PEGGIO DI UN COMPLOTTO

 

PEGGIO DI UN COMPLOTTO di Leonardo Mazzei

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Covid e Grande Reset viaggiano in coppia, proprio come i carabinieri. Senza il virus, il violento piano di ristrutturazione (e distruzione) sociale della cupola oligarchica sarebbe evidentemente improponibile. Perlomeno oggi, quantomeno nei termini desiderati da lorsignori. Questo è un fatto.

Con il virus ciò che era improponibile diventa all’improvviso altamente probabile, per molti addirittura inevitabile, per i non pochi ultras del “nulla sarà come prima” addirittura auspicabile. E questo è un altro fatto.

Che ad oggi i più vedano solo il virus e non ancora l’orribile disegno sociale che gli si staglia dietro è un terzo fatto, che certo non possiamo negare. Questo è anzi lo snodo decisivo, perché l’epidemia svolge la duplice funzione di cortina fumogena e di nave rompighiaccio, quella che deve aprirsi la strada verso il “nuovo mondo” distopico del Grande Reset.

Secondo alcuni questi tre fatti sarebbero la prova di un vero e proprio complotto. Una cospirazione che avrebbe avuto come prima mossa la deliberata diffusione del virus stesso. Possiamo escludere a priori una tale ipotesi? Assolutamente no. Chi scrive è lontano mille miglia dalla forma mentis del complottista, tuttavia anche i complotti esistono e – pur non spiegandola nei suoi flussi profondi – possono talvolta contribuire a fare la storia.

Ma qui avanziamo un’altra ipotesi, per molti aspetti peggiore, di sicuro più inquietante di quella del “semplice” complotto. Un’ipotesi che il complotto non lo esclude del tutto, ma che da esso è comunque indipendente.

“Ma è possibile che tutto il mondo sia caduto nella trappola?”

Quando contestiamo la narrazione dominante sul Covid, i nostri critici ci fanno subito una domanda: “ma è possibile che tutto il mondo sia caduto nella trappola che voi dite?”. A questa domanda non si può né si deve sfuggire. E’ vero che il nostro Paese brilla come caposcuola della linea emergenzialista e della chiusura facile, ma sbaglieremmo a non vedere come l’Italia sia tutt’altro che sola su questa impostazione. Né si può pensare che l’obiettivo di un disegno così complesso, come quello che si sta delineando, possa essere soltanto l’Italia.

Ci sono semmai due precisazioni da fare. La prima è che non si dovrebbe parlare di “tutto il mondo”, bensì fondamentalmente dell’occidente, perché è qui che la narrazione pandemica si è sviluppata fino al parossismo. La seconda è che anche nell’occidente il pensiero unico mono-pandemico ha trovato alcuni punti di resistenza, dalla Svezia fino all’America trumpista.

Ciò detto, la domanda che ci viene fatta mantiene comunque il suo senso, perché sembrerebbe davvero difficile da spiegare un atteggiamento così simile in tanti diversissimi paesi: possibile che tutti abbiano accolto all’unisono gli input derivanti dal disegno di una ristrettissima congrega? Possibile che siano tutti ridotti al ruolo o di complici o di burattini?

Purtroppo è possibile, questa è almeno la mia modestissima convinzione. Ma è possibile solo perché la situazione era già gravida del mostro che si vorrebbe ora partorire.

Per provare a capirlo dobbiamo lasciare da parte ogni spiegazione uni-lineare, dall’alto verso il basso, dedicandoci invece ad un tentativo di comprensione multi-livello. E’ chiaro che c’è un “alto” che ha un suo progetto, così come c’è un “basso” che a quel disegno è chiamato non solo a piegarsi, ma perfino ad aderire. Ma in mezzo ci sono altre cose, tutt’altro che secondarie. E solo analizzando nello specifico tutti questi livelli, e più ancora le loro interconnessioni, possiamo forse spiegarci ciò che sta avvenendo.

