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13/01/21

Totalitarismo: Secondo la Treccani

 

Totalitarismo

di Simona Forti - Enciclopedia delle scienze sociali (1998)
Totalitarismo

sommario: 1. La vicenda di un termine e di un concetto: a) origine di un neologismo; b) sovrapposizioni lessicali e semantiche: Stato totale, Stato autoritario e totalitarismo; c) tentativi di distinzione. 2. La costruzione di una categoria: a) il dibattito degli anni trenta; b) il dibattito degli anni quaranta; c) le prospettive aperte da Hannah Arendt. 3. Alla ricerca di una tipologia: le analisi della scienza politica. 4. Ideologia al potere e ideocrazia. 5. Dall'ideologia al post-totalitarismo. Bibliografia.

1. La vicenda di un termine e di un concetto

Con l'emergere, nel XX secolo, dei regimi comunista, fascista e nazista il lessico delle scienze storico-sociali si arricchisce di un termine nuovo: quello di 'totalitarismo'. L'assetto politico che alcuni paesi europei assumono nel periodo compreso tra i due conflitti mondiali come risposta estrema alla crisi delle liberal-democrazie trova una sua sedimentazione teorica nel concetto di totalitarismo. Nessuna nozione politica è stata così controversa. Da una parte essa ha suscitato entusiasmo, in quanto unica categoria adeguata a cogliere una realtà storica assolutamente inedita e a conferire un significato unitario al lato più oscuro del Novecento; dall'altra ha sollevato sdegno scientifico perché ritenuta un mero strumento di delegittimazione del comunismo. È quest'ultima obiezione che regolarmente ritorna a colpire il concetto di totalitarismo: esso non sarebbe il prodotto di una rigorosa elaborazione teorica, ma soltanto un'etichetta squalificante volta a sussumere sotto un unico genere esperienze politiche dai contenuti assolutamente incomparabili; non servirebbe, dunque, alla comprensione storica e politica, ma soltanto alla propaganda ideologica. Non a caso, secondo i suoi detrattori - non soltanto pensatori marxisti - il contesto d'origine del concetto sarebbe la scienza politica americana degli anni cinquanta, disposta a sacrificare la perizia intellettuale per servire la causa della 'guerra fredda' (v. Spiro, 1968; v. Barber e altri, 1969).
Alcune di queste critiche sono fondate, in quanto mettono in luce i limiti di certe tipologie politologiche, ingenuamente orientate verso un'acritica apologia delle democrazie liberali e convinte di aver elaborato un neutro criterio tassonomico per aggiornare la lista dei regimi politici. È tuttavia necessario ricordare che il termine e il concetto affondano le loro radici in un periodo assai precedente l'epoca della contrapposizione Est-Ovest, e che alla loro genealogia non collaborano soltanto autori 'liberal-democratici'. La nozione di totalitarismo nasce sì, come si avrà modo di osservare, dalla militanza politica, ma non dalla lotta dell'Occidente contro 'l'Impero del Male'; assume certamente una valenza normativa, ma seguendo percorsi diversi, per nulla riducibili alla sola celebrazione dei valori liberal-democratici. Ancora oggi, tanto l'indagine storica e sociologica quanto i dibattiti teorico-politici e filosofici discutono la portata di tale nozione. Se non è mai riuscita a diventare soltanto un asettico strumento della scienza politica, è perché le questioni che solleva non sono solo classificatorie. Essa veicola molto di più della constatazione che in questo secolo ha visto la luce un regime nel quale il pluralismo politico e le istituzioni parlamentari sono soppressi.

a) Origine di un neologismo
Pare che sia stata l'Italia ad aver dato i natali alla nuova parola. L'aggettivo 'totalitario' sarebbe circolato già nei primi anni venti tra gli oppositori del regime fascista per indicare la preoccupante tendenza che il governo mussoliniano stava assumendo: la tendenza verso un dominio assoluto e incontrollato della vita politica e amministrativa. Le prime occorrenze del termine sono rinvenibili in alcuni articoli che Giovanni Amendola pubblica ne "Il Mondo" il 12 maggio e il 2 novembre 1923 per denunciare gli esiti nefasti, sia elettorali che politici, di un sistema pervaso di "spirito totalitario" (cfr. Petersen, in Funke, 1978; v. Gleason, 1995; v. Bongiovanni, 1997). Negli anni immediatamente successivi non sono molti coloro che sembrano cogliere la portata innovativa dell'aggettivo: tra questi Gramsci, preoccupato di spiegare, e non solo di condannare, la nuova realtà del partito totalitario, e con lui Piero Gobetti, Lelio Basso e Luigi Sturzo, i quali utilizzano il termine per sottolineare la tragica gravità degli avvenimenti di quegli anni (v. Ruocco e Scuccimarra, 1996). Si fa strada la consapevolezza che si è di fronte non semplicemente a un regime autoritario, ma a un nuovo modo di concepire lo Stato, la Nazione e il Partito che, attraverso un gioco di identificazioni reciproche, assolutizza e 'deifica' il potere e le sue azioni, sacrificando e opprimendo le libertà dei singoli. Con lo pseudonimo di Prometeo Filodemo, sulle pagine de "La rivoluzione liberale" del 2 gennaio 1925, Basso probabilmente inaugura il sostantivo 'totalitarismo', scrivendo: "Il fascismo ha così posto tutti i suoi principî: soppressione di ogni contrasto per il bene superiore della Nazione identificata con lo Stato, il quale si identifica a sua volta con gli uomini che detengono il potere. Questo Stato è il Verbo, e il Capo è l'uomo mandato da Dio per salvare l'Italia; esso rappresenta l'Assoluto, l'Infallibile [...]. Una volta posti questi principî lo Stato può tutto" e per questo esso può diventare "interprete dell'unanime volere, del totalitarismo indistinto". Una svolta importante nella storia del termine è costituita dall'entusiastico uso che di esso fanno nel frattempo sia Mussolini sia i teorici del 'Nuovo Verbo'. Nel discorso tenuto dal Duce il 22 giugno del 1925 il fascismo viene esaltato come quel regime che persegue con fierezza la propria "feroce volontà totalitaria".
Da questo momento in poi l'apologetica di regime strappa il monopolio del termine e del concetto all'opposizione, e si impegna a conferire alla nuova concezione politica una propria dignità teorica. Giovanni Gentile, scrivendo nel 1928 The philosophical basis of fascism per "Foreign affairs", fissa in dottrina gli elementi totalitari del fascismo, al quale attribuisce prima di tutto un'ideologia statalista. Ma grazie alla traduzione inglese di Italia e fascismo di Sturzo, apparsa a Londra nel 1926, totalitarian e totalitarianism, usati in una pura accezione negativa, avevano già acquisito quella risonanza mondiale (v. Bongiovanni, 1997) che troverà la sua prima consacrazione accademica nella voce State dell'Encyclopaedia of the social sciences, redatta nel 1934 da George Sabine. A partire dagli anni trenta l'area semantica del termine e la sua validità categoriale si ampliano e si articolano sempre più superando i confini territoriali e concettuali dell'Italia fascista, paradossalmente un regime che negli anni cinquanta e sessanta non verrà annoverato tra i totalitarismi veri e propri. 

