“Emigranti indesiderati”: la storia degli italiani all’estero
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Accoglienza forzata e emigrazione indesiderata: lo straniero è un problema.
Esistono verità che non conoscono differenze culturali e temporali, perché rispondono direttamente alla natura ostile dell’uomo: il nemico è lo straniero. È una verità che riscontriamo quotidianamente: la resistenza all’ostilità contro gli emigranti indesiderati è il risultato di uno sforzo critico e umano che travalica il rifiuto superficiale, ma è un processo faticoso e poco supportato dal comune sentire.
La scorsa settimana il ministro lussemburghese degli Esteri, Asselborn, ha accusato il ministro italiano dell’Interno, Matteo Salvini, di promuovere un’etica fascista anni Trenta, aggiungendo che gli italiani non devono dimenticarsi che loro stessi hanno avuto la possibilità di arricchirsi grazie alle loro emigrazioni all’estero. La verità storica ci ricorda anche altro.
Italiani “emigranti indesiderati”
“Indesiderabile people” erano gli emigranti indesiderati dalle popolazioni autoctone.
Gli italiani venivano fortemente sfruttati come mano d’opera a basso costo, erano considerati cafoni, arretrati dal punto di vista dei costumi e delle tradizioni, popolo di contadini.
Delinquenti, sporchi, ignoranti, criminali e mafiosi: questi erano gli italiani all’estero. “Una razza inferiore” o “stirpe di assassini, anarchici e mafiosi”. Dalle parole ai fatti: gli italiani che si videro rifiutati e emarginati intrapresero la carriera criminale.
Le testate giornalistiche straniere, per scoraggiare nuovi arrivi, pubblicavano periodicamente invettive contro gli emigranti italiani.
Il 18 dicembre 1880, The New York Times usciva con un editoriale titolato “Emigranti indesiderati”, nel quale l’immigrazione italiana veniva definita “promiscua, feccia sporca, sventurata, pigra, criminale dei bassifondi italiani”.
Il 17 aprile 1921 sullo stesso quotidiano, un articolo “Gli italiani arrivano a grandi numeri” lamentava il crescente numero di immigrati italiani: «il numero di immigrati sarà limitato solo dalla capacità delle navi». E ancora: «lo straniero che cammina attraverso una città come Napoli può facilmente rendersi conto del problema con cui il governo ha a che fare: le strade secondarie sono letteralmente brulicanti di bambini che scorrazzano per le vie e sui marciapiedi sporchi e felici. La periferia di Napoli brulica di bambini che, per numero, può essere paragonato solo a quelli che si trovano a Delphi, Agra e in altre città delle Indie orientali».
L’emigrazione italiana
Tra il 1861 e il 1985 gli italiani emigrati all’estero sono stati circa 29 milioni: di questi, 10.275.000 sono successivamente tornati in Italia, mentre 18.725.000 si sono definitivamente stabiliti all’estero.
Dal 2006 ad oggi, secondo l’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (AIRE), il numero di cittadini italiani che risiedono fuori dall’Italia è passato dai 3.106.251 ai 4.973.942 del 2017.
Gli italiani continuano ad emigrare da circa un secolo e mezzo: prima la “grande emigrazione” (1876-1915), poi la “migrazione europea” (1945-1970) e infine la “nuova emigrazione”, la cosiddetta ‘fuga dei cervelli’.
La principale causa dell’emigrazione italiana è stata la povertà, la mancanza di lavoro o della terra da poter lavorare, soprattutto nell’Italia meridionale.
Gli italiani emigrarono anche per problemi politici interni, specialmente durante il ventennio fascista: fuggirono comunisti, anarchici ed ebrei. Altro motivo, e grande problema di questo paese, l’insicurezza dovuta alla criminalità organizzata.
Gli emigranti italiani: chi erano, chi sono
Lasciarono l’Italia tra il 1870 e il 1914 prevalentemente uomini senza una specializzazione lavorativa definita, prima del 1896, la metà dei migranti era formata da contadini. I genovesi, molto prima del 1861, furono tra i primi a partire per l’Argentina e l’Uruguay.
L’emigrazione non ha influenzato nello stesso modo tutte le regioni italiane. La “grande emigrazione” interessò prevalentemente zone rurali del sud.
I flussi migratori degli italiani all’estero aumentarono con la crescita delle loro rimesse, nonostante l’aumento dei salari in Italia. Proprio come accade per gli sbarchi migratori odierni, i primi emigranti italiani, uomini o ragazzi che partivano da soli, spedivano a parenti o amici rimasti in Italia, il denaro necessario per comprare i biglietti e raggiungerli. Il flusso costante di denaro dagli Stati Uniti all’Italia arrivò a costituire circa il 5 per cento del Pil italiano.
Chi partiva dalle regioni settentrionali si imbarcava a Genova o a Le Havre in Francia, mentre dal Sud a Napoli. Chi viaggiava in terza classe doveva accontentarsi di un sacco imbottito di paglia e un orinatoio ogni 100 persone, per tragitti che potevano durare anche un mese.