Alla fine scopriremo tre cose: 1) che il disegno della cupola oligarchica c’è eccome, ma di questo non dubitavamo proprio; 2) che esso si dipana attraverso una serie di semi-automatismi propri di ciascun livello, connessi quanto relativamente indipendenti tra di loro; 3) che la forza (dunque la pericolosità) del disegno oligarchico non sta nel semplice dominio, quanto nel suo collocarsi dentro ad un più complessivo sviluppo sistemico.

Senza nessuna pretesa di completezza, cinque mi sembrano i livelli decisivi, quelli che qui prenderemo in esame: 1) la cupola oligarchica, 2) i media, 3) la scienza, 4) la politica, 5) la società.

Ma proprio perché vogliamo sfuggire da un’esposizione uni-lineare, non partiremo né dall’alto né dal basso, bensì da quel che sta in mezzo, cominciando da una tessera decisiva del puzzle: i media.

  1. L’orgia di sangue dei media

Sappiamo quanto i media siano importanti. Non per quanto informano, ma per quanto riescono a disinformare. Proprio per questa loro specifica potenza di fuoco i media non hanno mai un padrone purchessia. Essi – parliamo qui evidentemente di quelli che contano – hanno sempre un padrone che sta nella ristrettissima cerchia della cupola dominante, meglio se pure membro della cosca di volta in volta vincente.

Ma i media hanno anche una loro specifica legge di funzionamento. Si tratta della legge delle 3S: sangue, sesso, sport. Tutte e tre queste “esse” hanno il loro peso nel tenere la gente incollata al video, ma la prima “esse”, quella di “sangue”, è di gran lunga la più importante. Allenati dalla rincorsa di ogni particolare sanguinolento della cronaca nera, avvezzi a trasformare ogni problema in catastrofe, figuriamoci se i media potevano fallire sull’epidemia!

Dal loro punto di vista, e qui prescindendo da ogni input arrivatogli dall’alto, il virus è stato una vera manna. Pagine e pagine, ma più ancora ore ed intere giornate tv, riempite senza sforzo alcuno e con il massimo dell’audience. Perché a tale scopo basta un solo ingrediente, la paura. E con un solo ingrediente, purché sia quello giusto, anche il cuoco più sciatto può sempre fare la sua figura. Dunque, che l’epidemia duri, che nessuno osi abbassare i toni, che l’allarme sia sempre vivo, che per ogni notizia buona ce ne siano cento cattive, che nessuno osi respirare. Paura, paura, paura. Sangue, sangue, sangue. Del resto, Covid a parte, non è forse questo lo standard di mille programmi televisivi dedicati all’ultimo omicidio in grado di attrarre schiere di telespettatori?

Di emergenzialismo si nutre anzitutto la politica, ma l’emergenzialismo nasce prima nelle redazioni che nei palazzi istituzionali. E vi nasce in automatico, da lì riversandosi verso il grande pubblico, per meccanismi propri legati all’audience, al business, al potere della funzione svolta. Ovvio come tali meccanismi risultino ancor meglio oliati se tra media e politica si instaura il rapporto osmotico che ben conosciamo.

  1. La politica debole in cerca di puntelli

Osmosi è in effetti la parola giusta. Ma nel nostro mondo, che non è quello delle dittature classiche del passato, il flusso destinato a creare e consolidare le “verità” sistemiche non va generalmente dalla politica ai media, bensì in senso inverso. Ne consegue che i moderni padroni del vapore – ciò che qui chiamiamo cupola oligarchica – non controllano i media tramite la politica, ma controllano la politica grazie al possesso dei media.

Naturalmente questa non è una novità dell’oggi. Tuttavia, se adesso questo meccanismo è particolarmente efficiente, ciò è dovuto non solo alla concentrazione monopolistica dei media (che pure c’è), ma soprattutto – ecco la vera novità dei tempi nostri – alla straordinaria debolezza della politica partorita da un quarantennio di neoliberismo dispiegato.

