IN DIFESA DI DANILO DOLCI
Pubblicato in "Quaderni di "Nuova Repubblica"", 4, 1956, p. 15, anche in "Il Ponte",XII, 4, aprile
1956, pp. 529-544 e in Processo all’art. 4,"Testimonianze", 8, pp. 291-316. Testo stenografico
dell’arringa pronunciata il 30 marzo 1956 dinanzi al Tribunale penale di Palermo.
(Danilo Dolci era stato arrestato il 2 febbraio 1956 per aver promosso e capeggiato, insieme con
alcuni suoi compagni, una manifestazione di protesta contro le autorità che non avevano provveduto
a dar lavoro ai disoccupati della zona: la manifestazione era consistita nell’indurre un certo numero
di questi disoccupati a iniziare lavori di sterramento e di assestamento in una vecchia strada
comunale abbandonata, detta "trazzera vecchia", nei pressi di Trappeto (provincia di Palermo), allo
scopo di dimostrare che non mancavano né la volontà di lavorare né opere socialmente utili da
intraprendere in beneficio della comunità. I principali capi di accusa riguardavano la violazione
degli articoli 341 (oltraggio a pubblico ufficiale), 415 (istigazione a disobbedire alle leggi), 633
(invasione di terreni) del Codice penale.)
Signori Giudici.
Questo processo avrebbe potuto concludersi, meglio che con la parola mia, con la parola di un
giovane. Le parole dei giovani sono parole di speranza, preannunziatrici dell'avvenire: e questo è un
processo che preannuncia l'avvenire.
Avrebbe dovuto parlare prima l'imputato, Danilo Dolci che è un giovane; e dopo di lui,non per
difenderlo ma per ringraziarlo, il più giovane dei suoi difensori, l'avvocato Antonino Sorgi.
Se si fosse fatto così questo processo sarebbe finito da cinque giorni; e da cinque giorni Danilo
Dolci e gli altri imputati, i cosiddetti "imputati", sarebbero tornati a Partinico, invece di tornarvi,
come vi torneranno, soltanto stasera, dopo l'assoluzione, a far Pasqua con le loro famiglie.
Ma forse, per la risonanza nazionale e sociale di questo processo, è stato meglio che sia avvenuto
così: che abbiano parlato anche i vecchi e meno giovani; e non brevemente.
E così l'onore e la responsabilità di chiudere la discussione e di rivolgervi, signori giudici, l'ultima
preghiera che vi accompagnerà in camera di consiglio, sono toccati a me; non solo per la mia età,
ma forse anche perché io sono qui, unico tra i difensori, soltanto un avvocato civilista, cioè un
avvocato che non ha esperienza professionale di processi penali.
Questo, infatti, non è un processo penale: o almeno non è quello che i profani si immaginano,
quando parlano di un processo penale.
Nel processo penale il pubblico concentra i suoi sguardi sul banco degli imputati, perché crede di
vedere in quell'uomo, anche se innocente, il reo, l'autore del delitto: l'uomo che ha ripudiato la
società, che è una minaccia per la convivenza sociale.
L'imputato è solo, inconfondibile, diverso agli occhi del pubblico da tutti gli altri uomini, isolato
dentro la sua gabbia e, anche quando la gabbia non c'è, isolato dentro la sua colpa.
Ma questo non è un processo penale: dov'è il reo, il delinquente, il criminale? Dov'è il delitto, in che
consiste il delitto, chi lo ha commesso?
Angosciose domande: alle quali forse neanche il P.M., nella sua misurata requisitoria che abbiamo
ammirato non tanto per quello che ha detto quanto per quello che ha lasciato intendere senza dirlo,
saprebbe in cuor suo dare una tranquillante risposta.
Non a caso qui il banco degli imputati e quello dei difensori sono così vicini, fino a parere un banco
solo. Dove sono gli imputati e dove i difensori? Qui, in realtà, o siamo tutti difensori o siamo tutti
imputati.
In questa aula, da qualunque parte ci volgiamo, nei vari seggi di essa, non ci sono altri che uomini
che si trovano qui, perché hanno voluto e vogliono prestare ossequio alla legge: osservarla, servirla.
La sigla è quasi si direbbe il vertice magico di questo processo è in quella formula laconica
intarsiata con caratteri antichi sulla cattedra ove siedono i giudici. Non è la solita frase che in altre
aule si legge scritta sul muro al disopra delle teste di giudici, quella frase che suscita tante speranze
ma anche tante perplessità: "La legge uguale per tutti". No: il motto di questa aula è molto più
laconico, misterioso e conciso come la risposta di un oracolo: "La legge".
Questo è l'imperativo categorico che ci tiene tutti qui incatenati dallo stesso dovere, appassionati
dalla stessa passione: "de legibus".
Il Tribunale che siede è per definizione l'organo che, amministrando giustizia, fa osservare la
legge.Il P.M., che siede al lato del collegio giudicante, è il rappresentante della legge.Noi avvocati
siamo qui, al nostro posto, per difendere la legge. Dietro a noi, a fianco degli imputati e sulle porte,
i commissari e gli agenti di polizia sono gli esecutori della legge.
E poi ci sono questi imputati: imputati di che? Mah... di nient'altro che di aver voluto anch'essi
servire la legge: di aver voluto soffrire la fame e lavorare gratuitamente allo scopo di ricordare agli
immemorì il dovere di servire la legge.
Ma allora vuol dire che siamo tutti qui per lo stesso scopo: quale è il punto del nostro dissidio, quale
è il tema del nostro dibattito? Perché noi avvocati stiamo a questo banco degli imputati dietro a noi
e i giudici nei loro seggi più alti? di che stiamo noi discutendo?