b) Sovrapposizioni lessicali e semantiche: Stato totale, Stato autoritario e totalitarismo
Per quanto le discipline politiche si siano sforzate di mettere ordine nel dedalo di una terminologia che per decenni ha usato indistintamente Stato totale, Stato autoritario e totalitarismo, persistono ancora oggi i residui di quelle sovrapposizioni lessicali e concettuali che hanno caratterizzato non solo il dibattito storiografico, ma anche le autodefinizioni dei singoli regimi implicati. Così, se il fascismo pretende di essere totalitario, il bolscevismo e la sua versione stalinista rifiutano l'aggettivo per riservarlo soltanto ai regimi di destra. Forse più sorprendente è che il nazismo, nonostante qualche lapsus iniziale, preferisca per lo più qualificarsi come autoritario. Ciò non significa che le elaborazioni teoriche che accompagnano l'ascesa al potere di Hitler non abbiano contribuito alla costruzione della categoria di totalitarismo.
Particolarmente rilevante è il dibattito tedesco degli anni trenta su Stato totale, Stato autoritario e totalitarismo (v. Faye, 1972; v. Galli, 1997) a cui prendono parte autori di provenienze diverse: dai circoli della 'rivoluzione conservatrice' - un punto di riferimento comune per i gruppi di destra tra il 1921 e il 1934 - alla cauta opposizione di un liberalismo conservatore, fino ad alcune posizioni marxiste 'eterodosse' della Scuola di Francoforte. Il punto di partenza delle riflessioni teoriche sul totaler Staat è senz'altro il saggio di Ernst Jünger su La mobilitazione totale (1930) in cui vengono definiti i tratti che denoteranno la nuova figura dello 'Stato totale', termine peraltro mai esplicitamente utilizzato dall'autore. La "mobilitazione totale" caratterizza secondo Jünger la condizione contemporanea della politica, sulla cui scena è riapparso il "conflitto originario", riattivato dall'irruzione delle masse e dallo scatenamento della tecnica. Tutto ciò segna la fine delle modalità tradizionali con cui è stata condotta la politica: dalle sue rassicuranti distinzioni tra Stato e società alle sue istituzioni rappresentative. Sarà Carl Schmitt a dare una sistemazione scientifica e propriamente politica al radicalismo filosofico e letterario di Jünger. Ne Il custode della costituzione (1931) viene inaugurata la tematica dello 'Stato totale', locuzione che esprime la crisi radicale dello Stato sovrano tradizionale, che rischia di scomparire sotto il peso dell'invadenza della società, coi suoi partiti e i suoi interessi particolari. La sfera politica non è più distinguibile e autonoma da quella sociale, e il potere sovrano si trasforma in pura amministrazione tecnico-economico-burocratica.
Lo Stato è totale, ma "per debolezza": ormai preda degli interessi privati, esso è incapace di produrre unità politica e decisione efficace. Il problema di Schmitt, per il momento, è soltanto quello di individuare il luogo d'imputazione della decisione politica in grado di frenare la disgregazione. Lo Stato totale "per intensità", che Schmitt tra il 1931 e il 1933 propone di opporre allo "Stato totale per debolezza", è una forma estrema di governo, ma non totalitaria. Così come non sono totalitari altri due emblematici tentativi per porre rimedio alla totale compenetrazione di Stato e società: quello compiuto da Ziegler con il suo Stato autoritario o Stato totale del 1932 e quello fatto da Leibholz in La dissoluzione della democrazia liberale in Germania e la forma di Stato autoritario, del 1933. Nonostante le differenze tra le rispettive posizioni di partenza, da entrambi gli autori lo 'Stato autoritario' è invocato per ridare dignità e autonomia alla sfera politica e per riorganizzare l'apparato statale in termini di responsabilità decisionale. Il nazismo fece propri alcuni elementi di quel dibattito su 'Stato totale' e 'Stato autoritario', dalla critica al liberalismo e al parlamentarismo all'enfasi posta sulle nozioni di totalità e autorità, per farli interagire con la celebrazione della 'comunità di popolo' e del ruolo del capo. Nelle utilizzazioni dei primi anni trenta degli aggettivi 'totale' e 'autoritario' da parte di Ziegler, Leibholz e Schmitt, sono ancora assenti quei contenuti che caratterizzeranno invece la pratica e le teorizzazioni del nazismo. Ciò non significa sollevare dalle proprie responsabilità un novero di pensatori che contribuì a creare un clima politico certo non ostile al nazismo e ostacolò una vera e propria resistenza intellettuale all'hitlerismo (v. Galli, 1997), ma soltanto precisare che questi termini, almeno fino alla presa del potere di Hitler, non erano sinonimi di totalitarismo.
Le sovrapposizioni tra i termini e le nozioni si intensificano a partire dall'assalto nazista al potere. Nel novembre del 1933 Göbbels definisce l'avvento del nazionalsocialismo "una rivoluzione totale" che ha come obbiettivo "uno Stato totalitario che abbracci ogni sfera della vita pubblica e la trasformi alla base" al fine di "modificare completamente i rapporti degli uomini tra di loro, con lo Stato e con i problemi dell'esistenza". Anche Hitler nei suoi discorsi del 1933 utilizza, accanto ad autoritario, gli aggettivi totale e totalitario (v. Neumann, 1942, p. 65). Seppure per poco tempo - in pochi anni total e totalitär quasi scompariranno - l'uso indistinto dei tre termini da parte del regime e dei suoi ideologi si riflette tanto sulle teorie filonaziste quanto su quelle dell'opposizione. Carl Schmitt, per esempio, negli scritti che vanno dal 1933 al 1937 (fondamentale è il saggio Weiterentwicklung des totalen Staats in Deutschland del 1933) imprime una svolta al significato della locuzione 'Stato totale' da lui precedentemente coniata. Ora, il totaler Staat, per combattere con efficacia la "totalità per debolezza" dello Stato pluralistico preda dei partiti, deve riconoscere al capo una legittimità politica che gli deriva dall'essere in rapporto con una comunità di popolo 'razzialmente' omogenea. Allo stesso modo, Der totaler Staat di Forsthoff, l'allievo di Schmitt proveniente dalla 'rivoluzione conservatrice' che si avvicinò immediatamente al nazismo, individua soltanto nella dimensione dell'"unità di popolo" la possibilità per la politica di diventare totale e concreta.
Insomma, seppur lontane da quella che diventerà la delirante progettualità della propaganda di regime, queste valorizzazioni della totalità non sono più soltanto strumenti critici e polemici, ma si fanno modelli per la rifondazione sostanzialistica e völkisch dei rapporti politici e sociali, in modo che l'identificazione di Stato, Movimento e Popolo sopprima la dimensione privata dell'esistenza. Anche nel fronte dell'opposizione si registrano analoghi mutamenti lessicali. Per esempio Leibholz, in un saggio del 1938, Il secolo XIX e lo Stato totalitario del presente, lascia cadere l'alternativa tra 'Stato totale' e 'Stato autoritario', in quanto quest'ultimo è ormai pervaso da logiche totalitarie, quali lo spirito antipluralistico, il livellamento omologante e l'eliminazione di ogni autonomia individuale. Totalitario, autoritario e totale sono aggettivi che qualificano un'unica minaccia: quella del comunismo sovietico e del nazismo.
La stessa indistinzione terminologica, per cui Leibholz parla di "Stati totalitari di massa a carattere gerarchico autoritario", si ritrova in moltissimi autori di origine tedesca. Alcuni esponenti della Scuola di Francoforte, da Marcuse ad Adorno, da Horkheimer a Kirchheimer, nel loro sforzo interpretativo del nazismo e del comunismo si riferiranno a questi regimi come a tipi di total-autoritärer Staat (v. Marcuse, 1934) o 'Stato autoritario' tout court (v. Horkheimer, 1942) ancora per molto tempo. Per quanto si faccia strada una concettualizzazione che prelude e progressivamente corrisponde alla più matura categoria di totalitarismo, nell'orizzonte culturale tedesco l'aggettivo totalitär diventa una parola chiave della critica al nazismo solo molto tardi. Perché l'uso distinto dei termini divenga operativo si dovranno aspettare gli anni cinquanta, con la comparsa delle cosiddette 'teorie classiche del totalitarismo' e la successiva sistematizzazione della scienza politica. 

c) Tentativi di distinzione
Solo a partire dalla fine degli anni cinquanta la politologia, soprattutto di scuola anglosassone, si preoccupa di fare ordine in una letteratura che spesso utilizza indifferentemente locuzioni quali regimi dittatoriali, regimi autoritari, regimi tirannici e regimi totalitari. Seppure quasi sempre troppo schematiche, queste distinzioni servono a circoscrivere, per approssimazione, il primo plesso di questioni che ineriscono alla nozione di totalitarismo. Solitamente queste definizioni partono dall'assunto di una contrapposizione netta tra 'democrazie competitive' e 'sistemi monocratici' e di una profonda divergenza, all'interno di questi ultimi, tra regimi autoritari e regimi totalitari. La prima caratteristica generale dei sistemi autoritari è la loro residuale struttura pluralistica, a differenza dei totalitarismi segnati invece da un monismo assoluto (v. Almond, 1956; v. Huntington e Moore, 1970). Come sostiene Linz (v., 1975) in una definizione che verrà largamente condivisa, i regimi autoritari sono "sistemi a pluralismo limitato la cui classe politica non rende conto del proprio operato". Pur centralizzando fortemente il potere, uno Stato autoritario non riesce, e forse non vuole, giungere sino all'annientamento di tutti i gruppi sociali e politici concorrenti. A fianco di uno Stato che monopolizza autorità e amministrazione sopravvivono pertanto elementi di "una società legalmente riconosciuta" (v. Stawar, 1961).
Di contro, il totalitarismo è mosso dalla volontà di far scomparire ogni forma di pluralismo reale e legale annettendosi un potere sulla società che non conosce limitazione alcuna. Se l'autoritarismo è per certi versi un tentativo di soluzione forte della crisi dello Stato, il totalitarismo si nutre di quella crisi portandola fino alle estreme conseguenze. Questo significa che, per quanto arbitrario un regime autoritario possa sembrare, rimane comunque vincolato al valore dell'ordine e della sovranità statale, e riconosce, anzi rafforza, il ruolo simbolico-rappresentativo dello Stato; mentre, qualunque sia la retorica impiegata da un sistema totalitario, esso si serve dell'apparato statale come di un mero organo funzionale, svuotandolo della sua prerogativa sovrana e accostandogli - in realtà contrapponendogli - il movimento prima e il partito poi, ai quali soltanto viene attribuita la vocazione di rappresentare l'intero (v. Fisichella, 1987). Se è vero che quasi sempre anche l'autoritarismo è caratterizzato dal monopartitismo, in questo caso però il partito unico rimane in posizione subordinata, e non alternativa o conflittuale, nei confronti del potere statale (v. Bracher, 1984). Non è un caso allora che in Mein Kampf ricorra spesso una retorica ostile e sprezzante nei confronti della Staatsgläubigkeit tedesca.
Ma cosa consente a un sistema totalitario di realizzare una fusione così riuscita tra sfera politica, sfera sociale e sfera privata, tanto da poter far sopravvivere lo Stato come mera facciata? Il totalitarismo non si limita a ottenere l'obbedienza; a differenza dell'autoritarismo non si accontenta di poter agire indisturbato tra il silenzio dei 'sudditi'. Esso vuole invece legittimarsi tramite il consenso delle masse. Il partito e le sue ramificazioni penetrano capillarmente nella società per ottenere la costante mobilitazione dei cittadini, affinché aderiscano integralmente alla visione del mondo assunta dal regime, la quale giustifica ogni tipo di comportamento politico. Dove l'autoritarismo tende a conservare i valori e le gerarchie tradizionali, facendoli accettare con la forza anche ai dissidenti, il totalitarismo vuole e per certi versi deve realizzare una rivoluzione di tutti i valori e rapporti sociali, introducendo un nuovo sistema normativo e ideologico in grado di coagulare il maggior numero possibile di aderenti.
Affinché il totalitarismo riesca ad affermarsi, deve quindi mobilitare dall'alto l'adesione, la partecipazione e la convinzione dei cittadini. A questo scopo occorre una propaganda ideologica che faccia presa sulle masse. Da qui, Linz propone di distinguere tra 'ideologia', di cui i totalitarismi si fanno portatori, e 'mentalità', a cui si attengono i regimi autoritari. La prima è un sistema articolato e coerente, elaborato da intellettuali o pseudointellettuali, in grado di entusiasmare e compattare la popolazione così come di creare l'identificazione tra il capo e le masse; la seconda è un modo di pensare fondato più su elementi emotivi, spesso incoerenti, che su concatenazioni logiche e razionali. Come forma di dominio, pertanto, il totalitarismo è legato alla diffusione di una nuova ideologia che si pretende rivoluzionaria e in rottura col passato, mentre l'autoritarismo è sostanzialmente conservatore. Se la prospettiva autoritaria è quella di una gestione controllata degli equilibri sociali, il totalitarismo, invece, immette una potente carica sovversiva, non solo per quanto riguarda la compagine istituzionale (il dualismo Stato e partito), ma anche imponendosi e promuovendo un nuovo sistema di valori (v. Tucker, 1961). Nel dibattito rientra infine la discussione su quali esperienze storiche possano essere definite totalitarie: anche se suscitando non poche polemiche, molti interpreti hanno annoverato l'Italia fascista, così come il Portogallo di Salazar, la Spagna di Franco e molti governi latino-americani tra i regimi autoritari. Regimi totalitari sono stati considerati invece lo stalinismo, il nazionalsocialismo e, per alcuni aspetti, la Cina della rivoluzione culturale.
Da quanto si è detto si può dunque arrivare a una prima generica anticipazione del significato di totalitarismo: un regime connesso a una società di massa, che cerca di annullare ogni possibile confine tra Stato, società ed esistenza privata; una modalità di gestione politica in cui un unico partito ha conquistato la struttura statale strappandole l'esclusivo monopolio del potere politico e della legittimazione. Ancorché radicalmente antipluralistico e tendenzialmente monistico, il regime totalitario non è né statico né monolitico: non mira a una conservazione e a un rafforzamento dell'ordine, né rappresenta una modalità estrema e reazionaria di governo, ma veicola dinamiche rivoluzionarie, tanto ideologiche quanto istituzionali.