I “padroni” italiani: gli scafisti
La tratta di esseri umani non è un’invenzione tutta libica. Nei primi anni dopo l’Unità d’Italia l’emigrazione era totalmente fuori dal controllo dello Stato: gli emigranti passavano per le mani di agenti di emigrazione, chiamati “padroni”, il cui unico obiettivo era ricavare il massimo profitto dalla povertà assoluta.
Nel 1888 in Italia fu approvata la prima legge volta a contrastare gli abusi dei “padroni”, nel 1901 fu invece creato il commissariato dell’emigrazione, con il compito di assegnare licenze alle imbarcazioni idonee al trasporto dei migranti. Palermo, Napoli e Genova: i porti di imbarco destinati agli emigranti.
Il commissariato sanciva i costi fissi dei biglietti, cercava di mantenere l’ordine nei porti di imbarco, ispezionava gli emigranti in partenza, individuava ostelli e strutture di accoglienza e stipulava accordi con i Paesi di destinazione del flusso migratorio per aiutare coloro che arrivano.
Gli italiani: ‘né bianchi, né negri’ negli Stati Uniti
Gli Stati Uniti erano fra le mete più ambite dagli emigranti italiani, ma non erano di certo a loro volta ben voluti.
“Non sono, ecco, non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Dopotutto non si possono rimproverare. Oh, no. Non si può. Non hanno mai avuto quello che abbiamo avuto noi. Il guaio è…. che non ne riesci a trovare uno che sia onesto”. Queste le famose parole del presidente degli Stati Uniti, Richard Nixon, intercettato durante una conversazione nello Studio Ovale il 13 febbraio 1973.
Prima ancora, nel 1924, il presidente del Museo americano di storia naturale, Henry Fairfield Osborn, durante una conferenza nazionale sull’immigrazione, sintetizzò efficacemente lo spirito di accoglienza della popolazione statunitense: «Questi immigrati stanno facendo degli Stati Uniti una discarica per cittadini indesiderabili».
Si riferiva agli immigrati provenienti dall’Europa meridionale, in particolare agli italiani, per lo più provenienti da Campania, Sicilia e Veneto.
Dal 1924 al 1965 rimase in vigore la riforma americana sull’immigrazione, che ufficializzava la «profonda irritazione nei confronti di persone che parlano una lingua straniera e vivono una vita straniera», tanto da arrivare a classificarli (niente di così diverso dalla proposta del vicepremier leghista di censire i rom). I nord europei erano i privilegiati, mentre gli altri, in particolare gli italiani, erano in fondo alla lista: gli indesiderati, appunto.
Gli emigranti indesiderati, accontentandosi di poco, favorivano l’abbassamento degli stipendi, accaparrandosi il risentimento dei lavoratori americani.
Dalla relazione dell’Ispettorato per l’Immigrazione del Congresso americano sugli immigrati italiani negli Stati Uniti dell’Ottobre 1912, riviviamo un déjà-vu che dovrebbe indurci a riflettere:
“Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura.
Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perché tengono lo stesso vestito per molte settimane.
Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri.
Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti.
Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina.
Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci.
Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti.
Molti
bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti
alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani
invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti.
Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro.
Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti.
Le
nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma
perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in
strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.
I
nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma,
soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel
nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti
o, addirittura, attività criminali.
Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare.
Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario.
Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia.
Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione”.
Alla stregua di oggi, non mancarono le teorie complottiste, che gridavano all’invasione degli immigrati e alla sostituzione della forza lavoro americana.
Nel 1916 compariva uno dei libri che maggiormente influenzò lo spirito di ostilità nei confronti degli emigranti indesiderati, The passing of the grate race, di Madison Grant. Questo denunciava la decadenza della grande razza bianca e la spiegava tramite una classificazione interna. I “caucasoidi”, la razza superiore, erano distinti in tre tipologie: i “nordici”, ossia i migliori, gli “alpini” e infine, a mo’ di piaga viziosa, pigra e stupida, i “mediterranei”, quindi greci, italiani e spagnoli.
Da poco liberi dalla piaga della schiavitù, gli Stati Uniti consideravano gli italiani né bianchi, “ma nemmeno palesemente negri”. Anche in Australia si parlava dell’immigrazione italiana come “dell’invasione della pelle oliva”.
‘Mangiaspaghetti’ e minatori in Lussemburgo e Belgio
I primi italiani in Lussemburgo arrivarono nel 1892, ma intorno al 1910 la comunità italiana era già salita a 10.000 persone. Secondo le cifre, aggiornate all’inizio del 2018, gli italiani presenti nel paese sono 21.962 e costituiscono il 3,6 per cento della popolazione totale.
Gli emigranti italiani hanno lavorato soprattutto nelle industrie siderurgiche e nelle miniere di ferro di Esch-sur-Alzette, di Dudelange, Rumelange e Differdange.
I quotidiani italiani, negli anni ‘70, riportavano le condizioni di vita degli ‘emigranti indesiderati’ ritraendo scenari tristi quanto quelli attuali, denunciandone il grado si abbandono. Lamentavano alloggi sovraffollati e scarse condizioni igieniche, affitti elevati e l’impossibilità per i ragazzi di studiare in scuole italiane.