Questa debolezza è particolarmente evidente in un Paese disgraziato come il nostro, ma sbaglieremmo a pensare che essa sia confinata solo a sud delle Alpi. In realtà, ciò che chiamiamo politica – partiti, parlamenti, governi ai vari livelli, eccetera – si è indebolito in tutto l’occidente. Guardando all’Europa, si pensi per esempio alle pittoresche figure di alcuni degli ultimi presidenti francesi con il relativo sconquasso dei partiti storici ad essi collegati, ma pure ad una classe dirigente inglese che ha messo anni a trovare il bandolo della matassa della Brexit. Se poi passiamo l’Atlantico, lo spettacolo risulta ancora più evidente. Nell’ultima campagna elettorale americana non è stato il potere politico a censurare i media, bensì i media – nella particolarissima ma potentissima forma dei cosiddetti “social media” – a censurare ripetutamente Donald Trump, cioè la massima espressione della politica nazionale e non solo.

Ce n’è abbastanza per capire come funziona il potere oggi. In Italia, Paese paradigmatico di questo modello, le cose non potrebbero essere più chiare. Dopo che i partiti storici sono caduti, uno dopo l’altro, nella decisiva fase di passaggio alla seconda repubblica (1992-94), quel che ne è rimasto è andato indebolendosi sempre più nei decenni successivi. Qui il discorso si farebbe vasto ed interessante, ma non è il caso di dilungarsi in questa sede. Basta che ci ricordiamo dei tanti governi “tecnici” o similari, di un parlamento ballerino e trasformista come quello attuale, di un presidente del consiglio pescato non si sa bene dove, di un’opposizione senza idee e senza proposte che aspira a diventare maggioranza solo per continuare a fare le stesse cose di chi governa oggi.

Ma le “stesse cose” di cui sopra sono esattamente quelle che qualcuno – la cupola oligarchica che ha il potere reale – vuole. E che le impone, molto spesso, attraverso la potenza dei media. Quegli stessi media che hanno poi la decisiva funzione di promuovere in una determinata fase il personaggio x, a danno magari del personaggio y, nel frattempo divenuto inutile od inadatto allo scopo. Sta di fatto che queste promozioni e bocciature mediatiche, che riescono frequentemente (anche se non sempre) a determinare gli stessi risultati elettorali – sono in genere senza appello.

Quel che risulta da questo quadro è chiaro: una politica debole, come l’attuale, non può andare davvero controcorrente rispetto ai media. Tantomeno può farlo su un tema che è diventato pervasivo, come quello della sicurezza. Figuriamoci su quella forma particolare, e particolarmente penetrante, che è la sicurezza sanitaria, vera o presunta che sia.

Siamo così tornati al Covid. Alla politica, cioè al governo ma non solo, non è parso vero di poter blindare la situazione con tanto di “stato d’emergenza”, lockdown, Dpcm, eccetera. Così facendo una politica in crisi, peraltro la stessa che ha devastato la sanità nazionale negli ultimi decenni, si è potuta presentare come “buona”, come attenta alla salute dei cittadini, come non più responsabile del disastro economico che il Paese vive dal 2008. Vi sembra poco? Per l’attuale politica non poteva esserci di meglio.

Da qui la piena simbiosi con il catastrofismo mediatico. L’emergenza deve infatti pur basarsi su qualcosa. E se questo qualcosa non è sufficiente allo scopo, se la sproporzione tra il male ed una “cura” che fa più danni del male stesso rischia di emergere, ecco che i media possono sempre chiudere questo iato. Basta un titolone sulle terapie intensive o sulla “variante inglese” ed il gioco è fatto. Ogni misura claustrale verrà non solo giustificata, ma pure premiata. Alla fine della fiera i risultati concreti di questo meccanismo sono chiari, basti pensare ad una nullità come il ministro Speranza, elevato dai sondaggi a politico col maggior consenso popolare del momento.