2. La costruzione di una categoria

a) Il dibattito degli anni trenta
Numerosi storici osservano che le distinzioni politologiche volte a circoscrivere la specificità del fenomeno totalitario utilizzano criteri elaborati a priori e applicati solo successivamente a una realtà a essi recalcitrante. In verità molti dei contenuti compresi nella categoria di totalitarismo sono stati elaborati assai prima che la scienza politica mettesse a punto il suo 'tipo ideale'. Lungi dall'essere soltanto il frutto di un'esigenza sistematica e classificatoria, alcuni tratti distintivi delle teorie del totalitarismo sono stati il prodotto di una riflessione segnata dall'esperienza storica. Già nei primi anni trenta, ancora ignari delle esigenze propagandistiche della futura 'guerra fredda', autori di diversa provenienza intellettuale seppero trasformare i loro drammi personali e storici in un prezioso patrimonio di riflessione. In questo periodo Parigi divenne il laboratorio teorico e politico in cui si andò forgiando una prima fisionomia del concetto. In un clima anticonformista e di grande svolta culturale, in cui a differenza di quanto andava accadendo in Germania non si reagiva alla crisi invocando la rivitalizzazione di tematiche tradizionaliste e autoritarie, presero vita quelle interpretazioni del fascismo e del comunismo che, messe a punto già verso la fine degli anni quaranta, costituiranno il quadro di riferimento di tutte le teorizzazioni successive.
Un decisivo contributo all'elaborazione storico-politica della categoria fu dato dal dibattito sulla natura sociale dell'URSS: da Kautsky a Hilferding, da Rosenberg a Wittfogel (v. Salvadori, 1981; v. Bongiovanni, 1995). Primo presupposto, tanto fondamentale quanto dimenticato, della nascita del concetto è senza dubbio il nucleo di riflessioni lasciato in eredità da Trockij: un'eredità che, ripensata radicalmente, costituì il punto di partenza delle successive concettualizzazioni. Il problema della distorsione profonda operata da Stalin nei rapporti tra struttura e sovrastruttura; la degenerazione dello strapotere di una burocrazia che diventa una 'casta' incontrollata e separata da quelle masse su cui esercita un dominio totale; l'interpretazione dello stalinismo come forma di bonapartismo: sono tutte questioni che vennero fatte proprie dalla diaspora trockijsta. Ma se l'autore de La rivoluzione tradita, e con lui anche altri critici di sinistra dello stalinismo, stentarono a negare all'Unione Sovietica, nonostante le aberrazioni staliniane, il carattere socialista impresso dalla Rivoluzione bolscevica, i 'trockijsti eretici' metteranno in discussione proprio tale assunto, sconfinando nel riconoscimento dell'autonomia del politico e dando corpo, attraverso questa ammissione, alla categoria del totalitarismo.
Con Victor Serge si registra forse per la prima volta l'applicazione dell'aggettivo totalitario all'Unione Sovietica; questa viene al contempo definita, già nel 1933, un regime 'socialista', 'castocratico', 'burocratico' e, soprattutto, 'totalitario'. (cfr. Tutto è messo in questione, 1° febbraio 1933, in Serge, 1979). La Russia di Stalin è totalitaria non semplicemente perché è un regime monopartitico, ma perché monopolizza in un unico centro, costituito da una casta autonoma di burocrati, il potere politico, quello economico e quello culturale. È da ricordare che sulla scia di Serge, grazie anche a Bruno Rizzi (v., 1939) e James Burnham (v., 1941) nonché alla Scuola di Francoforte, si avvieranno quelle letture che qualificano il totalitarismo, non solo sovietico, come un 'collettivismo burocratico'. Né socialista né capitalista, esso rappresenterebbe una forma inedita di tirannia, cifra del nuovo destino che incombe su un mondo dominato dalla 'burocratizzazione' e dalla ratio strumentale sempre più fine a se stessa. L'altro grande protagonista di questa prima stagione militante di critica ed elaborazione del 'totalitarismo' è Boris Souvarine, fondatore di quella "Critique sociale" che tanto contribuirà alla decostruzione del marxismo ortodosso. Per lui lo stalinismo non è solo 'l'esperienza assoluta' alla quale raffrontare ogni altro fenomeno storico, ma anche l'occasione per riflettere in generale sulla novità rappresentata dai regimi totalitari. Dal 1925 al 1939, anni in cui passerà da una presa di distanza critica dal comunismo alla rottura vera e propria, i suoi scritti affrontano questioni che scuoteranno l'opinione pubblica solo nei decenni successivi. (v. Souvarine, 1985). In essi si trova una delle prime considerazioni sulle analogie strutturali tra 'fascismi' e comunismo, due forme di "État totalitaire" che, seppur partendo da presupposti ideologici differenti, giungono a risultati molto simili: uno Stato oppressivo e accentratore che fa leva su personalità forti, come il "romantico patologico" Hitler e il "cinico stratega" Stalin, e che toglie autonomia a ogni istanza sociale e individuale.
Al progressivo allontanamento di Souvarine dalla filosofia della storia marxista, con la sua volontà di "negare i duri fatti", si accompagna un'indagine sempre più teorica e sempre meno storica del totalitarismo, che vede prevalere in esso una visione del mondo manichea, basata sulla radicale distinzione tra un bene e un male assoluti. Consapevoli dell'impotenza del metodo della dialettica marxista per spiegare i regimi del Novecento e attenti tanto alle dinamiche propriamente politiche quanto alla dimensione ideologica dei regimi fascisti e comunisti, sono anche gli altri 'pionieri' francesi del concetto: Aron, Bataille, Monnerot e per certi versi Mounier. Sollecitato dall'opera scritta nel 1936 da Halévy (v., 1938), Aron mise a punto già prima del 1940 i lineamenti di una critica al totalitarismo che rimangono punti di riferimento non solo per il suo pensiero successivo, ma per tutta la riflessione liberale sull'argomento.
L'assunto di partenza è che nelle scienze sociali e filosofiche manca un chiaro concetto di totalitarismo, rispetto al quale, secondo Aron, si rendono necessarie quattro strategie:
a) la critica alla filosofia della storia deterministica e teleologica, che negando un significato autonomo agli avvenimenti misconosce la novità dei regimi totalitari;
b) la relativizzazione del primato della sfera economica a favore della centralità della sfera politica;
c) il riconoscimento del momento rivoluzionario che oppone il totalitarismo alla democrazia, caratterizzata, invece, da un'istanza conservatrice;
d) un'indagine sulle ideologie totalitarie in relazione al processo di secolarizzazione.
I sistemi totalitari non si accontentano di annullare la distinzione tra Stato e società e di affossare ogni tipo di pluralismo, ma si organizzano intorno a ideologie che, come le dottrine religiose, offrono un orizzonte salvifico temporalmente differito, realizzabile tuttavia grazie al regime instaurato. Il partito assume pertanto il ruolo di anticipazione della comunità futura, abitata dall'umanità redenta. I sistemi totalitari riescono così, in nome della lotta tra bene e male, a far accettare l'oppressione più violenta e i crimini più efferati. A differenza delle religioni tradizionali, tuttavia, le 'religioni secolari' non si limitano al foro interno, ma mirano a indirizzare i comportamenti politici collettivi (v. Aron, 1944). Per Aron ogni promessa di conciliazione tra verità e storia, dialettica o 'religiosa' che sia, rimane una mistificazione contro cui combattere.
Come Souvarine per la sinistra eterodossa e Aron per la cultura liberale, George Bataille è a sua volta il capostipite di un importante filone interpretativo. Inaugura infatti quella linea di lettura filosofica che costituisce un capitolo importante della critica al totalitarismo. Negli anni trenta egli pubblica su "La critique sociale" alcuni significativi articoli in cui mette sotto accusa le letture economicistiche e deterministiche dell'État totalitaire (cfr. Le problème de l'État e La structure psycologique du fascisme, rispettivamente 9 e 10 novembre 1933, in Bataille, 1970). I temi che caratterizzano l'opera batailliana, il Sacro, il Potere, i Miti, insomma l''eterogeneo' - tutto ciò che non si riduce alla razionalità funzionale dell''omogeneo' -, assumono rilievo proprio dal tentativo del filosofo francese di capire il fascismo, il nazismo e lo stalinismo rompendo con gli schemi delle spiegazioni dialettiche. Come sarà più tardi anche per Jules Monnerot (v., 1949), secondo Bataille il totalitarismo deve il proprio successo al vuoto lasciato dal razionalismo moderno e dalle sue creazioni. Le democrazie capitalistico-borghesi, regolate sulla razionalizzazione del ciclo di produzione, acquisizione e consumo, non rispondono alle domande relative all''eterogeneo'. Se si vuole combattere il totalitarismo si deve riconoscere che la sovranità politica dei fascismi e del comunismo staliniano fa leva sul bisogno del Mitico, dell'Affettivo, della Comunità, sul fascino della Violenza; esercita, insomma, attraverso un'abile utilizzazione dell'eterogeneo, una grande forza d'attrazione sulle masse. Anche se in realtà - queste le conclusioni a cui giunge Bataille - né il fascismo né il comunismo danno autentico spazio all''eterogeneo', finendo per negarne totalmente il potenziale liberatorio.
Il fascismo, col suo culto della potenza dello Stato, e il comunismo, col suo utopismo sentimentale che nega il ruolo del 'politico' e del 'religioso', non fanno altro che portare a un compimento radicale la razionalità della democrazia borghese. Di tutt'altro stile è la critica cattolica al totalitarismo introdotta, negli stessi anni, da Emmanuel Mounier, che nel 1932 fonda "Esprit", la rivista che si incaricherà di mediare tra le diverse correnti intellettuali facendole incontrare proprio nella loro comune istanza antitotalitaria. Partendo da un "personalismo comunitario", Mounier tenta di rilanciare il primato dello spirituale, dal cui oblio sarebbe nata la "malattia totalitaria". Una malattia che colpisce tanto il fascismo e il nazismo, i quali professano una nichilistica idolatria del biologico, quanto il comunismo staliniano, che inverando gli ideali della filosofia marxista nega la persona ed esalta soltanto la collettività.