Riccardo Ceccarelli, uno dei tanti emigranti indesiderati in Lussemburgo, racconta al Corriere della Sera la sua storia e quella di altre decine di migliaia di emigrati italiani. «La fame deve essere una brutta bestia se chi è nato in posti così belli ha poi deciso di andarsene a lavorare dentro un buco profondo duecento metri». Il buco è la miniera lussemburghese di Esch-sur-Alzette, il posto tanto bello che si è dovuto lasciare è l’Italia, per la precisione la Romagna. Gli italiani venivano considerati una comunità di “mangiaspaghetti e orsi selvatici, quando andava bene, o sbrigativamente tutti delinquenti”, ma capaci di lavorare instancabilmente nelle miniere.
Le ondate migratorie più massicce, in Belgio, si registrano nel primo periodo postbellico, in seguito al 1918, quando il paese aveva la necessità di ricostruirsi. Iniziarono ad arrivare operai italiani nelle miniere di carbone sotterranee, nelle cave di pietre e marmi e nei cantieri di costruzione.
Nei primi cinque anni arrivarono in Belgio 20.000 italiani, per poi raggiungere, negli anni ’60, il 44,2 per cento della popolazione straniera del paese.
Dopo la Seconda guerra Mondiale, il governo italiano strinse un accordo con quello belga, per regolare lo scambio di forza-lavoro italiana con il carbone del Belgio: 50.000 operai italiani sotto i 35 anni, per 12 mesi di lavoro, in cambio di 200 chili di carbone giornaliero.
L’8 agosto 1956, a Marcinelle, nella miniera Bois du Cazier, morirono 262 minatori, di cui 136 italiani, rimasti intrappolati in seguito ad uno scoppio. Furono complessivamente 867 i minatori italiani morti in Belgio dal 1946 al 1963.
La manodopera a basso costo in Germania e Svizzera
Il governo italiano sottoscrisse lo stesso accordo anche con la Germania, chiedendo di occupare lavoratori stagionali italiani, a causa della diminuzione costante delle esportazioni italiane in Germania.
Di fronte alla reticenza tedesca di assumere manodopera italiana, il governo minacciò di «tornare ad una politica commerciale restrittiva se gli altri stati non fossero stati disposti ad un’attuazione liberale dell’assunzione di manodopera».
Solo nel settembre 1955, quando la disoccupazione tedesca toccò il 2,7 per cento, il ministero del lavoro tedesco stimò a 800.000 il «bisogno aggiuntivo di manodopera per il 1956».
In Svizzera si registrano tre importanti flussi di emigranti italiani: nella seconda metà dell’Ottocento, nel primo dopoguerra e dopo la Seconda guerra mondiale.
L’integrazione non fu per niente facile: gli italiani passarono da 526.579 nel 1970, a 379.734 nel 1990, per scendere ancora a 289.111 nel 2009, pur rimanendo la comunità straniera più numerosa in Svizzera, seguita da tedeschi e portoghesi.
Diffusissimo lo spirito xenofobo portò a iniziative contro l’inforestierimento prima nel 1965, poi nel 1969, quando Azione popolare, partito di estrema destra, chiese di fissare un tetto massimo del 10 per cento per la popolazione straniera. L’iniziativa fu respinta nel 1970 dal 54 per cento dei votanti.
La terza, del 1972, fu respinta dal 65,8 per cento degli aventi diritto al voto, e infine la quarta, nel 1977, fu respinta dal 70,5%.
Moltissimi italiani scelsero la Svizzera, perché il suo sistema produttivo era uscito praticamente indenne dalla guerra: a fronte di una crescente domanda produttiva, anche internazionale, si vide costretto ad aumentare manodopera. Gli imprenditori svizzeri decisero di rivolgersi ai lavoratori stranieri a basso costo, provenienti soprattutto dall’Italia.
Dalla fine della guerra agli anni ’60 a emigrare in Svizzera furono soprattutto abitanti del Nord Italia. I testimoni di quei viaggi raccontano scenari raccapriccianti, ne è un esempio Maria Paris, originaria di un villaggio nei pressi di Bergamo, che il 20 agosto 1946, andò in treno da Milano a Losanna. Racconta che arrivati alla stazione di Briga, tutti gli emigranti italiani furono fatti completamente spogliare in due tristi capannoni, dovettero farsi una doccia prima di essere cosparsi di DDT e passare la visita medica. Una donna incinta che rifiutava di svestirsi fu rispedita alla frontiera seduta stante.
“Oggi, a differenza di un tempo, i bagni, le lavature, le strigliature sono sempre più frequenti, le visite più severe, le indagini più accurate e il servizio procede più preciso, ma la nave di Lazzaro è sempre lì con l’apparenza negriera e gli occhi miserabili che attendono sono sempre in massima parte spauriti per quanto già rassegnati all’ignoto”. Giovanni Preziosi, 1907.
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