In verità io non riesco a riconoscere su queste facce di imputati, così tranquille e serene, le tristi
impronte della delinquenza; né riesco a scoprire nelle umane facce dei carabinieri che stanno
accanto a loro la fredda insensibilità dell'aguzzino. Io so che essi, quando mettono le manette a
questi imputati, si sentono in fondo al cuore umiliati e addolorati di questo crudo cerimoniale, che
pure hanno il dovere di compiere: quando la mattina gli imputati entrano in quest'aula incatenati,
come prescrive il regolamento di polizia, non sono essi che provano rammarico e vergogna per
quelle catene. Ho visto con i miei occhi che, nonostante quei polsi serrati nelle manette, le loro
facce rimangono serene e sorridenti; ma un'ombra di mestizia traspare sui volti di chi li
accompagna.
No no, il dissidio non è qui, in questa aula: il dissidio è più lontano e più alto. Sarebbe follia pensare
che Danilo abbia potuto indirizzare agli agenti che lo arrestarono, fatti della stessa carne di questi
che oggi lo accompagnano, l'epiteto di " assassini ". Danilo non parlava e non parla a loro. Gli
assassini ci sono, ma sono fuori di qui, sono altrove: si tratta di crudeltà più inveterate, di tirannie
secolari, più radicate e più potenti; e più irraggiungibili.
Di quello che è avvenuto, signori del Tribunale, non si deve dare colpa alla polizia, la quale è
soltanto una esecutrice di ordini che vengono dall'alto. In quanto a me, vi dirò anzi che ho sentito
dire che io dovrei essere debitore, verso qualcuno degli agenti che hanno deposto in questo
processo, di speciali ragioni di gratitudine. Dai resoconti dati dalla stampa su una delle prime
udienze, alla quale io non ho potuto partecipare, ho appreso che io dovrei ringraziare quel
funzionario di polizia che oggi è commissario a Partinico, il dottore Lo Corte, del trattamento di
favore che egli mi avrebbe usato a Firenze, nel periodo in cui egli apparteneva alla polizia della
Repubblica di Salò: pare che nella sua deposizione egli abbia detto che mi trattò con speciale
riguardo perché, quando venne al mio studio per arrestarmi, arrivò un quarto d'ora dopo che io ero
uscito e così lasciò ineseguito il suo mandato. In verità io non mi ricordo di lui: e non so se devo
essere grato a lui per essere arrivato un quarto d'ora dopo o a me stesso per essere uscito un quarto
d'ora prima. Ma in ogni modo sono anche disposto ad essergli riconoscente: non sono queste
vicende personali le cose che contano in questo processo.
Quello che conta è un'altra cosa: conoscere il perché umano e sociale di questo processo, collocarlo
nel nostro tempo; vederlo, come tu ben dicevi, o amico Sorgi, storicamente, in questo periodo di
vita sociale e in questo paese.
Io ho ammirato, lo ripeto, la misura con cui ha parlato il P.M.; ma su due delle premesse (oltreché,
ben s'intende, su tutte le sue conclusioni) non posso essere d'accordo: e cioè quando egli ha detto
che questa è " una comunissima vicenda giudiziaria ", e quando ha detto che per deciderla il
Tribunale dovrà tener conto della legge ma non delle "correnti di pensiero" che i testimoni hanno
portato in questa aula.
Dico, con tutto rispetto, che queste due affermazioni mi sembrano due grossi errori non soltanto
sociali, ma anche specificamente giuridici. Non sono d'accordo sulla prima premessa. Questo non è
un processo " comunissimo ": è un processo eccezionale, superlativamente straordinario, assurdo.
Questo non è neanche un processo: è un apologo.
Un processo in cui si vorrebbe condannare gente onesta per il delitto di avere osservato la legge,
anzi per il delitto di aver preannunciato e proclamato di volere osservare la legge: arrestati e rinviati
a giudizio sotto l'imputazione di volontaria osservanza della legge con l'aggravante della
premeditazione!
Per renderci conto con distaccata comprensione storica della eccezionalità e assurdità di questo
processo, bisogna cercare di immaginare come questa vicenda apparirà, di qui a 50 o a 100 anni,
agli occhi di uno studioso di storia giudiziaria al quale possa per avventura venire in mente di
ricercare nella polvere degli archivi gli incartamenti di questo processo, per riportare in luce
storicamente, liberandolo dalle formule giuridiche, il significato umano e sociale di questa vicenda.
Quali apparirebbero agli occhi dello storico gli atti più significativi di questo processo?
La sua attenzione si fermerebbe prima di tutto su quella ordinanza del giudice istruttore, con la
quale, per negare agli arrestati la libertà provvisoria, si è testualmente affermato la "spiccata
capacità a delinquere del detto imputato": il " detto imputato ", per chi non lo sapesse, sarebbe
Danilo Dolci.
Suppongo che il magistrato che scrisse questa frase non abbia immaginato, al momento in cui la
scrisse, il senso di sgomento che in centinaia di migliaia di italiani questa frase ha suscitato, quando
l'hanno letta riferita sui giornali: senso di sgomento per lui, non per Danilo Dolci.
Ma, insomma, questa frase è stata scritta; e tra cinquant'anni lo storico la potrà leggere e potrà dire a
se stesso:-Ecco, ho avuto la mano felice: ho trovato un caso interessante, il processo di un gran
delinquente, un caso tipico di "spiccata capacità a delinquere".
Ma che cosa ha fatto mai Danilo Dolci per dimostrare questa sua " spiccata capacità "?
La capacità a delinquere, per me avvocato civilista, ha due aspetti: uno giuridico e uno sociale.
Sotto l'aspetto giuridico mi pare che essa sia la tendenza e la attitudine a violare il diritto altrui;
sotto l'aspetto sociale mi pare sia la incapacità di intendere che la vita in società è fatta di solidarietà
e di altruismo: che senza solidarietà e senza altruismo non vi è civiltà. Il delinquente è
essenzialmente un infelice esiliato nel suo sfrenato egoismo, un solitario incapace di vivere in
società.