La connessione tra media e politica è dunque strettissima. Ma con il Covid la politica ha trovato un altro decisivo puntello: la scienza. Ora qui dovrebbe aprirsi il discorso su quel che è oggi la scienza. E piuttosto che di scienza, dovremmo parlare più correttamente di scientismo da un lato e di scienza-spettacolo dall’altro, ma per il 99% delle persone tutto ciò non farebbe differenza. I media hanno deciso che Burioni è uno scienziato e così dev’essere, idem per tutti gli altri. Che più terrorizzano e più stanno sul palcoscenico, che se hanno un intoppo (vedi Crisanti sui vaccini) devono subito recuperare punti raddoppiando l’allarmismo sulla terza ondata, e così via.

Ad ogni modo non ci vuol molto per capire che per la politica l’alleanza con la “scienza” è un’altra manna caduta dal cielo. Ecco perché non si sono risparmiati posti agli “scienziati” nelle decine di task force create per il Covid. Davvero tutto ciò è servito a contrastare meglio l’epidemia? Viste le contraddizioni, i litigi, i primadonnismi, ma soprattutto i pessimi risultati ottenuti, dubitarne è più che lecito. Ma quel che probabilmente non è servito a nulla a livello sanitario, è stato invece utilissimo a livello politico. Gli stessi intollerabili Dpcm, con le loro norme spesso incomprensibili oltre che assurde, sono apparsi più accettabili proprio perché sempre benedetti dal Cts (Comitato tecnico scientifico), un nome non a caso sempre sulle labbra di Conte nelle sue insopportabili comunicazioni serali agli italiani.

  1. La “scienza” oggi, ovvero il trionfo dello scientismo e la sconfitta della ragione

Della scienza in astratto non saprei dire, ma dei concreti “scienziati” che popolano il palcoscenico da mesi è fin troppo facile parlare. Anche per costoro l’epidemia è stata una manna. Certamente affermati nel loro campo, ma da sempre sconosciuti al grande pubblico, per molti di loro è arrivato l’insperato salto verso il palcoscenico televisivo. Con tutte le conseguenze del caso…

Che per seguire certe dinamiche della scienza, intesa qui come uno dei campi concreti del potere e degli interessi che gli ruotano attorno, si debba seguire anzitutto il flusso dei soldi, è cosa fin troppo nota. E tuttavia giova sempre ricordarla. Tanto più nel momento della sua sacralizzazione come fonte della verità assoluta.

Del resto ci sono molti modi di fare scienza, e soprattutto di raccontarla. Una cosa è se dico che siamo in presenza di un virus sconosciuto che sta generando un’epidemia catastrofica che farà milioni di morti; altra cosa è se affermo che siamo di fronte ad un’epidemia influenzale più grave, assimilabile magari all’Asiatica ma di certo non alla Spagnola. Alla fine i morti ci saranno comunque, ma nel secondo caso si sarà fornita una realistica cornice in cui sviluppare il ragionamento tanto sulle misure da prendere, quanto su tutto il resto. Nel primo caso invece si sarà semplicemente arato il campo per far germogliare tutte le forme possibili e immaginabili di quel catastrofismo irrazionale che si vuole imporre a tutti i costi.

Quale di questi due racconti è stato di gran lunga prevalente (diciamo al 99,9%) in questi mesi? Ecco una domanda alla quale saprebbe rispondere chiunque. Ma poteva andare diversamente? Assolutamente no, perché qualora la ragione avesse prevalso sull’irrazionalità scientista, sarebbe venuto meno non solo il palcoscenico (che per sua natura alla ragione raramente si sposa), ma pure i giganteschi interessi di quell’industria dell’emergenza che tanti soldi ha fatto in questi mesi, ma che ha soprattutto i mezzi per promuovere o bocciare questo o quell’indirizzo della ricerca scientifica.

Perché, ricordiamolo sempre ai signori della certezza scientifica, la scienza da loro idealizzata proprio non esiste, mentre esiste invece la “scienza reale”, quella che sforna sì ricerche e soluzioni a tanti problemi della vita umana, ma che non lo fa però disinteressatamente, bensì seguendo precisi obiettivi indicati dal committente. In termini marxisti, il prodotto scientifico – chiamiamolo così per intenderci – possiede al contempo tanto un valore d’uso (relativo alla sua utilità sociale), quanto un valore di scambio. Al capitalista è quest’ultimo che interessa, ma esso non potrebbe esistere ove non coesistesse al tempo stesso anche il valore d’uso.