b) Il dibattito degli anni quaranta
Nonostante le definizioni e le ipotesi ancora molto generiche, il concetto di totalitarismo andava assumendo quelle configurazioni che verranno confermate e rafforzate nei decenni successivi. I temi emersi in questi anni di elaborazione 'a caldo' costituiscono le fondamenta su cui si edificherà l'intera struttura della categoria. Un dibattito, questo degli anni trenta, la cui centralità è stata spesso sottovalutata dall'opinione diffusa che fa risalire agli anni cinquanta la nascita del concetto. Si dimentica così parimenti un'altra stagione decisiva, precedente a quella della scienza politica americana, rappresentata da alcune opere chiave degli anni quaranta che ampliano ulteriormente lo spettro concettuale del totalitarismo.
Se negli anni trenta la realtà presa in esame era soprattutto lo stalinismo, ora, grazie al contributo di autori ebrei tedeschi emigrati negli Stati Uniti, l'indagine si focalizza maggiormente sul nazionalsocialismo. Le analisi si fanno più specialistiche e settoriali, la terminologia trova una sua codificazione precisa, mentre diventa sempre più radicata la consapevolezza di come i regimi totalitari segnino una rottura della tradizione politica occidentale e non siano affatto riconducibili a un tipo estremo di statualità forte né a una riedizione particolarmente efferata di tirannie già conosciute nel passato. I lavori che maggiormente contribuiscono a decostruire l'immagine del totalitarismo come ordine statuale monolitico dove tutto è rigorosamente stabilito dall'alto sono quelli di Ernst Fraenkel, Franz Neumann e Sigmund Neumann. Nel suo The dual State, del 1941, Fraenkel analizza la struttura politico-giuridica della Germania nazista individuando in quel regime la compresenza di due ordinamenti e di due logiche statali concorrenti. Accanto a uno 'Stato normativo', che funziona secondo una normale attività legislativa, convive una logica statale del tutto arbitraria, rispondente a un mutevole e onnipotente Führerprinzip che utilizza sistematicamente il terrore anche per infrangere le stesse leggi emanate dallo Stato 'di diritto'. Il totalitarismo nazista viene presentato come 'disordine policentrico' anche da Franz Neumann (v., 1942). Behemoth - simbolo già per Hobbes della guerra civile - è il mostro totalitario che rimane paradossalmente in vita nutrendosi del conflitto che si viene a creare tra i vari centri di potere - partito, burocrazia, esercito, grande industria - i quali si moltiplicano e si sovrappongono lasciando come unico arbitro il Führer.
Come il totalitarismo implichi un movimento costante fine a se stesso, che trascina in un vortice individui, gruppi e istituzioni, è messo in luce anche dal lavoro di Sigmund Neumann del 1942, dall'emblematico titolo Permanent revolution. Se la guerra è l'origine dei regimi totalitari, essa ne è anche il motore necessario. Primo scopo di tali regimi è pertanto quello di rendere perpetua una rivoluzione del tutto artificiosa, pena l'arresto del loro funzionamento. Attori malleabili e passivi di queste rivoluzioni sono le masse, il nuovo soggetto politico che irrompe sulla scena tra le due guerre mondiali, ma la cui ascesa era iniziata alla fine del XIX secolo. Molti sono gli studiosi - da Mannheim a Ortega y Gasset - che, già a partire dal decennio precedente, individuano nella nuova configurazione sociale, che vede il tramonto delle tradizionali distinzioni di classe, il terreno di coltura delle 'nuove tirannie del secolo'. In questa prospettiva il totalitarismo diventa l'espressione estrema di una tendenza epocale alla dissoluzione di ogni tipo di solidarietà sociale, dei legami di gruppo e di classe, la cui conseguente atomizzazione rende gli individui disponibili all'indottrinamento e alla manipolazione (v. Lederer, 1940). Soltanto da un tessuto sociale disgregato può emergere quell''uomo-massa' disposto alla più insensata delle 'servitù volontarie'.
Per comprendere questo nuovo fenomeno che veicola un'adesione entusiasta a ideologie totalizzanti vengono impiegate analisi sociologiche e categorie psicologiche. Sono visti come fattori determinanti "l'impoverimento psichico" e "il risentimento sociale" di una piccola borghesia in crisi d'identità, schiacciata dal duplice peso del potere della grande borghesia, da una parte, e del proletariato industriale dall'altra (v. Lasswell, 1935); è ritenuta responsabile una repressione sessuale che produce personalità deboli e impotenti (v. Reich, 1933); viene individuata una "sindrome autoritaria", preparata da una struttura familiare, quella della famiglia tipica tedesca, imbevuta di servilismo e autoritarismo (v. Horkheimer e altri, 1936) e, ancora, si chiama in causa la fuga dall'insopportabile peso di una libertà vissuta come dissolvimento di qualsiasi vincolo (v. Fromm, 1942).
Accanto a questo, si consolida anche un approccio che delle ideologie totalitarie ricerca le radici intellettuali, partendo dal presupposto che il totalitarismo porti allo scoperto molti dei fantasmi che la nostra cultura occidentale, soprattutto nella modernità, ha generato. L'ideologia totalitaria viene così vista come quella 'rivoluzione' che, attraverso la distruzione di tutte le norme e i valori tradizionali, porta a compimento il nichilismo moderno (v. Rauschning, 1938); è interpretata come la deriva immanentistica del progressivo oblio della trascendenza (v. Voegelin, 1938) o, ancora, come lo spettro, diventato finalmente reale, che si è aggirato nel mondo occidentale da quando il socialismo e i suoi vari travestimenti hanno iniziato a soffocare i principî della libertà, sopravvissuti soltanto grazie alla libertà economica (v. Hayek, 1944). Insomma, tutti gli elementi strutturali della 'costellazione totalitaria' sono ora oggetto di indagine. Ciò che ancora manca è un'analisi che sappia metterli in connessione tra loro in una grande sintesi concettuale.

