Nelle scorse ore è apparsa a mezzo stampa un’ampia quantità di analisi sul fatto che Ursula von der Leyen avrebbe, nella giornata dell’8 gennaio, blindato di fatto Giuseppe Conte e il suo governo affermando che è “in corso un negoziato molto positivo con l’Italia sul Recovery fund”. Parole che lascerebbero intendere che la presidente della Commissione europea sia intenzionata a lanciare un salvagente al presidente del Consiglio e alla maggioranza M5S-Pd consolidatasi nel 2019 poco dopo la sua nomina ai vertici politici di Bruxelles nella fase più dura della negoziazione e del muro contro muro con Italia Viva e Matteo Renzi.
Ma leggendo tra le righe ci accorgiamo che, parafrasando Giulio Andreotti, forse la situazione è un po’ più complessa. Interrogata in conferenza stampa sulle possibili ripercussioni di una crisi di governo in un Paese membro come l’Italia sull’erogazione dei fondi per la ripresa l’ex ministro della Difesa di Angela Merkel ha dichiarato: “Stiamo negoziando con gli Stati membri indipendentemente dalle diverse situazioni politiche”, aggiungendo che “abbiamo condizioni chiare secondo le quali il fondo di rilancio è accessibile, vale a dire: investimenti e riforme, il green deal e la transizione digitale. Questo è quello che conta per noi”. Queste parole hanno tutto fuorché l’aria di un endorsement esplicito a “Giuseppi”, che pure nelle settimane scorse aveva più volte irritato i poteri comunitari per i ritardi e le lungaggini presentate dal processo di elaborazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che deve recepire i nuovi progetti europei.
Conte deve ringraziare il ministro degli Affari Europei Enzo Amendola (Pd) per aver accelerato un processo di elaborazione del piano nazionale per il Recovery Fund che andava impantanandosi sulla scia dei veti incrociati tra componenti della maggioranza sempre più litigiose tra di loro. Amendola ha avvertito da subito dei rischi: le lungaggini potevano costare caro all’Italia. Di recente in un’intervista a Il Messaggero ha invitato i colleghi di governo a una “sana dose di realismo”. Quanto a Conte, Federico Fubini sul Corriere della Sera faceva notare di recente che il mandato ufficiale di occuparsi del Recovery Fund è stato dato al ministro dell’Economia Roberto Gualtieri solo il 30 dicembre scorso.
Ursula von der Leyen e il suo “esecutivo” comunitario di cui fa parte anche Paolo Gentiloni sono interessati esclusivamente ad evitare un flop totale dei giallorossi che faccia pagare al Recovery Fund un danno di immagine e di prestigio irrecuperabile. E a tal proposito più volte hanno mandato moniti espliciti a un premier che appare, giorno dopo giorno, sempre meno indispensabile ai suoi tradizionali patroni. Dietro le dichiarazioni della von der Leyen e dietro quell’emblematico “indipendentemente dalle diverse situazioni politiche” non si fatica a intravedere la longa manus di Angela Merkel. La Germania ha bisogno di un successo strategico sul Recovery Fund per consolidare il nuovo equilibrio messo in campo con le mediazioni politiche aperte in primavera per superare i tradizionali equilibri austeritari a lungo sostenuti, nel momento in cui una loro rottura è funzionale alla ripresa economica di Berlino.
Conte ha già, da tempo, visto evaporare la sponda statunitense, dato che come ha avuto modo di rivelare L’Espresso, i maggiori riferimenti degli States nel governo sono ora Lorenzo Guerini e il citato Amendola, l’era di Biden porterà con sé un graduale processo di marginalizzazione di chi ha fatto motivo di vanto dell’amicizia di Donald Trump e gli autogol del premier sui servizi, unitamente alla sua brama di potere nel campo, ne stanno compromettendo la credibilità agli occhi degli apparati più profondi della burocrazia e dello Stato. Anche dal Vaticano la tradizionale sintonia con il premier sembra venuta meno dopo mesi di incomprensioni e di difficile dialogo, mentre la perdita del cappello europeo certificherebbe il definitivo ridimensionamento di Conte.
Conte non è indispensabile come lo era fino a poche settimane fa e come lo era stato nel pieno della pandemia, e su questo i renziani che ne contestano le mosse più spregiudicate non hanno certamente torto. Leggere ogni dichiarazione, anche la più formale e tradizionale, come un sostegno esplicito è tipico di chi cerca appigli politici per sopravvivere alle fasi di crisi; ma il portato delle parole della von der Leyen è più profondo dell’apparenza, ci racconta il fatto che l’Europa è preparata a poter, in futuro, fare a meno di “Giuseppi” e che conta più il fatto che il Parlamento metta in sicurezza i progetti del governo deputato a gestirli. Il contrario non si può dire: Conte ha portato alla nascita il governo giallorosso facendo dell’europeismo ortodosso un suo (nuovo) valore, e venire sfiduciato proprio sul medesimo terreno significherebbe per lui una grave perdita di credibilità.
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