Dunque lo storico che si metterà a sfogliare questo processo, quando saranno da lungo tempo caduti
e dimenticati quegli articoli della legge di pubblica sicurezza e del codice penale di cui stiamo qui a
discutere da una settimana (quegli articoli che già assomigliano a quei gusci vuoti che rimangono
attaccati ai tronchi degli ulivi quando già ne è volato via l'insetto vivo), scorrerà attentamente gli
incartamenti per ricercare le prove di questa "spiccata capacità a delinquere " che l'ordinanza
istruttoria con tanta durezza preannuncia. E, senza perdersi in sottili acrobazie di dialettica
giuridica, si domanderà umanamente: che cosa avevano fatto di male questi imputati? In che modo
avevano offeso il diritto altrui; in che senso avevano offeso la solidarietà sociale e mancato al
dovere civico di altruismo?
Lo storico arriverà a trovare documentati nel seguito del processo due "misfatti".
Io mi limito a leggere qualche passo di un solo documento: di un documento che è ancora nelle mie
mani e che dà a questa mia difesa il carattere non solo di una testimonianza, ma anche, come ieri vi
dicevo, di una complicità.
Quando alla fine dello scorso gennaio Danilo Dolci, dopo essere stato a Torino per consultarsi con i
suoi amici sulle azioni che si proponeva di svolgere a Partinico, passò da Firenze nel viaggio di
ritorno, venne al mio studio per consigliarsi anche con me come legale ed esser sicuro che quello
che stava per fare entrasse perfettamente nei limiti delle leggi. Non mi trovò; e allora mi lasciò una
copia del foglietto che in questo momento vi sto leggendo, con questa nota scritta di suo pugno:
"Speravo di vederti e di avvisarti. Un saluto con affetto. Tuo Danilo". Quando tornai dopo due
giorni, e lessi il foglietto, il quale conteneva, come ora vi dirò, il programma di quello che stava per
succedere a Partinico, trovai che niente di quello che era preannunciato in tale programma poteva in
qualsiasi modo andar contro alle leggi o ai regolamenti di polizia: e per questo mi guardai bene
dall’avvertire Danilo Dolci, che intanto era ritornato a Partinico, di astenersi dal fare quello che si
proponeva. Se in quello che ha fatto c’è qualche cosa di contrario alla legge, sono dunque
responsabile anch’io di complicità e, e forse la mia responsabilità è più grave della sua, perché io
dovrei avere quella conoscenza tecnica delle leggi che Danilo non ha.
Dunque, vi dicevo, in questo documento che sto per leggervi c’è la prova di due misfatti.
Il primo misfatto è quello che si proponevano di compiere lunedì 30 gennaio i pescatori di
Trappeto.
Si legge testualmente in questa dichiarazione:
"abbiamo ripetutamente documentato alle Autorità direttamente responsabili e all'opinione
pubblica, per anni e anni, la pesca fuori legge della zona, gravissimo danno a tutti noi e
all’economia nazionale.
" E’ profondamente doloroso e offensivo constatare che lo Stato non sa far rispettare le sue leggi più
elementari, più giustificate: i mezzi di informazione e di pressione normali in uno Stato civile, qui
sono stati assolutamente inefficaci. Decisi a fare rispettare le leggi, promuoviamo un movimento
che non si fermerà fino a quando il buon senso e l'onestà non avranno trionfato. Inizieremo lunedì,
30 gennaio, digiunando per 24 ore."
Seguono circa 300 firme tra loro sono anche numerosi vecchi e ragazzi con piena coscienza
dell'azione.
Questo è dunque il primo misfatto. Le circostanze sono semplici e chiare. Una piccola popolazione
di poveri pescatori vive alla meglio con la pesca del suo mare. Per legge, il tratto di mare più vicino
alla costa è riservato alla pesca della popolazione rivierasca; i motopescherecci, devono tenersi al
largo. Ma qui i motopescherecci, per vecchio sistema, si beffano sfrontatamente della legge; da
tempo vengono a pescare nel mare vicino alla riva, predando il pesce che dovrebbe dar da vivere ai
piccoli pescatori. Così i pescatori locali non hanno più da pescare; questa sistematica rapina dei
motopescherecci appartenenti a grandi società organizzate e protette dalle autorità, condanna i
piccoli pescatori a morire di fame. Ricorrono alle autorità; ma le autorità non provvedono.
Protestano, ma le autorità non ascoltano. Il contrabbando continua: qualcuno pensa che le autorità
siano d'accordo coi contrabbandieri; e che ci sia qualcuno in alto che partecipa agli utili del
contrabbando.
Allora che cosa fanno i pescatori che da anni reclamano giustizia e non riescono ad averla da chi
dovrebbe darla: si ribellano? Si mettono a tumultuare? Rubano? Commettono violenze?
Niente di tutto questo. Arriva Danilo in mezzo a loro e dice: " Voi non avete da mangiare: non avete
di vostro altro che la fame. L'unica protesta che vi rimane è questa: la vostra fame. Siete abituati a
digiunare, andiamo tutti insieme a digiunare sulla spiaggia del mare. Stiamo a guardare, digiunando,
i contrabbandieri protetti dalle autorità, che continuano a far rapina del pesce che la legge vorrebbe
riservato a voi. Consoliamoci insieme col nostro digiuno; mettiamo in comune questo nostro unico
bene, la fame. E per essere più sereni, porteremo sulla spiaggia qualche disco e ascolteremo la
musica di Bach". (Qualcuno ha sorriso su questo particolare della musica: non ha ricordato che
anche nella prima guerra mondiale questo era il motto dei fanti inchiodati nelle trincee: "canta che ti
passa".)