c) Le prospettive aperte da Hannah Arendt
The origins of totalitarianism, di Hannah Arendt, pubblicato per la prima volta nel 1951, è unanimemente considerato l'opera che elabora una teoria del totalitarismo destinata ad assumere valore paradigmatico: il lavoro da cui nessun tipo di riflessione, di qualsiasi ambito disciplinare, può prescindere. Se da un lato il libro di Hannah Arendt rappresenta un punto di partenza per tutta la riflessione sull'argomento, da un altro esso costituisce anche un punto d'arrivo. Il merito più evidente dell'opera consiste nel considerare il fenomeno totalitario nel suo significato generale, non soltanto nelle sue implicazioni storiche e politiche, ma anche in quelle culturali e filosofiche. Convinzione dell'autrice è che il totalitarismo per un verso rappresenta il luogo di cristallizzazione delle contraddizioni dell'epoca moderna, per l'altro segna però la comparsa, nella storia occidentale, di qualcosa di radicalmente nuovo e impensato. Per comprenderlo, risultano così inutilizzabili le categorie tradizionali della politica, del diritto, dell'etica e della filosofia. Ciò che avviene con e nei regimi totalitari non può venir descritto in termini di semplice oppressione, di tirannide, di illegalità, di immoralità o di nichilismo realizzato, ma richiede una spiegazione altrettanto 'innovativa'. In linea con questi assunti, più che ricercare le cause che hanno linearmente prodotto il nazismo e lo stalinismo - i casi storici di totalitarismo compiuto - l'autrice indaga le dinamiche che ne hanno per così dire facilitato la realizzazione.
Il libro, che si articola in tre sezioni dedicate rispettivamente a L'antisemitismo, L'imperialismo e Il totalitarismo, prende in esame i seguenti nodi storico-concettuali: il fallimento degli Stati nazionali e della loro promessa di coniugare cittadinanza e universalità dei diritti umani; l'illimitato desiderio espansionistico dell'imperialismo, che oltre a concorrere alla formazione di una mentalità dominatrice insegna all'Europa i metodi illegali e arbitrari messi a punto nelle colonie; la massificazione della società, che trasforma i membri delle classi in atomi impotenti e isolati; la comparsa di apolidi, in seguito alle diverse crisi prodotte dalla prima guerra mondiale; il razzismo - in primo luogo, appunto, l'antisemitismo -, che porta con sé il fardello di credenze legate al sangue e al suolo; l'elaborazione di ideologie che pretendono di procedere in accordo con le eterne leggi della Natura e della Storia. E infine, quando i regimi sono già all'opera, l'uso della propaganda e del terrore, per mantenere il funzionamento totalitario in continuo movimento. Di per sé nessuno degli elementi indicati è totalitario. Soltanto se per diverse e avverse circostanze si coniugano l'uno con l'altro danno luogo a quell'inaudita novità rappresentata tanto dal nazismo quanto dallo stalinismo. Sarebbe pertanto un errore ritenere che tali regimi siano soltanto l'ultima figura, ancorché esasperata e irrigidita, della costruzione statuale moderna.
Lungi dal presentare una struttura monolitica, l'apparato istituzionale e legale totalitario deve rimanere estremamente duttile e mobile, per permettersi la più assoluta discrezionalità. Per questo gli uffici vengono moltiplicati, le giurisdizioni sono tra loro sovrapposte e i centri di potere continuamente spostati. Soltanto il capo, assieme a una cerchia ristrettissima di collaboratori, tiene nelle sue mani gli ingranaggi effettivi della macchina totalitaria, che non viene affatto messa in moto per servire interessi di parte. La Arendt non si stanca di ripetere che per questi regimi le considerazioni utilitaristiche sono inessenziali, poiché ciò a cui essi mirano è assai più ambizioso e smisurato: modificare la realtà per ricrearla secondo gli assunti dell'ideologia. Da qui la differenza tra i veri e propri regimi totalitari, quali il nazismo e lo stalinismo, e i regimi autoritari, quale il fascismo. Questi ultimi si servono ancora dei metodi tradizionali di potere che, per quanto oppressivi, mirano soltanto all'obbedienza e all'eliminazione degli oppositori. Quanto le dinamiche totalitarie eccedano ogni criterio tradizionale di dominio è dimostrato per lei dal fatto che la polizia segreta entra davvero in azione soltanto quando, una volta liquidata la reale opposizione, si passa a eliminare il cosiddetto 'nemico oggettivo': colui che non ha intenzione di opporsi al regime, ma che è avversario per definizione ideologica. Tale procedimento serve principalmente a tenere in funzione il terrore, vero motore di un regime che raggiunge il proprio culmine nel momento in cui viene elaborata la categoria di 'nemico possibile', vale a dire quando le vittime vengono scelte in modo del tutto casuale e arbitrario.
Cuore del funzionamento totalitario è il campo di sterminio, interpretato dalla Arendt come il 'laboratorio' in cui si vuole sperimentare l'assunto secondo cui 'tutto è possibile'. Il lager, insomma, sarebbe l'epitome del totalitarismo, la sua verità ultima, poiché è il luogo in cui si mette in opera la modificazione della realtà umana. In altre parole, l'universo concentrazionario serve a dimostrare che l'essere umano, annientato prima come persona giuridica, poi come persona morale, e infine come individualità unica, è riconducibile a un fascio di reazioni animali che cancellano ogni traccia di libertà e spontaneità. Schematizzati drasticamente, sono questi gli elementi principali della tesi arendtiana, a cui da più parti venne mossa l'accusa di asserire, più che spiegare, l'analogia strutturale tra nazismo e stalinismo, e di tracciare connessioni più 'metafisiche' che fattuali, di articolare una trama più filosofica che basata su riscontri empirici (v. Aron, 1954). Un'accusa, questa, che agli occhi dei critici trovò conferma nel 1958, con la pubblicazione della seconda edizione dell'opera che comprendeva un nuovo capitolo Ideology and terror: a novel form of government (v. Arendt, 1958²; tr. it., pp. 630-656). In queste pagine, effettivamente, è facile ravvisare una sorta di 'metafisica' del totalitarismo, non riconducibile al semplice intrecciarsi dei fenomeni storici analizzati nel corso dell'opera. Quella che Hannah Arendt non esita a chiamare "la vera natura del totalitarismo" sembra infatti corrispondere a un'esplosiva combinazione di determinismo e costruttivismo razionalistico. La volontaristica asserzione per cui tutto è possibile, anche trasformare "la condizione umana", si farebbe forte del richiamo alle irresistibili e inarrestabili leggi della Natura e della Storia, e si invererebbe nel tentativo di generare, per la prima volta, una nuova natura dell'uomo. Grazie al deserto prodotto dal terrore, da una parte, e alla ferrea logica deduttiva dell'ideologia, dall'altra, il totalitarismo riesce in ciò che per la metafisica era rimasto sempre e soltanto un sogno, un'ipostasi del pensiero: la realizzazione di un'unica Umanità, indistinguibile nei suoi molteplici appartenenti. Nei campi di concentramento gli esseri umani ridotti a esemplari seriali di una stessa specie animale perdono completamente quell'unicità e quella differenza che sono la conseguenza del fatto che "non l'uomo, ma gli uomini abitano la terra". "Il totalitarismo sostituisce ai canali di comunicazione tra i singoli un vincolo di ferro, che li tiene così strettamente uniti da far sparire la loro pluralità in un unico Uomo di dimensioni gigantesche" (ibid., p. 638). In questo senso, soltanto ai regimi totalitari riesce, paradossalmente, di eliminare il singolare per l'universale, le parti per il tutto. Sia che venga presupposta l'idea della società senza classi, sia che invece si faccia appello all'idea della razza superiore che deve dominare la terra, la dinamica del totalitarismo consiste nell'eliminare ciò che potrebbe contraddire e intralciare la realizzazione dell'assunto di partenza.
Ora, per quanto criticate, queste riflessioni sollevano interrogativi che ricorreranno durante l'intero dibattito sul totalitarismo nei decenni successivi. Partendo dalle tesi arendtiane, si svilupperanno due diversi approcci: uno volto soprattutto a elaborare una tipologia politica del potere totalitario, seguito purtroppo da tanta produzione accademica; l'altro, più teorico, interessato principalmente a cogliere l'aspetto ideologico della novità del totalitarismo. Se il primo approccio, denominato erroneamente 'fenomenologico', prende le distanze dagli aspetti filosofici dell'opera arendtiana per attenersi a quelli descrittivi del funzionamento del regime, il secondo, non meno impropriamente chiamato 'essenzialista' (v. Barber e altri, 1969), muove invece dalle considerazioni contenute in Ideology and terror, il capitolo più contestato in quanto incurante dei riscontri fattuali.