Tutto questo è pacifico e arcinoto. E tuttavia potrebbe portarci fuori strada. Facciamo ad esempio il caso del vaccino. Possiamo negare che il vaccino possa in qualche modo contribuire a contrastare l’epidemia? Possiamo cioè negare in assoluto il suo valore d’uso? Evidentemente no. Possiamo, e con mille ragioni, dubitare della sua sicurezza. Così come possiamo dubitare ragionevolmente della sua sensatezza, visto che avrà forse un’efficacia temporale molto limitata, o considerato comunque che l’epidemia si esaurirà probabilmente da sola in un biennio, come ci ha ricordato il 24 dicembre lo stesso presidente dell’Aifa – Agenzia italiana del farmaco – Giorgio Palù.  Ma, ci direbbe subito il vaccinista di turno, si può per questo negare che il vaccino possa avere un ruolo, magari marginale, nel salvare un certo numero di vite umane? Ecco, è a questo punto del discorso che si imporrebbe – beninteso, per entrambe le parti – il passaggio dalla tifoseria al ragionamento. Certo che il vaccino potrebbe salvare un certo numero di vite umane, ma quante altre potrebbe metterne a rischio a causa di una sperimentazione del tutto insufficiente? Vale davvero la pena adottare una “soluzione” forse peggiore del male?

Ora, che una simile discussione non possa trovare una sponda riflessiva nei potentati di Big Pharma è fin troppo ovvio. E che la politica segua il mondo del business non è certo una novità. Ma se la scienza fosse quella che si vorrebbe far credere, ci si dovrebbe allora aspettare qualcosa di diverso. Ma quel qualcosa di diverso – il ragionamento, il dubbio, il confronto tra diverse opinioni e possibilità – proprio  non c’è. E se non c’è una ragione ci sarà. E la ragione è che la “scienza reale” del nostro tempo è solo uno dei campi in cui si esercita il potere dei dominanti. Un campo fondamentale, non solo per ciò che produce in termini concreti, ma perché la cosiddetta “verità scientifica” è rimasta l’ultima religione di legittimazione dell’attuale sistema di dominio.

Ecco perché il vaccino – ma questo è solo un esempio – ci viene presentato non tanto come “utile”, quanto soprattutto come sacro. E chi nega il sacro è un profanatore sacrilego. Uno col quale non si discute, uno semplicemente da ostracizzare. Un negazionistaaaaa!

Quanto sia comoda alla cupola oligarchica una scienza del genere lo si può ben capire. Ma lo stesso discorso vale per i media, che possono così dilettarsi nella caccia all’untore. Altrettanto comodo pure per la politica, che può in questo modo cancellare le sue enormi responsabilità nel campo sanitario, facendosi ora paladina dell’arrivo e della rapida distribuzione del miracoloso vaccino. Le immagini sul primo furgone della Pfizer che ha valicato il Brennero nel giorno di Natale, scortato dalle forze di polizia come se contenesse i lingotti d’oro di Bankitalia, parlano da sole. Questo vaccino non è un semplice farmaco, è il simbolo di un nuovo potere che si va costituendo grazie al Covid.

In quel potere la “scienza” – questa “scienza” – avrà (ed ha già) un bel posto a tavola. Poteva la “scienza reale” del nostro tempo sottrarsi a questo invito al banchetto dei vincitori? Solo un ingenuo potrebbe rispondere di sì.