Allora vengono fuori i commissari di polizia, gli agenti dell'ordine. Voi pensereste che intervengono
finalmente per rimettere nella legalità i moto pescherecci contrabbandieri e per far cessare la loro
rapina. No gli agenti dell'ordine intervengono per pigliarlsela con Danilo: per diffidare Danilo e i
pescatori dal mettere in atto il loro proposito.
- non è permesso digiunare: vi vietiamo formalmente di digiunare.
-Ma come possiamo non diginare se non abbiamo più pesce da pescare?
-Non importa: digiunate a casa vostra, in privato, in segreto.
E’ un delitto digiunare in pubblico. Digiunare in pubblico vuol dire disturbare l'ordine pubblico.-
l'ordine pubblico di chi? L'ordine pubblico di chi ha da mangiare. Non bisogna disturbare con
spettacoli di miseria e di fame la mensa imbandita di chi mangia bene; non bisogna che la gente ben
nutrita, che va sulla spiaggia a passeggiare per meglio digerire il suo pranzo, sia disturbata dalla
modesta vista dei pallidi affamati.
Questo è il primo misfatto: ora viene il secondo. Si legge sul solito documento.
"I cittadini di Partinico, donne comprese, proseguiranno l'azione giovedì 2 febbraio come è detto
nella loro dichiarazione:
"Milioni di uomini nelle nostre zone stanno sei mesi all'anno con le mani in mano. Stare sei mesi
all'anno con le mani in mano è gravissimo reato contro la nostra famiglia contro la società.
"Solo qui in Partinico su 25000 abitanti siamo in più di 7000 con le mani in mano per sei mesi
all’anno e 7000 bambini e giovanetti non sono in grado di apprendere quanto assolutamente
dovrebbero. Non vogliamo essere dei lazzaroni, non vogliamo arrangiarci da banditi: vogliamo
collaborare esattamente alla vita, vogliamo il bene di tutti: e nessuno ci dica che questo è un reato.
"E’ nostro dovere di padri e di cittadini collaborare generosamente perché cambi il volto della terra,
bandendo gli assassini di ogni genere. Chiediamo alle autorità, di collaborare con noi, indicando
quali opere dobbiamo fare e come: altrimenti, assistiti dai tecnici, cominceremo dalle più urgenti.
" Perché sia più limpido a tutti il nostro muoverci, digiuneremo lunedì 30 gennaio; giovedì 2
febbraio cominceremo il lavoro. Frangeremo il pane con le mani.
"Vogliamo essere padri e madri anche noi e cittadini."
Seguono circa 700 firme.
Anche le circostanze di questo secondo misfatto sono chiare.
Ci sono a Partinico, oltre pescatori, altre migliaia di disoccupati. La Costituzione dice che il lavoro
è un diritto e un dovere. Allora, che cosa fanno questi settemila disoccupati: invadono le terre dei
ricchi, saccheggiano i negozi alimentari, assaltano i palazzi, si danno alla macchia, diventano
banditi?
No. Decidono di lavorare: di lavorare gratuitamente; di lavorare nell'interesse pubblico.
Nelle vicinanze del paese si trova, abbandonata, una trazzera destinata al passo pubblico; nessuno ci
passa più, perché il comune non provvede, come dovrebbe, alla sua manutenzione; è resa
impraticabile dalle buche e dal fango. Allora i disoccupati dicono: "Ci metteremo a riparare
gratuitamente la trazzera , la nostra trazzera. Ci redimeremo, lavorando da questo avvilimento
quotidiano, da questa quotidiana istigazione al delitto che è l'ozio forzato. In grazia del nostro
lavoro la strada tornerà ad essere praticabile. I cittadini ci passeranno meglio. Il sindaco ci
ringrazierà". Che cosa è questo? E’ la stessa cosa che avviene quando, dopo una grande nevicata, se
il Comune non provvede a far spalare la neve sulle vie pubbliche, i cittadini volenterosi si
organizzano in squadre per fare essi, di loro iniziativa, ciò che la pubblica autorità dovrebbe fare e
non fa; e la stessa cosa che avviene, e spesso è avvenuta, quando, a causa di uno sciopero degli
spazzini pubblici, i cittadini volenterosi si sono messi a rimuovere dalle strade cittadine le
immondizie e in questo modo si sono resi benemeriti della salute di tutti.
Giustamente uno dei difensori che mi hanno preceduto, il collega Taormina, ha detto che questo è
un caso di "negotiorum gestio": un caso, si potrebbe dire, di esercizio privato di pubbliche funzioni
volontariamente assunte dai cittadini a servizio della comunità e in ossequio al senso di solidarietà
civica.
Allora, per impedire anche questo secondo misfatto, arrivano i soliti commissari Lo Corte e Di
Giorgi, e questa volta non si limitano alle diffida e questa volta non si limitano alle diffide. Questa
volta fanno di più e di meglio: aggrediscono questi uomini mentre pacificamente lavorano a piccoli
gruppi dispersi sulla trazzera, strappano dalle loro mani gli strumenti del lavoro, lì incatenano e li
trascinano nel fango, tirandoli per le catene come carne insaccata, come bestie da macello.
Bene.
Rimane dunque inteso che digiunare in pubblico è una manifestazione sediziosa; che lavorare
gratuitamente per pubblica utilità, per rendere più strada una pubblica strada, è una manifestazione
sediziosa.
E a questo punto interviene il giudice istruttore a dare il suo giudizio: "spiccata capacità a
delinquere".
E poi riprende la parola il P.M.: "otto mesi di reclusione a Danilo Dolci e ai suoi complici".
Bene.
Ma come può essere avvenuto questo capovolgimento, non dico del senso giuridico, ma del senso
morale e perfino del senso comune?