3. Alla ricerca di una tipologia: le analisi della scienza politica

Nel secondo dopoguerra si assiste alla compiuta delineazione del concetto di totalitarismo e alla sua generale diffusione, ma si verifica al contempo un suo uso indiscriminato che ne dilata i confini al limite del fraintendimento. La categoria subisce un'estensione tanto spaziale quanto temporale, per cui rischia di diventare totalitario ogni regime che non sia liberaldemocratico (v. Giovana, 1972; v. Finer, 1970): dalla Spagna di Franco al Giappone prima della riforma Meiji. Molti pensatori politici del passato vengono accusati di aver formulato idee totalitarie, e molti assetti istituzionali di epoche trascorse vengono considerati prossimi a quelli totalitari. Accanto alla Repubblica di Platone (v. Popper, 1945) vengono presentati come totalitari il Leviatano di Hobbes e la repubblica fondata sulla 'volontà generale' di Rousseau (v. Talmon, 1952). Una forte affinità coi regimi del XX secolo viene ritrovata nel dispotismo orientale delle antiche società idrauliche (v. Wittfogel, 1957), ma anche nella Russia degli zar, nell'India della dinastia Maurya, nella Cina dei Ch'in (v. Moore, 1958). Il germe totalitario era già in incubazione nell'Impero di Diocleziano (v. Neumann, 1957), nella Ginevra di Calvino (v. Moore, 1958), nelle prime dinastie egiziane e, ancora, nelle società inca (v. Walter, 1982).
Se il riconoscimento generale della categoria è ormai fuori discussione, questa sua indiscriminata applicazione a esperienze politiche ed elaborazioni intellettuali diverse rischia di farle perdere valore esplicativo. Tra gli obbiettivi della scienza politica vi è l'esigenza di riportare su binari scientifici tanto questa applicazione indiscriminata del concetto quanto le interpretazioni cosiddette 'essenzialistiche'. Ciò spingerà alcuni esponenti della politologia di ambito anglosassone all'esasperata ricerca di un 'modello totalitario', sulla base di un'analisi empirica e sostanzialmente quantitativa. Risponde a queste esigenze l'approccio politologico di C. Friedrich e Z. Brzeziński (v., 1956), i due autori che presentano quello che viene spesso ritenuto il primo organico tentativo di ricostruire un modello in grado di individuare l'unicità e la specificità della dominazione totalitaria.
Si è in presenza di un regime totalitario - un fenomeno possibile grazie allo sviluppo della tecnica e verificatosi solo nel Novecento - quando si ritrovano contemporaneamente sei elementi, riscontrati sia nel nazismo sia nel comunismo staliniano:
a) un'ideologia onnicomprensiva che promette la piena realizzazione dell'umanità;
b) un partito unico di massa, per lo più guidato da un capo, che controlla l'apparato statale e si sovrappone a esso;
c) un monopolio quasi totale degli strumenti della comunicazione di massa;
d) un monopolio quasi totale degli strumenti di coercizione e della violenza armata;
e) un terrore poliziesco esercitato attraverso la costrizione sia fisica sia psicologica, che si abbatte arbitrariamente su intere classi e gruppi della popolazione;
f) una direzione centralizzata dell'economia.
L'incontro tra questi fattori - sui quali gli autori torneranno ancora nel 1969 - dà luogo alla cosiddetta 'sindrome totalitaria' che rimarrà, nonostante le numerose critiche, un luogo di confronto obbligato per la scienza politica successiva. L'influenza di Friedrich e Brzeziński si ritrova nei lavori di Aron (v., 1958), che riformula in maniera di poco modificata i fattori costitutivi della sindrome totalitaria. Tuttavia, a differenza dei due politologi americani, Aron è convinto che le idee ispiratrici così come gli obbiettivi delle ideologie comunista e nazista comportino un'incommensurabilità tra i due regimi: da una parte va valutato il fallimento di un ideale umanitario e razionalistico volto all'edificazione della 'società nuova', dall'altra va presa in considerazione semplicemente "la volontà propriamente demoniaca di costruire una pseudo-razza". Sia la 'sindrome' di Friedrich e Brzeziński sia le tipizzazioni di Aron verranno accusate di non essere modelli descrittivi. Da tale critica si avvia una fase di radicale messa in questione che porterà, per più di vent'anni, a divisioni e conflitti nella scienza politica (v. Tarchi, 1997).
Gli scettici nei confronti della validità del concetto diventano numerosi, divisi tra chi ritiene superata la stagione della costruzione idealtipica a fronte della scomparsa dei riferimenti storici concreti - nazismo e stalinismo (crf. Curtis, in Barber e altri, 1969) - e chi, più radicalmente, auspica la cancellazione del termine totalitarismo dal lessico delle scienze politiche e sociali, in quanto si è dimostrato o un vuoto formalismo valido per troppi tipi di regimi o una mera interpretazione filosofica dipendente dalle suggestioni ideologiche (v. Barber e altri, 1969). All'accanimento dei detrattori si affianca l'atteggiamento più moderato di coloro che difendono sostanzialmente la validità della costruzione concettuale, ma ne vogliono riprecisare i singoli contenuti. Sebbene nessun fattore della 'sindrome' esca indenne da questa operazione di revisione - in particolare, sono ridiscussi il ruolo del leader, della mobilitazione di massa e dell'ideologia - la volontà di questi autori è di non chiudere il dibattito, ma di riadattare il tipo ideale a una nuova realtà empirica e in base a una riveduta metodologia.
Certo, sostengono alcuni, il concetto ha subito forti distorsioni, ma rimane pur sempre l'unico strumento per descrivere un regime inedito, proprio della storia novecentesca (v. Shapiro, 1972; v. Unger, 1974; v. Linz, 1975; v. Stoppino, 1983²; v. Bracher, 1984; v. Fisichella, 1987). Se con Shapiro vengono ridisegnati i cinque cardini del regime - il capo, il soggiogamento dell'ordine legale, il controllo sulla morale privata, la mobilitazione permanente e la legittimazione di massa - è con Juan Linz che la comunità politologica non avversa al concetto compie un vero e proprio passo in avanti. La cautela di distinguere tra modello e teoria, e l'ammissione di usare definizioni astratte solo come strumenti euristici fanno accettare la sua teoria tipologica, di cui si è parlato in precedenza, come criterio per distinguere il totalitarismo da altri regimi non democratici. Se si ricapitolano i punti fondamentali dei contributi più significativi di quella parte della scienza politica che, rielaborando le analisi di Hannah Arendt, ritiene necessario rivitalizzare il concetto di totalitarismo, si possono individuare i seguenti fattori costitutivi del fenomeno totalitario.
Si tratta innanzitutto di un regime del Novecento che affonda le proprie radici nella tarda modernità, in processi che non sono sufficienti perché si verifichi, ma che sono indispensabili per la sua comparsa. Il totalitarismo è messo in moto e tenuto in vita da un terrore che, a differenza della normale violenza politica, non mira a ottenere semplicemente la sottomissione. Se appare 'assurdo' e 'delirante' è perché non sembra rispondere a nessun tipo di necessità razionale, ma alla volontà di rendere superflue intere categorie di persone che con la loro semplice presenza disturbano il compimento del progetto totalitario (v. Maffesoli, 1979; v. Ferry e Pisier-Kouchner, 1985). Tale terrore si dimostra pertanto inscindibile dall'ideologia. Vero e proprio principio politico del regime, il progetto ideologico si pone l'obbiettivo di una destrutturazione radicale del presente e di una sua ricostruzione finalizzata all'edificazione della nuova storia, della nuova società e del nuovo uomo.
Nonostante le sue connotazioni totalizzanti e fortemente utopiche, l'ideologia, una volta al potere, non esita a mutare alcuni dei suoi contenuti a favore della propria efficacia come strumento di dominio. Quali allora le istituzioni e i dispositivi che si rendono necessari per assicurare questo passaggio dell'ideologia dalla potenza all'atto? Un ruolo determinante viene da tutti accordato alla polizia segreta, la quale espleta, tramite processi arbitrari e confessioni imposte, una funzione più terroristica che preventiva o repressiva. Ma il vero contributo originale dei fenomeni totalitari, il loro 'capolavoro di distruzione' è ravvisato nell'universo concentrazionario, programmato non come istituzione penale, ma come luogo di sospensione di ogni forma di diritto. Scopo dei campi, pertanto, non è né di prevenire né di punire crimini perpetrati nei confronti del regime, ma piuttosto quello di procedere al definitivo sradicamento del tessuto sociale, ottenuto tramite pratiche - dalla deportazione in massa allo spettacolo dell'insignificanza della vita e della morte altrui - volte all'annientamento dell'identità psicofisica individuale.
Se la vocazione monistica del totalitarismo corrisponde non soltanto alla volontà di tale regime di annettere la società, ma anche e soprattutto al desiderio di cambiare la totalità, in una maniera che non ha precedenti nella storia, si capisce allora perché la rivoluzione che tali regimi pretendono di attuare debba essere permanente. Se l'obbiettivo è rivoluzionare l'esistente, esso comporta uno sforzo immane verso un fine temporale costantemente differito. Ne consegue il primato del partito unico sull'apparato statale, rivendicato in nome della legittimazione ricevuta dalle masse e del suo ruolo di interprete dell'ideologia e delle leggi storiche. Per questi motivi, il regime totalitario fa convivere una preoccupazione formalistica per il rispetto del diritto positivo con una sostanziale negligenza della legge scritta. L'edificazione del 'nuovo ordine' implica pertanto la perpetuazione del disordine, nel quale si perde la nozione stessa di diritto. Le istanze monistiche di dominio totale si volgono in primo luogo contro ogni forma di pluralismo sociale. Ecco perché la società di massa si pone come fase di passaggio indispensabile al progetto totalitario.
Questa società sarebbe infatti caratterizzata, grazie alla quasi totale scomparsa di gruppi sociali intermedi, da relazioni dirette tra élite e non élite che producono una grande disponibilità alla mobilitazione dall'alto (v. Kornhauser, 1959). Anche quando viene fatto osservare (v. Ansart, 1985) che nella realtà il terrore totalitario raramente giunge alla completa distruzione di ogni forma di raggruppamento sociale e alla totale abolizione di differenziazioni, distinzioni e gerarchie sociali, non viene smentito uno dei capisaldi delle tipizzazioni politologiche: il venir meno della tradizionale distinzione tra Stato e società civile. Sempre infatti viene ammesso che le residuali articolazioni interne alla società sono del tutto funzionali al processo di integrazione totalitario. In questo senso rimane vero che la società livellata e aclassista corrisponde all'ideale totalitario; che per quanto il regime sia attraversato da conflitti e lotte politiche rimane radicalmente antipluralista, fermo nel tollerare come unica modalità di dinamica sociale quella che risponde all'appello della propaganda di regime. L'idea di un potere politico onnipresente, completamente assimilato alla società, pone la questione se lo sviluppo di tali sistemi non debba necessariamente culminare nel principio del capo. La questione è controversa, ma non è forse solo così, attraverso una società simbolicamente incorporata in un unico centro, il leader, che questo tipo di potere può annullare ogni forma di esistenza autonoma?

