La mancanza di spirito costituente alla base dello scontro sulle riforme
Una riforma necessaria, ma che fatica a procedere anche per una non irrilevante "questione di metodo": si può mettere mano alla Costituzione senza preoccuparsi di ricreare uno «spirito costituente»? E' la domanda che si pone Mauro Magatti sul Corriere della Sera di domenica 27 luglio.
Quindici anni fa, quando la parola d’ordine era federalismo, la
modifica del Titolo V della Costituzione, realizzatasi in un’ottica di
parte e di breve periodo, ha dato risultati deludenti: il riassetto
delle autonomie territoriali, architettato in modo frettoloso e
disorganico, ha creato numerose disfunzioni, delle quali ancora oggi
paghiamo le conseguenze.
Oggi, i temi che scaldano l’opinione
pubblica sono il taglio dei costi della politica e il superamento del
bicameralismo perfetto. Anche queste sono questioni importanti, come
importante era darsi un assetto federalistico decente. Ma, oggi come
allora, le modifiche a elementi portanti dell’impianto istituzionale del
nostro Paese rischiano di venire forgiate dalla reattività dello
scontro politico e dell’interesse di partito di breve termine.
Va da
sé che una discussione, anche accesa, su una materia così delicata non è
solo scontata ma anche opportuna. Per questo sarebbe sbagliato
giudicare negativamente il confronto, talora aspro, magari condito con
iniziative forti volte a richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica
sui punti più controversi. Tutto ciò fa parte di un ritualismo di cui la
democrazia non può fare a meno.
Ben diversa è però l’aria che si
respira in questi giorni, dove i toni dello scontro rischiano di
arrivare a spezzare quel presupposto comune che le istituzioni
democratiche devono comunque salvaguardare, se vogliono poter
funzionare. Di fronte ad un tale spettacolo viene da chiedersi: si può
mettere mano alla Costituzione senza preoccuparsi di ricreare uno
«spirito costituente»? Se non si è lavorato per costruire una
prospettiva inclusiva di interesse generale, come potrà la nuova
Costituzione essere riconosciuta giusta da tutti? Non porterà dentro di
sé, come una sorta di vizio d’origine, un deficit di bene comune? Come
quando si litiga in famiglia, dire adesso chi ha ragione e chi torto è
impossibile. E, proprio come nei litigi tra parenti (dove, come nel caso
della politica, è impossibile mandarsi semplicemente al diavolo) la
matassa è destinata a ingarbugliarsi ulteriormente nella misura in cui
in ballo ci sono anche altre dimensioni cruciali (come la legge
elettorale). Tanto più che i protagonisti amano rivolgersi ciascuno ai
propri supporter a suon di tweet e pagine Facebook, come noto non
esattamente ambiti istituzionali dove le parole sono misurate e il
dibattito argomentato.
Renzi, che può contare su un vasto consenso
popolare, ha ragione a dire che si deve cambiare. E che non basta dire
di no. Ma se siamo a questo punto è anche per il modo in cui la
questione è stata posta: aver trasformato la riforma costituzionale —
per definizione complessa e delicata — nella madre di tutte le riforme è
stata una forzatura, aggravata dall’aver contemporaneamente aperto il
nodo elettorale (che tocca la stessa sopravvivenza dei partiti). Il
tutto senza una chiara cornice di senso, se non il taglio dei costi
della politica e la mitica governabilità, a cui da sempre lo stesso Pd è
stato piuttosto allergico. Il governo non dimentichi che il suo primo
dovere è quello di governare: ed è l’ambito economico e sociale — che
peraltro nell’Italia di oggi versa in condizioni critiche — quello che
merita la massima e più urgente attenzione. Osservazione valida anche
pensando all’Europa che aspetta riforme convincenti. Nell’orizzonte dei
1.000 giorni che si è dato il premier — che significa lavorare con un
Parlamento che esprime equilibri elettorali precedenti alla sua ascesa
politica — c’è certamente modo di arrivare alle riforme costituzionali:
senza dimenticare che, quando si parla di Costituzione, il metodo e lo
spirito sono sostanza. L’opposizione, da parte sua, ha tutto il diritto
di sollevare le questioni che ritiene opportune. Ma ciò non può
significare praticare l’ostruzionismo parlamentare, gridare al golpe,
accusare il primo ministro e il presidente della Repubblica di
autoritarismo. Si può e si deve discutere. Ma alla fine si deve potere
anche decidere.
Quando ero bambino, c’era un anziano parente che, in
dialetto lombardo, censurava le situazioni caotiche con l’esclamazione:
l ’è cum’è una repubblica . Probabilmente nostalgico dell’ordine
monarchico, l’antenato panettiere stigmatizzava così il rischio che la
democrazia sempre corre di implodere quando le parti che la
costituiscono dimenticano il bene superiore che le unisce. Di fronte a
quanto sta accadendo in questi giorni, mi chiedo cosa possa pensare
della democrazia un giovane — ammesso e non concesso che oda gli echi
dello scontro — in un momento in cui il suo presente è gramo e il suo
futuro indecifrabile.
Ha ragione Grasso: speriamo che il weekend
porti consiglio, così da vedere, nelle prossime ore, un’iniziativa
politica coraggiosa, in grado di interrompere la spirale nella quale
siamo finiti.
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