Guardiamo di rendercene conto con serenità.
Al centro di questa vicenda giudiziaria c'è, come la scena madre di un dramma, un dialogo tra due
personaggi, ognuno dei quali ha assunto senza accorgersene un valore simbolico.
E’, tradotto in cruda rossa di cronaca giudiziaria, il dialogo eterno tra Creonte e Antigone, tra
Creonte che difende la cieca legalità e Antigone che obbedisce soltanto alla legge morale della
coscienza, alle "leggi non scritte" che preannunciano l'avvenire.
Nella traduzione di oggi, Danilo dice: "per noi la vera legge e la Costituzione democratica"; il
commissario Di Giorgi risponde: "per noi l'unica legge è il test unico di pubblica sicurezza del
tempo fascista".
Anche qui il contrasto è come quello tra Antigone e Creonte: tra la umana giustizia e i regolamenti
di polizia; con questo solo di diverso, che qui Danilo non invoca leggi "non scritte". (Perché, per chi
non lo sapesse ancora, la nostra Costituzione è già stata scritta da dieci anni.)
Chi dei due interlocutori ha ragione?
Forse, a guardare alla lettera, hanno ragione tutt’e due.
Ma a chi spetta, non dico il peso e la responsabilità, ma dico il vanto di decidere, sotto questo
contrasto letterale, da che parte è la verità: a chi spetta sciogliere queste antinomie?
Siete voi, o Giudici, che avete questa gloria: voi che nella vostra coscienza, come in un alambicco
chimico, dovete fare la sintesi di questi opposti.
E qui affiora il secondo sul quale io mi trovo in dissidio con le premesse affermate dal P.M.:,
quando egli ha detto che i giudici non devono tener conto delle "correnti di pensiero", che i
testimoni accorsi da tutta Italia hanno fatto passare in questa aula.
Ma che cosa sono le leggi , illustre rappresentante del P.M. se non esse stesse "correnti di
pensiero"? Se non fossero questo, non sarebbero che carta morta: se lo lascio andare, questo libro
dei codici che ho in mano, cade sul banco come un peso inerte.
E invece le leggi sono vive perché dentro queste formule bisogna far circolare il pensiero del nostro
tempo, lasciarvi entrare l'aria che respiriamo, mettervi dentro i nostri propositi, le nostre speranze, il
nostro sangue e il nostro pianto.
Altrimenti le leggi non restano che formule vuote, pregevoli giochi da legulei; affinché diventino
sante, vanno riempite con la nostra volontà.
Voi non potete ignorare, signori Giudici, poiché anche voi vivete la vita di tutti i cittadini italiani, il
carattere eccezionale e conturbante del nostro tempo: che è un tempo di trasformazione sociale e di
grandi promesse, che prima o poi dovranno essere adempiute: felici i giovani che hanno davanti a se
il tempo per vederle compiute!
Questo è uno di quei periodi, che ogni tanto si presentano nella vita dei popoli, in cui la gloria di
poter costruire pacificamente l'avvenire, il vanto di poter guidare entro la legalità questa
trasformazione sociale che è in atto e che non si ferma più, spetta soprattutto ai giudici. Nella storia
millenaria del nostro paese più volte si sono presentati questi periodi di trapasso da un ordinamento
sociale ad un altro, durante i quali l'altissimo compito di adeguare il diritto alle esigenze della nuova
società in formazione è stato assunto dalla giurisprudenza: basta pensare ai responsa dei prudentes,
che hanno gradualmente fatto vivere nella rigidezza del diritto quiritario lo spirito cristiano
trionfante nella legislazione giustinianea, o alle opiniones doctorum, che attraverso la decisione di
singoli casi giudiziari hanno introdotto negli schemi del diritto feudale lo spirito umanistico del
diritto comune.
Anche oggi l'Italia vive uno di questi periodi di trapasso, nei quali la funzione dei giudici, meglio
che quella di difendere una legalità decrepita, è quella di creare gradualmente la nuova legalità
promessa dalla Costituzione.
La nostra Costituzione è piena di queste grandi parole preannunziatrici del futuro: "pari dignità
sociale"; "rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana";
"Repubblica fondata sul lavoro"; "Diritto al lavoro"; "condizioni che rendano effettivo questo
diritto; assicurata ad ogni lavoratore e alla sua famiglia "un'esistenza libera e dignitosa"...
Grandi promesse che penetrano nei cuori e li allargano, e che una volta intese non si possono più
ritirare. Come potete voi pensare che i derelitti che hanno avuto queste promesse, e che vi hanno
creduto e che chi si sono attaccati come naufraghi alla tavola di salvezza, possono ora essere
condannati come delinquenti solo perché chiedono, civilmente senza far male nessuno, che queste
promesse siano adempiute come la legge comanda?
Signori Giudici, che cosa vuol dire libertà, che cosa vuol dire democrazia? Vuol dire prima di tutto
fiducia del popolo nelle sue leggi: che il popolo senta le leggi dello Stato come le sue leggi, come
scaturite dalla sua coscienza, non come imposte dall'alto. Affinché la legalità discenda dai codici
nel costume, bisogna che le leggi vengano dal di dentro non dal di fuori: le leggi che il popolo
rispetta, perché esso stesso le ha volute così.
Ricordate le parole immortali di Socrate nel carcere di Atene? Parla delle leggi come di persone
vive, come di persone di conoscenza. "le nostre leggi, sono le nostre leggi che parlano". Perché le
leggi della città possano parlare alle nostre coscienze, bisogna che siano come quelle di Socrate, le "
nostre " leggi.
Nelle più perfette democrazie europee, in Inghilterra, in Svizzera, in Scandinavia, il popolo rispetta
le leggi perché ne è partecipe e fiero; ogni cittadino le osserva perché sa che tutti le osservano: non
c'è una doppia interpretazione della legge, una per i ricchi e una per i poveri!
Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull'Italia: il popolo non ha fiducia nelle
leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato con un nemico.
Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che
domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia.
Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo.
Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della
legalità e della giustizia un'idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per
schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per
soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami.
Nella prefazione che Norberto Bobbio ha dettato per il libro di Danilo Dolci Banditi a Partinico, è
riportato come tipico un episodio."Ho fatto più di quattro domande per avere la pensione -dice il
padre.-Niente. Mi mandano a chiamare i carabinieri:-ci vuole questo documento.-Subito facciamo
questo documento, subito. Poi mi mandano a chiamare in Municipio e mi dicono che ci voleva stato
di famiglia, atto matrimoniale, fede di nascita, fede di morte di mio figlio, tutto. Ci ho fatto tutto. Ci
ho mandato in Municipio stesso, da lì a Roma. Niente. Dal 1942. E 12 anni "ca ci cumbattu cu sta
pensioni". E la moglie: "Have a cridere che a mia mi ritiraru lu librettu e mi disseru:-Ora se nè pò
ire che vossìa have la pensioni".
Questa è la maledizione di Partinico, ma questa è sempre stata anche la maledizione di Italia. In
ogni regione d'Italia più o meno è così: le leggi per gli umili non contano. Per avere giustizia dagli
uffici amministrativi occorre farsi raccomandare da qualche personaggio importante o strepitare.
Ma forse neanche screditare conta; perché se strepita il povero, viene il commissario Di Giorgi che
lo porta in prigione.
E allora ecco Danilo:
-Basta con questa maledizione, basta con questa sfiducia; ma basta anche con la violenza. Voi
dovete credere nelle leggi; voi dovete credere nella giustizia di chi governa. La legge è come una
religione (una religione di cui questa aula giudiziaria è un tempio). Perché la legge faccia i suoi
miracoli, bisogna crederci.-
È un ingenuo? È un illuso?
Danilo è stato paragonato a Renzo dei promessi sposi, nella famosa scena dell'osteria.
Ricordate? "pane, abbondanza, giustizia."Lo sente dire da Ferrer, che era una specie di prefetto di
quei tempi. Renzo ci crede: anche lui si mette a ripetere "pane, abbondanza, giustizia". E va a finire
nelle mani dei birri.
Anche Danilo è andato a finire in prigione. E dunque anche lui soltanto ingenuo? Soltanto
un’illuso? No: Danilo è qualche cosa di più. Non dimentichiamo come è cominciata la vicenda di
Danilo. Il caso determinante della sua vita è stato l'incontro con un bambino morto di fame. Quando
nell'estate del 1952 Danilo ebbe visto morire di fame il figlioletto di Mimma e Giustina Barretta,
allora egli si accorse di trovarsi "in un mondo di condannati morte"; e gli apparve chiara l'idea che
questo mondo non si redime con la violenza, ma col sacrificio. Fu allora che disse: " su questo
stesso letto dove questa creatura innocente è morta di fame, io, che potrei non essere povero, mi
lascerò morire di fame come lui, per portare una testimonianza, per dare con la mia morte un
esempio, se le autorità non si decideranno a provvedere ". E dopo una settimana di digiuno, che già
aveva ridotto Danilo in fin di vita, le autorità finalmente intervennero, non per pietà, ma per
liberarsi dalla responsabilità di lasciarlo morire; essi decisero di offrire subito le prime somme
occorrenti per pagare i debiti dei pescatori e dei braccianti del luogo e, e per iniziare i lavori di
sistemazione delle strade e delle acque. Poi nuovamente si fermarono: ma soltanto così Danilo era
riuscito a svegliare il torpore burocratico dei padroni. Ma ecco che qui entra ancora in scena il
commissario Di Giorgi, che in questo dramma rappresenta la quotidiana certezza del conformismo,
la voce scettica dei benpensanti:
-Danilo Danilo, sono utopie, sono illusioni! ("fanatismo mistico" ha detto ieri il P.M.).
Par che dica, il commissario Di Giorgi: -Danilo, ma chi te lo fa fare? Sei giovane, sei istruito, sei un
architetto, uno scrittore. Non sei di queste terre desolate. Torna ai tuoi paesi. Lascia i poveri di
Partinico in compagnia della loro miseria e della loro fame... Danilo, chi te lo fa fare?-
La voce del buonsenso, la voce dei benpensanti; ma Danilo non è un benpensante, non segue la
rassegnata è soddisfatta voce del buonsenso.
Danilo mi fa venire in mente la storia di fra Michele Minorita. È un'antica cronaca fiorentina,
rievoca anche la figura di un monaco, appartenente all'ordine dei "fraticelli della povera vita", che
praticavano la povertà assoluta che predicavano che nel Vangelo Cristo e gli apostoli non avevano
mai riconosciuto la proprietà privata. Il Papa Giovanni XXII condannò questa affermazione come
eresia: e fra Michele per averla predicata fu condannato, nel 1389, al rogo.
La cronaca racconta la prigionia e il processo e descrive il corteo che accompagnò dalla prigione al
supplizio il condannato e le sue soste lungo la strada, come se fossero le stazioni della Via Crucis.
Dal carcere del Bargello per arrivare al rogo egli passa, scalzo e vestito di pochi cenci, in mezzo
agli armigeri, per le vie di Firenze. Due ali di popolo lo stanno a vedere: e gli lanciano al passaggio
frasi di incitamento e di scherno, invocazioni esaltate o beffardi consigli. I più lo consigliano
all'abiura: "sciocco, pentiti, pèntiti, non voler morire, campa la vita!". Ed egli risponde, mentre
passa, senza voltarsi: "pentitevi voi de’ peccati, pentitevi delle usure, delle false mercantzie". (Forse
tra quel pubblico che lo incitava a pentirsi e a non voler morire c'era anche, pieno di buone
intenzioni, il commissario Di Giorgi: "Illusioni, utopie, chi te lo fa fare?".)