4. Ideologia al potere e ideocrazia

Dall'"ideocrazia" di Gurian (cfr., in Friedrich, 1954) alla "logocrazia" di Milosz (v., 1953), dalle "religioni secolari" di Aron (v., 1944) alle "religioni politiche" di Voegelin (v., 1938), dal "super-senso ideologico" di Arendt alla "mistica totalitaria" di Inkeles (cfr., in Friedrich, 1954), sono numerose le formule con cui si è voluto indicare che la vera novità del totalitarismo consiste nel fatto che per la prima volta nella storia un'idea, ispiratrice di un'ideologia, si è fatta prassi. Gli autori citati sono infatti all'origine di quel tipo di lettura del fenomeno totalitario caratterizzato, per una certa scienza politica, da un approccio 'essenzialistico'. Si tratta di interpretazioni molto spesso ardite, a volte persino arbitrarie, che muovono tutte da interrogativi radicali sul significato epocale delle esperienze totalitarie. Spesso contestate anche dagli storici, per comprenderle nella loro importanza bisogna tenere presente che tali letture ricercano una prospettiva generale di senso, in cui non di rado l'analisi del particolare passa in secondo piano. Se è vero però che l'indagine storica previene i rischi di un possibile 'essenzialismo', la teoria filosofica avverte i pericoli di una storia e di una politologia oggettivate all'eccesso, e risponde al bisogno di comprendere il totalitarismo anche da una prospettiva non meramente fattuale. Forse non è un caso che a tenere vivo il dibattito negli ultimi due decenni siano state soprattutto teorie elaborate da filosofi politici. Molte sono state e sono tuttora le linee interpretative: dalle visioni più deterministiche e semplificate (v. Voegelin, 1938; v. Löwith, 1949; v. Strauss, 1953), per cui date certe tendenze della nostra tradizione il totalitarismo non è che un esito necessario, a quelle più articolate e rispettose della contingenza storica.
Tuttavia tutte implicano un confronto critico tra le logiche totalitarie e quelle della modernità occidentale, con il suo tipo di razionalismo e le sue costruzioni politiche ossessionate dalla ricerca dell'unità. Il problema della continuità o discontinuità tra epoca moderna e fenomeni totalitari percorre dunque l'intero dibattito filosofico-politico, che rischia così di minimizzare le differenze tra le due ideologie totalitarie. Ma proprio qui sembra collocarsi il paradosso che ha sollecitato le domande filosofiche, quello di due regimi che, pur legittimandosi attraverso presupposti così diversi tra loro, si strutturano attraverso meccanismi e ottengono risultati che possono essere comparati. Sempre più infatti vengono messe in discussione quelle letture che distinguono nettamente tra un'ideologia, quella nazista, dai presupposti nichilistici e irrazionalistici e un'ideologia, quella comunista, dai presupposti universalistici e razionalistici (v. Aron, 1958; v. Lukács, 1954; v. Shklar, 1957). Da Hannah Arendt e Leo Strauss a Michel Foucault e Jean-François Lyotard, l'interesse si sposta verso una genealogia unitaria, chiamando in causa il modo di concepire la storia che risale a quell'illuminismo la cui rivitalizzazione, per altri pensatori, avrebbe invece costituito un antidoto al totalitarismo. Si è insomma convinti che per quanto riguarda l'Europa si possa ricostruire un percorso "che va dalle speranze gloriose dei Lumi e della fede dogmatica nell'onnipotenza della scienza al messianesimo marxista e alla 'filosofia veterinaria' nazista" (v. Poliakov, 1987).Lungo un tragitto che va da Talmon (v., 1952) a Furet (v., 1995), si succedono letture che colgono nello scenario aperto dalla Rivoluzione francese l'antefatto, teorico e pratico, delle 'rivoluzioni totalitarie'.
Sotto accusa è innanzitutto lo zelo rivoluzionario che trasforma l'azione politica in un'arma violenta, la quale non si arresta davanti al terrore pur di realizzare la Verità, Una e Assoluta. Più in generale, è una precisa costellazione della dottrina democratica, sorretta da un egualitarismo radicale e da una inconsapevole 'secolarizzazione', a essere indagata come foriera del progetto totalitario. Tra tante letture che stabiliscono disinvoltamente teoremi continuistici sono da segnalare quelle interpretazioni - tra le più discusse di recente - che si sono fatte carico di una complessità maggiore. L'opera di Claude Lefort (v., 1976 e 1981) è una di queste. Associando una rilettura critica di Hannah Arendt alla fenomenologia di Merleau-Ponty, egli si interroga, alla luce di un'indagine sulla dimensione simbolica del potere, sul legame che unisce il totalitarismo, in particolare quello sovietico, alla democrazia. In Un homme en trop (v. Lefort, 1976) in cui il dispositivo e l'ideologia del regime sovietico vengono esaminati a partire da una lettura di Solženicyn, e nella prima parte di L'invention démocratique (v. Lefort, 1981), egli formula le sue ipotesi sulla natura della società totalitaria. Il progetto che la anima è quello di "una rappresentazione senza divisione". Si impone così un modello di società che rifiuta le lacerazioni e che vuole disporre della totale conoscenza di ogni sua articolazione: "una società che si pretende trasparente a se stessa".
Sarebbe la logica democratica a condurre a questa sete di trasparenza, dovuta all'abbandono di ogni istanza legittimante esterna. Una democrazia rimane tale se la società proietta la propria identità unitaria su quello Stato che essa stessa si è data, ma che deve rappresentare simbolicamente come 'altro da sé', come un'unità trascendente esterna; rimane tale, cioè, se la società mantiene viva al proprio interno la divisione. Se invece l'unità dello Stato non viene più intesa solo simbolicamente, se il luogo del potere, che con la democrazia diventa un 'posto vuoto', viene realmente occupato, allora interviene il pericolo del totalitarismo. In primo luogo, lo Stato si confonde con la società fino a diventare 'un Partito-Stato' che pretende di incarnare il corpo del 'Popolo-Uno'. In secondo luogo, lo Stato opera un'unificazione tra i principî del potere, della legge e della conoscenza. Solženicyn è così "l'uomo di troppo" che disturba la logica di "una società senza divisione, di un Popolo-Uno, di un sapere perfettamente razionale e vero". Connessi alla volontà di realizzare la trasparenza sociale sono sia l'emergere di una nuova figura di despota, l'"Egocrate", che incarna il luogo unico del potere, della legge e del sapere, sia la rappresentazione dell'alterità come essenzialmente malvagia, da eliminare per garantire l'integrità del corpo politico.
L'idea di un sapere totale - connesso al razionalismo metafisico e storicistico - non è per Lefort l'unica componente dell'ideologia totalitaria. Perché quest'ultima passi dalla potenza all'atto, si rende necessaria una disposizione volontaristica di realizzazione dell'unità. Anche Cornelius Castoriadis (v., 1975) - assieme a Lefort padre fondatore di "Socialisme ou barbarie", la rivista che già negli anni cinquanta condusse una serrata critica all'ortodossia marxista - concorda nel definire l'essenza dell'ideologia totalitaria una "volontà rivoluzionaria di unificazione e di trasparenza sociale"; anche per lui tale ideologia è l'incontro di due vettori differenti. Da una parte, la teorizzazione della perfetta razionalità dell'accadere storico; dall'altra, la necessità di realizzare tale razionalità per mezzo della volontà attiva degli uomini. Va da sé che se la verità è una e conoscibile, non vi è alcun motivo per tollerare l'errore. Il potere pertanto deve essere totale e ogni democrazia è soltanto il segno della debolezza e fallibilità umane.
Sulla scia di queste riflessioni si situa l'interpretazione di Marcel Gauchet (v., 1976), forse uno dei tentativi più riusciti di pensare "il fenomeno che domina il nostro secolo" in connessione sia con la nascita della moderna società borghese sia con il pensiero di Marx. Il fascismo - una categoria che sta per i totalitarismi di destra - avrebbe la sua origine teorica nell'ideologia borghese, intesa come il tentativo di mascherare la divisione sociale negando la dimensione del conflitto connesso al capitale. A ciò si opporrebbe Marx ponendoci di fronte alla necessità di pensare il sociale a partire dalla sua divisione. Ma il pensiero marxiano si dimostra contraddittorio in quanto finisce per progettare nuovamente una società indivisa, omogenea, liberata dai suoi antagonismi interni. Ecco perché si può parlare di comparabilità tra fascismo e comunismo, in quanto entrambi affermano l'"identità della società con se stessa". Non solo, Gauchet giunge ad affermare che la Rivoluzione bolscevica del 1917 avrebbe liberato il potenziale totalitario dell'ideologia borghese nel progettare la realizzazione della 'società conciliata'. In sostanza, il regime sovietico fornirebbe l'esempio della possibilità del passaggio dell'idea dalla potenza all'atto. Ciò che l'ideologia borghese e la dottrina di Marx si limitavano ad affermare, "il fascismo e il comunismo pretendono che sia", segnando dunque il passaggio della società una e omogenea dal regno del puro pensiero alla realtà. E piegare la realtà a un'idea che la nega nella sua contingenza comporta una violenza straordinaria. Il totalitarismo sarebbe esattamente questo: "l'illusione fatta coercizione".
Molte delle interpretazioni filosofico-politiche del fenomeno totalitario, a partire da quella arendtiana, sono dunque propense a riconoscere che in esso giungono a incontrarsi due differenti dinamiche della tradizione moderna: la mentalità evoluzionistico-processualistica, veicolata dalle filosofie della storia della modernità, e il volontarismo soggettivistico del razionalismo metafisico (v. Ferry e Pisier-Kouchner, 1985). Tali dinamiche danno vita a un rapporto teoria-prassi che invera tragicamente un'antica aspirazione della tradizione filosofica: quelle che erano state semplici astrazioni abbandonano il regno del puro pensiero per realizzarsi appunto nella realtà totalitaria (v. Arendt, 1951 e 1953; v. Camus, 1951; v. Patocka, 1975; cfr. Kolakowski in Howe, 1983; v. Lacoue-Labarthe, 1987; v. Lacoue-Labarthe e Nancy, 1991).
Ci si inoltra così sul terreno di quelle indagini sul rapporto filosofia-totalitarismo talmente radicali da rischiare di trasformare il totalitarismo in una sorta di categoria dello spirito. Anche in questo caso l'eredità di Hannah Arendt si è dimostrata decisiva. Si è visto che per lei il totalitarismo viene anche interpretato come quell'avvenimento che mette a nudo alcune dinamiche della cultura occidentale, di cui la filosofia è una delle più emblematiche espressioni. Se si presta attenzione all'ultima sezione della sua opera del 1951, ma anche ad alcuni scritti successivi (v. Arendt, 1953), gli ideali totalitari sembrano venir presentati come un'estremizzazione parossistica di alcune idee filosofiche. Il funzionamento totalitario consisterebbe nel mettere in moto un dispositivo che manipola la realtà a tal punto da farla scomparire entro l'idea che funge da premessa indiscussa dell'ideologia totalitaria. Come se solo nell'inferno dei campi di sterminio diventasse vera quell'identità di idea e realtà su cui la metafisica non ha mai smesso di insistere. In altre parole, se la metafisica e la filosofia politica stessa si costruiscono sulla negazione della pluralità e della contingenza, come spesso ricorda la Arendt, il totalitarismo procede a sbarazzarsi di fatto di quegli aspetti del reale che non possono essere ridotti all'omogeneità del suo progetto, a quell'identità che può essere realizzata compiutamente solo nella morte. Tuttavia, la tradizione filosofica non viene mai chiamata in causa come diretta responsabile dei campi di sterminio.
La Arendt si sforza di lasciare spazio alla contingenza storica, rendendo la sua analisi più complessa di quelle letture che avevano tematizzato un rapporto diretto tra filosofia e totalitarismo. Come, ad esempio, quella di Horkheimer e Adorno (v., 1947) che vedevano nel fenomeno totalitario nazista l'esito della dialettica dell'illuminismo, il palesarsi di ciò che era implicito nella razionalità occidentale sin da Odisseo. O, ancor prima, Levinas (v., 1934), per il quale la "filosofia dell'hitlerismo" negava tanto la contingenza esistenziale della realtà umana, in nome della logica automatica dell'idea astratta, quanto la dimensione della libertà, trascendenza dell'essente verso l'alterità, in nome della brutale immanenza corporea del determinismo biologico. L'ideologia nazista sarebbe caricatura e al contempo deriva delle due correnti principali del pensiero occidentale: lo spiritualismo liberale e il materialismo. In altri casi la responsabilità del totalitarismo viene imputata all'avversione, di origine platonica, per ogni 'società aperta' e ogni mutamento da parte del dogmatismo filosofico (v. Popper, 1945). Se per Popper il programma politico di Platone, consegnato successivamente alle filosofie dialettiche e storicistiche, è qualificabile come il primo progetto totalitario, per Strauss, (v., 1953) invece il totalitarismo è la meta finale dell'oblio, da parte della filosofia, della tematica dell'ottimo Stato e della trascendenza della legge di natura. Sarebbero ancora numerose le interpretazioni da menzionare che rileggono la tradizione filosofica e il processo di secolarizzazione alla luce delle catastrofi totalitarie. Molto spesso esse finiscono per rimanere prese nella rete di quello stesso determinismo di cui avevano accusato le filosofie della storia, arroganti nei confronti del particolare. Va tuttavia precisato che in molti casi non si tratta tanto di spiegare il fenomeno totalitario, quanto di illuminare a ritroso, attraverso di esso, le zone d'ombra della nostra tradizione filosofica e politica: dalla fuga dal reale e dal mutamento all'ossessione monistica, dalla volontà di potenza alle derive nichilistiche.