  1. La (non) società del distanziamento (a)sociale

Esaminato, sia pure sommariamente, quel che sta in mezzo (i media, la politica, la scienza), è ora il momento di occuparci della base della piramide, cioè della società. Ovvio come parlare indistintamente della società nel suo insieme si presti a diversi rilievi, visto che la società è fatta di classi, ceti e gruppi sociali. Qui non affronteremo però il tema della spaccatura sociale – andando con l’accetta, quella tra “garantiti” e “non garantiti” – prodotta dalla criminale gestione sistemica dell’epidemia. Dal punto di vista dell’azione politica, questo è in realtà il tema dei temi. Ma, avendone già parlato in tanti articoli, diamo qui per scontata (almeno all’ingrosso) la consapevolezza di ciò che sta accadendo su quel piano. Scopo del presente articolo è invece quello di provare a capire le ragioni della scarsa resistenza che sta trovando per ora – sottolineiamo il per ora – il disegno di profonda ristrutturazione sociale portato avanti dalla cupola oligarchica. Ed è su questo che ci vogliamo concentrare.

Ripartiamo allora dalla già ricordata domanda che ci viene rivolta ogni volta che contestiamo la narrazione ufficiale sul Covid: “è possibile che tutto il mondo sia caduto nella trappola che voi dite?”. Abbiamo già visto come tutto ciò sia non solo possibile, ma assolutamente conforme alle concrete modalità di funzionamento dei media, della politica e della scienza. Ma, parlando della società, la domanda dovrebbe essere così riformulata: “è possibile che tutte le persone siano cadute nella trappola che voi dite?”. Ora, se dire “tutte” sarebbe assolutamente inaccettabile – molti nel mondo si stanno ribellando sia in forma collettiva che individuale, e questo inizio di ribellione ha un valore inestimabile – quel che non si può negare è che, nonostante le sue palesi incongruenze, una larga maggioranza della popolazione ha realmente accettato la narrazione dominante.

Di fronte al bombardamento mediatico h24, davanti ad una situazione assolutamente inedita come l’attuale, tutto questo non deve stupire. In certi passaggi della storia la verità ha bisogno di lotte, di tempo, e generalmente anche di sacrifici e talvolta di martiri, per iniziare a farsi strada.

Sbaglieremmo però a limitarci a queste, pur sacrosante, considerazioni di fondo. Parlando dell’occidente, la mia impressione è che la società attuale fosse in qualche modo già pronta al salto nel buio che ora gli viene proposto. E questo per almeno tre motivi.

Il primo motivo è che l’emergenzialismo, sempre promosso dai dominanti, è stato largamente assorbito da ampi strati sociali. Chi scrive se ne è già occupato in passato riguardo alla cosiddetta – quanto a mio parere nella sostanza inesistente – “emergenza climatica“. Ma, a parte le trascurabili opinioni del sottoscritto, nessuno potrà negare come da molti anni ormai, a fronte delle più disparate problematiche, il messaggio dominante sia sempre di tipo catastrofico. Se, nelle stesse condizioni, un tempo i governanti tendevano generalmente a tranquillizzare, oggi fanno esattamente l’opposto. Ci sarà pure un perché. E’ chiaro come l’emergenzialismo sia una vincente tecnica di governo, tanto più se sposato, come sempre avviene, con il suo degno compare, quel “securitarismo” che la destra coniuga in maniera rozza e volgare, ma che il blocco sistemico dominante (sempre culturalmente di “sinistra”, come ci avrebbe ricordato Costanzo Preve) declina invece in maniera ben più subdola ed astuta, come l’ultima variante sanitaria ci dimostra.

Il secondo motivo sta nella progressiva affermazione di un’innaturale rapporto con la morte. Il fatto è che, di securitarismo in securitarismo, la nostra società ha sviluppato l’irrealistica idea della sicurezza assoluta. Uno degli effetti paradossali di questa idea è che, mentre ad esempio gli omicidi calano di anno in anno, le notizie su quegli stessi crimini (e dunque il relativo allarme sociale che ne deriva) seguono la traiettoria inversa. Ora, è chiaro che nessuno vorrebbe morire assassinato, ma neanche di Covid o di incidente stradale. E neppure di tumore od infarto, che pure restano le fini di gran lunga più probabili per ciascuno di noi, ma che proprio per questo non fanno notizia. Il governo che si impegnasse seriamente a ridurre le cause dei tumori e delle malattie cardiovascolari, innanzitutto abbattendo le principali forme di inquinamento, non ne trarrebbe gran beneficio in termini di consenso. Mentre, al contrario, l’ossessiva insistenza sulla sicurezza in ogni ambito della vita sociale paga, quantomeno in termini elettorali.