A un certo punto, quando ormai è vicino al rogo, poiché ancora uno dei presenti torna a gridargli:
"Ma perché ti ostini a voler morire?", egli risponde: "Io voglio morire per la verità: questa è una
verità, ch’io ho albergata in me, della quale non se ne può dare testimonio se non morti". E con
queste parole sale sul rogo; ma proprio mentre stanno per dar fuoco, ecco che arriva un messo dei
Priori a fare un ultimo tentativo, per persuaderlo a smentirsi e così salvargli la vita. Ma egli dice di
no. E uno degli armigeri, di fronte a questa fermezza, domanda: "ma dunque costui ha il diavolo
addosso?"; al che l'altro armigero, nel dar fuoco, risponde (e par di sentire la sua voce strozzato dal
pianto): "Forse ci ha Cristo".
Per questo, signori Giudici, voi avete visto le "correnti di pensiero", che in questo momento sono
vicine a Danilo, sfilare in quest’aula a testimoniare. Esse non sono arrivate qui per esercitare su di
voi pressioni o intromissioni sulla vostra coscienza intemerata e fiera: sono venute soltanto per
testimoniare la loro solidarietà a Danilo. Ma questa solidarietà della cultura italiana per Danilo
Dolci è un fatto, che voi non potete ignorare; siete anche voi uomini del nostro tempo, e anche voi
sentite il dovere di valutarle, di spiegarle storicamente.
Come si può spiegare questa solidarietà? Certamente voi avete avvertito nelle parole di questi
testimoni non soltanto un senso di solidarietà e quasi di complicità con Danilo, ma altresì un senso
più profondo, quasi direi di umiliazione e di contrizione di questa cultura: per aver tardato tanto ad
accorgersi di questi dolori; per aver atteso, prima di accorgersi, che fosse Danilo a dare l'esempio.
Il carattere singolare ed esemplare di Danilo Dolci e proprio qui: di questo uomo di cultura, che per
manifestare la sua solidarietà ai poveri non si è accontentato della parola parlata o scritta, dei
comizi, degli ordini del giorno e dei messaggi; ma ha voluto vivere la loro vita, soffrire la loro
fame, dividere il loro giaciglio, scende nella loro forzata abiezione per aiutarli a ritrovare e a
reclamare la loro dignità e la loro redenzione.
Questa è la singolarità di Danilo: qualcuno potrebbe dire l'eroismo; qualcun altro potrebbe anche
essere tentato di dire la santità.
Qui e fuori di qui siamo in molti a pensare e a ripetere che la cultura, se vuol essere viva e operosa,
qualcosa di meglio dell'inutile e arida erudizione, non deve appartarsi dalle vicende sociali, non
deve rinchiudersi nella torre d'avorio senza curarsi delle sofferenze di chi batte alla porta di strada.
Tutto questo lo diciamo e lo scriviamo da decenni; ma tuttavia siamo incapaci di ritrovare il
contatto fraterno con la povera gente. Siamo pronti a dire parole giuste; ma non sappiamo rinunciare
al nostro pranzo, al nostro comodo letto, alla nostra biblioteca appartata e tranquilla. Tra noi e la
gente più umile resta, per quanto ci sforziamo, come uno schermo invisibile, che ci rende difficile la
comunicazione immediata. Il popolo ci sente come di un altro ceto: sospetta che questa fraternità di
parole sia soltanto oratoria.
Per Danilo no. L'eroismo di Danilo è questo: dove più la miseria soffoca la dignità umana, egli ha
voluto mescolarsi con loro e confortarli non con i messaggi ma con la sua presenza; diventare uno
di loro, dividere con loro il suo pane e il suo mantello, e chiedere in cambio ai suoi compagni una
delle loro pale e un po' di fame.
Questo intellettuale triestino, che se avesse voluto avrebbe potuto costruirsi in breve, coi guadagni
del suo lavoro di artista, una vita brillante e comoda in qualche grande città e una casa piena di
quadri e di libri, è andato a esiliarsi a Partinico, nel povero paese rimasto impresso nei suoi ricordi
di bambino, e si è fatto pescatore affamato e spalatore della trazzera per far intendere a questi
diseredati, con la eloquenza dei fatti, che la cultura è accanto a loro, che la sorte della nostra cultura
è la loro sorte, che siamo, scrittori e pescatori e sterratori, tutti cittadini dello stesso popolo, tutti
uomini della stessa carne. Egli ha fatto quello che nessuno di noi aveva saputo fare. Per questo sono
venuti qui da tutta Italia gli uomini di cultura a ringraziarlo: a ringraziarlo di questo esempio, di
questo riscatto operato da lui, agnus qui tollit peccata di una cultura fino a ieri immemore dei suoi
doveri.
Certo, Danilo Dolci non è un personaggio comodo per i commissari di pubblica sicurezza. Io mi
immagino i loro discorsi: "In fondo, un brav'uomo. Ma uno scervellato, un seccatore, un
piantagrane".
Mi viene in mente una lettera scritta pochi giorni fa dal mio amico Jemolo a una altissima autorità.
Dopo avere attestato l'altezza morale di Danilo, egli continuava: "Certo sarà noioso per le autorità
costituite; ma pensa quanto lo saranno stati a loro tempo San Francesco o San Bernardino da Siena".
Si, i santi sono noiosi: e in generale, anche senza disturbare santi, è certo che in questa società
compressa da una crosta di accomodante scetticismo sono noiosi in generale gli uomini onesti, gli
uomini che prendono le cose sul serio. Per chi sta bene e ha la vita facile, sono insopportabili questi
importuni che ricordano col loro esempio, fastidioso come un rimprovero vivente, che nel mondo
esiste la onestà e la dignità.