5. Dall'ideologia al post-totalitarismo

Le teorie che ponevano l'accento sulla centralità dell'ideologia si sono scontrate con i cambiamenti verificatisi in Unione Sovietica a partire dalla morte di Stalin. Che senso poteva ancora avere, dopo il 'disgelo', ritenere il progetto ideologico leninista o staliniano il motore dei paesi del 'socialismo reale'? E se davvero si era verificata una necrosi di queste ideologie, a che tipo di totalitarismo si era messi di fronte? Queste, ad esempio, le domande raccolte da Castoriadis in Devant la guerre, opera in cui egli prende le distanze dalle sue precedenti posizioni che facevano del totalitarismo sovietico una 'ideocrazia'. Alla fase del totalitarismo classico sarebbe subentrata l'epoca di un nuovo totalitarismo, in cui l'ideologia non è più la fonte legittimante di ogni comportamento singolo e collettivo, ma un'appendice strumentale ostentata retoricamente e cinicamente.
Dalla volontà di realizzare la società e l'uomo nuovi si sarebbe passati a un'immagine del mondo puramente militare e costruita su meri rapporti di forza: "una società militare in cui gli eccessi del terrore hanno lasciato il posto a una semplice amministrazione della repressione". Il risultato è "la force brute pour la force brute [...] la force au service de rien", che non mira che ad accrescere se stessa. Insomma, non solo non ci sarebbe più un'ideologia al potere, ma non ci sarebbe più nessuna idea (v. Castoriadis, 1981). Nel descrivere il passaggio dall''ideocrazia' alla 'statocrazia', Castoriadis tiene conto solo in parte del dibattito su totalitarismo e post-totalitarismo avviatosi nel corso degli anni settanta tra i dissidenti dell'Est europeo (cfr. Rupnik in Hermet e altri, 1984). Questi erano impegnati, dopo le disillusioni politiche della fine degli anni sessanta, a rilanciare il concetto modificandolo notevolmente rispetto alle formulazioni della scienza politica americana. Il nuovo approccio più teorico-filosofico al problema prende sempre spunto da 1984 di Orwell - letto non come opera letteraria, ma come analisi realistica e circostanziata dei regimi comunisti - e dall'idea secondo cui un potere totalitario resta in vita solo se riesce a ricreare un linguaggio che si faccia puro strumento dell'ideologia. La convinzione che solo attraverso una 'neolingua' si possa impedire un 'pensiero eretico' è ripresa dalla dissidenza sovietica e centroeuropea.
Cessata la liquidazione fisica di interi strati della popolazione a opera del terrore ideologico si sarebbe passati alla prevenzione di ogni giudizio indipendente dalla verità ufficiale. Totalitario rimane tuttavia anche quel tipo di potere che trasformando la memoria storica e manipolando le informazioni distrugge il criterio stesso della verità (cfr. Kolakowski in Howe, 1983; v. Simecka, 1979). In questo senso tanto il totalitarismo terroristico staliniano quanto il cosiddetto post-totalitarismo degli anni del disgelo e dell'apertura perseguirebbero la 'menzogna istituzionalizzata', ben consapevoli del fatto che non esiste coscienza senza memoria. Tuttavia, se durante la fase dell'ideocrazia si richiedeva un'adesione entusiasta a tale menzogna, nell'epoca della cosiddetta "ideologia fredda" (v. Papaioannou, 1967) ci si accontenta della 'menzogna esistenziale' (v. Havel, 1980), un insieme di comportamenti esteriori volti a testimoniare il consenso verso il regime. Che il sistema comunista abbia allentato la morsa della violenza e del terrore e si esprima con forme di repressione meno visibili, puntando su meccanismi di controllo sociale (v. Zinoviev, 1983), non significa per molti autori che esso abbia abdicato alla sua natura totalitaria. Non solo perché i vecchi metodi sono sempre in agguato (v. Heller e altri, 1984), ma anche perché la perdita di autonomia da parte del singolo si è fatta forse ancora più totale. Un'autonomia per annullare la quale non è indispensabile la minaccia del terrore arbitrario, ma è sufficiente l'interruzione del flusso di informazioni riguardanti il passato, il presente e soprattutto il mondo esterno (v. Mlynar, 1983). Nonostante l'ideologia abbia frantumato i propri contenuti, essa rimane anche nella fase post-totalitaria l'unico mezzo di comunicazione tra i cittadini e il potere, lo strumento privilegiato per produrre integrazione, conformismo e omogeneità politica (v. Simecka, 1979). Ma che si parli di totalitarismo o post-totalitarismo, di ideocrazia o post-ideologia, tutta la letteratura dissidente è d'accordo nel registrare un forte mutamento nella struttura del potere.
Perde rilievo la figura dell''Egocrate' e assume importanza una Nomenklatura interessata soprattutto ad assicurarsi i posti chiave dell'amministrazione; la violenza irrazionale e terroristica dell'età staliniana lascia il posto a metodi polizieschi che formalmente rispettano il regolamento in vigore; le 'grandi confessioni' estorte nel nome della Verità cedono il passo a 'piccoli interrogatori' dal più modesto obbiettivo di creare complicità con il sistema. Grazie anche all'irrompere della società dei consumi, il cittadino ha stipulato un 'nuovo contratto' con il regime; rinunciando a buona parte della libertà personale e in toto a quella politica, egli ottiene in cambio una maggiore sicurezza e un miglioramento della qualità della vita. Sia che si ponesse l'accento sulla crisi di legittimità di un impero ideocratico totalitario, di cui sarebbero segno la rinata società civile e l'economia di mercato ungherese, sia che invece si ritenesse il sistema sovietico, assieme ai suoi satelliti, soltanto la continuazione del 'vecchio' totalitarismo con altri mezzi, ciò che da tutte le parti veniva ribadito con fermezza, prima del 1989, era la necessità di trovare, tra le crepe più o meno profonde del regime, lo spazio necessario per la dissidenza e l'opposizione. A queste riflessioni sulle possibilità di resistenza politica e morale nei paesi che parevano allentare la rete del totalitarismo facevano eco, in Occidente, i moniti circa le potenziali minacce totalitarie di società che trionfalmente si proclamano democratiche.
Il pericolo di un totalitarismo silenzioso, senza terrore e violenze eclatanti, senza un'ideologia ufficializzata e propagandata, è insito in ogni norma e istituzione edificata in nome della razionalizzazione dell'ordine; è implicito, secondo Foucault, nei diversi 'micropoteri' e nelle pratiche di disciplinamento che minacciano di continuo una libertà costitutivamente anarchica. È nascosto, a giudizio di Lyotard, in ogni progetto globalizzante che intende sopprimere le differenze, in ogni egemonia dell'universale eretta sulla negazione del singolare. Un totalitarismo, quello paventato dai post-strutturalisti francesi, il cui concetto non ha certo un grande valore euristico, così come a volte può sembrare incurante della differenza che passa tra una vita affaccendata tra lavoro e consumo e una morte desolata all'interno di un lager. Può servire però a non far abbassare la guardia, a ricordare che se gli eventi totalitari non sono stati il male necessario che l'Occidente ha portato in seno per due millenni (v. Esposito, 1993), non sono nemmeno riducibili a quella parentesi storica che appartiene esclusivamente al passato e che da più parti ci viene chiesto di dimenticare.
(V. anche Autoritarismo; Comunismo; Fascismo; Nazionalsocialismo; Società di massa; Stalinismo).

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