzione è diventata un problema talmente endemico che in
teoria non dovrebbe consentire la concessione dei fondi europei. «La
Commissione gioca in maniera cinica», sostiene Keleman: «Dice di volere
difendere i valori europei ma di non avere gli strumenti. E così vara
una nuova “cassetta degli attrezzi” ogni volta che c’è un assalto allo
Stato di diritto. Però in casa ha già tutta una serie di attrezzi
scintillanti che non ha mai usato». Tra questi c’è la sospensione dei
diritti di voto di uno Stato membro prevista dall’articolo 7 del
trattato di Lisbona nel caso di violazioni fondamentali dello Stato di
diritto. Ma, lanciata sia contro l’Ungheria che la Polonia tre anni fa, è
rimasta lettera morta. E non solo a causa della Commissione ma anche di
un Consiglio europeo in cui nessuno Stato si decide a puntare il dito
contro un altro per paura di ritorsioni o perché a sua volta bisognoso
di aiuto su altri dossier. Risultato: la paralisi. «A causa dei
compromessi politici l’unica soluzione sembra essere quella che passa
dalla Corte di giustizia europea», dice Filippo Donati, presidente di
Encj, l’organizzazione europea che unisce gli organi nazionali a
sostegno della magistratura: «Però la Commissione dovrebbe essere molto
meno esitante e provare davvero a restaurare lo Stato di diritto anziché
prendere tempo», come sta facendo con la clausola di condizionalità
inserita nel Recovery fund.
Dopo un’aspra battaglia politica, i
fondi del Recovery possono essere sospesi dalla Commissione per i Paesi
in cui sono accertate violazioni dello Stato di diritto che ne
compromettono la buona gestione, e questo già a partire dal primo
gennaio di quest’anno. Ma la Commissione Von der Leyen ha deciso invece
di aspettare che la Corte di giustizia europea, sollecitata da Polonia e
Ungheria, si esprima sulla bontà della clausola. «Potrebbe già
attaccare Ungheria e Polonia, e non solo sull’indipendenza della
magistratura ma sull’intera situazione, la libertà di stampa, delle ong,
sui limiti imposti al sistema dell’istruzione, sul sistema elettorale,
sulla libertà delle persone», dice In’T Vled: «Non ha nessun motivo
valido per aspettare se non quello di compiacere gli Stati membri. A
discapito di tutti noi». Motivo per cui il mese scorso il Parlamento
europeo - delle tre, l’istituzione europea più reattiva in tema di
diritti umani e Stato di diritto - ha deciso che, se la Commissione non
si muoverà entro giugno, la porterà davanti al tribunale europeo per
«rifiuto di agire».
Il pericolo per l’Unione europea è ogni
giorno più concreto. «Proprio perché non è uno Stato, l’intero sistema
europeo dipende dal fatto che i tribunali nazionali applichino la
legislazione comune» dice Keleman: «Se in alcuni Stati membri i giudici
non sono più indipendenti, dunque non più affidabili per i colleghi
europei, allora basta poco perché tutta l’architettura frani». Partendo
magari da un evento banale, come il rifiuto di un mandato di
estradizione.
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