Imparai da ragazzo su qualche antologia un episodio della vita di un santo; in questi giorni mi è
tornato in mente. Vi confesso che a Firenze, prima di partire per venir qui, invece di consultare i
codici per prepararmi a questa discussione, mi sono messo a ricercare nelle vite dei santi il testo
preciso di questo episodio: mi pareva di ricordarmi che fosse nella vita di San Filippo Neri ma non
l'ho trovato. Forse è nella vita di Don Bosco.
Certo, o l'uno o l'altro, si trattava di un santo: ma finché fu vivo era considerato come un terribile
spettatore dei ricchi, alle cui porte andava a battere ogni giorno per chiedere carità per i poveri. A
tutti i momenti se lo ritrovavano dinanzi: lì perseguitava con le sue preghiere, fino a che anche i più
avari, pur di levarselo di torno, gli davano quello che chiedeva: e lui correva a portare pane agli
affamati.
Un giorno andò a bussare alla porta di un signore ricchissimo, ma particolarmente iracondo e
prepotente: e tanto insistè, nonostante i ripetuti dinieghi, che questo alla fine, gonfio d’ira, lo investì
di ingiurie e lo prese a schiaffi. Il santo stette impassibile a ricevere le percosse senza muoversi,
come se fosse il pagamento di una cosa dovuta: senza neanche ripararsi il viso con le mani (forse lo
fece per non essere imputato, dal P.M. di quei tempi, di "resistenza"). E alla fine, quando quel
prepotente si fu sfogato, riprese candidamente: "sta bene, questi sono per me: il conto torna. Ma ora
bisogna riprendere il nostro discorso: bisogna che tu mi dia i denari per i poveri...".
Io mi auguro che il P.M. ritrovi per conto suo il testo originale dove questo episodio è raccontato
per esteso. Siamo d'accordo: anche Danilo è un seccatore: per questo gli hanno messo i ferri; per
questo lo hanno arrestato; per questo lo hanno trascinato nel fango; per questo lo vorrebbero tenere
per altri otto mesi in prigione.
E sia pure. E poi? E i disoccupati di Partinico? E la fame di Partinico? I bambini che muoiono di
fame a Partinico? Che darete ad essi? Che parola di speranza di conforto uscirà per essi dalla vostra
sentenza?
No, questa non è, onorevole signor P.M., una "comunissima vicenda giudiziaria". Questo non è il
processo di Danilo Dolci. Su quella panca degli imputati non c'è lui; altre colpe, altre incurie, altre
crudeltà, altri delitti siedono su quella panca: tutti li conosciamo anche voi li conoscete.
Questa non è la causa di Danilo; e neanche di Partinico; e neanche della Sicilia. E’ la causa del
nostro Paese: del nostro Paese da redimere e da bonificare.
Si parla tra i giuristi di "bonifica costituzionale"; siate voi, magistrati, gli antesignani di questa
bonifica. Nella Maremma della mia Toscana, nelle terre incoltivate che si distribuiscono ai
contadini, per poter arrivare a seminare bisogna prima spezzare la crosta di tufo pietroso che vi è
depositata da due millenni di alluvioni; per spezzarla occorrono i trattori: e solo così, sotto quella
crosta, si trova la terra fertile e fresca, e in essa, ancora intatte le tombe dei nostri padri etruschi.
Bisogna in tutta Italia spezzare nello stesso modo questa crosta di tradizionale feudalesimo e di
inerte conformismo burocratico che soffoca la nostra società: e ritrovare sotto la crosta spezzata il
popolo vivo, il popolo sano, il popolo fertile, il popolo vero del nostro Paese: e le tradizioni di
saggia ed umana equità che esso ha conservato dai lontani millenni.
Vorrei, signori Giudici, che voi sentiste con quale ansia migliaia di persone in tutta Italia attendono
che voi decidiate con giustizia, che vuol dire anche con indipendenza e con coraggio questa causa
eccezionale: e che la vostra sia una sentenza che apra il cuore della speranza, non una sentenza che
ribadisca la disperazione.
Colleghi e amici siciliani, noi siamo venuti in Sicilia, e vi ringraziamo di averci consentito di essere
qui al vostro fianco, per dirvi che tutto quello che vi addolora, tutto quello che vi offende, addolora
e offende anche noi. Questa vostra angoscia è anche la nostra angoscia: anche noi ci sentiamo
bruciare dal vostro sdegno. Vogliamo anche noi prendere sulle nostre spalle, con l'aiuto della
Costituzione, il destino del nostro Paese.
Qualche giorno fa, sfogliando un giornale straniero, vi ho letto una notizia dall'Italia che mi ha fatto
arrossire. C'era scritto, a proposito di questo processo di Danilo, questo titolo: "In Italia a chi chiede
rispetto della Costituzione si nega la libertà provvisoria". Non è vero, non è vero! Signori Giudici,
diteci che non è vero! Permetteteci di dire agli stranieri che non è vero!
Voi dovete aiutarci, signori Giudici a difendere questa Costituzione che è costata tanto sangue e
tanto dolore voi dovete aiutarci a difenderla, e a far sì che si traduca in realtà.
Vedete, in quest’aula, in questo momento, non ci sono più giudici e avvocati, imputati e agenti di
polizia: ci sono soltanto italiani: uomini di questo Paese che finalmente è riuscito ad avere una
Costituzione che promette libertà e giustizia.
Aiutateci, signori Giudici, colla vostra sentenza, aiutate i morti che si sono sacrificati e aiutate i
vivi, a difendere questa Costituzione che vuol dare a tutti i cittadini del nostro Paese pari giustizia è
pari dignità!
PIERO CALAMANDREI