E’ pazzesco, ma sembra quasi che per molti ci volesse il Covid a ricordare che la vita ha una fine. Molte sono probabilmente le cause di questo rapporto malato con la morte, ma certamente non è difficile indicarne almeno due. In primo luogo c’è la perdita di memoria. Se la vita viene intesa come eterno presente – e questa è la spinta prevalente che viene da un pensiero dominante teso a cancellare ogni progettualità – è chiaro come l’idea della morte possa tendere ad uscire dall’orizzonte dell’essere umano. Ma c’è un secondo fatto: l’idea dell’immortalità, intesa come obiettivo oggi raggiungibile attraverso la scienza e la tecnica, se da un lato appartiene alle follie transumaniste di ristrette oligarchie, dall’altro solletica pure l’inconscio di ognuno. Detto en passant è questa una china assai pericolosa, una tendenza che solo la razionalità filosofica potrà contrastare.

Se la coppia emergenzialismo/securitarismo ed il mutato rapporto con la morte, frutto anche della crisi delle religioni, spiegano molto, c’è però un terzo motivo per cui la nostra società era pronta ad accogliere la pessima novella di un mondo ancor peggiore. Questo terzo motivo si chiama individualismo. Ora, nessuno vorrà dubitare come l’individualismo abbia avuto modo di potenziarsi al cubo grazie al dominio del pensiero neoliberista. “La società non esiste: esistono solo individui, uomini, donne e famiglie“, era questa la frase preferita da Margaret Thatcher, che del neoliberismo è stata la vera capofila politica nei decisivi anni ottanta del secolo scorso. Come poteva opporsi al tremendo concetto chiave del “distanziamento sociale” una società già ampiamente devastata da una visione come questa? Credo che quando gli storici si occuperanno a freddo dell’attuale vicenda avranno molto da riflettere su questa formula, preferita non a caso a quella più asettica di “distanziamento fisico”.

Nella lingua italiana, distanziamento sociale vuol dire infatti solo una cosa: distanza, in questo caso da mantenere (ci mancherebbe!), tra ricchi e poveri. Che a “sinistra” si sia potuto accettare, peraltro senza fiatare, una formula del genere ci parla molto sia della “sinistra” sia del tempo maledetto che viviamo.

Ma tiriamo le somme e non divaghiamo troppo. Se quanto scritto finora ha un senso, la conclusione è semplice: anche la società, pur nelle sue tante contraddizioni, era nel suo insieme pronta al signorsì. Più esattamente, la maggioranza delle persone che la compongono erano già pronte a: 1) scattare sull’attenti al primo squillo di tromba del catastrofismo pandemico, 2) rinunciare a vivere in nome di una vita purchessia, 3) accettare il distanziamento (a)sociale come norma di un futuro che qualcuno vorrebbe pure dipingerci come migliore.

Attenzione! Il concetto di distanziamento, sul quale tanto si insiste, ha anche un altro risvolto. Esso allude infatti anche ad un’altra distanza da mantenere, meglio da dilatare blindandola: quella tra potere e cittadini. Questa distanza non è solo quella, classica ed arcinota, tra governanti e governati, ma pure quella meno acuta ma più diffusa che ognuno può riscontrare nella vita di tutti i giorni. Le banche, i luoghi di cura, i comuni, tutti gli altri uffici pubblici, sono diventati come delle fortezze, dalle quali il cittadino deve essere tenuto il più lontano possibile.

Domanda retorica: era davvero inevitabile tutto ciò? Ai gonzi che lo credono lasciamoglielo credere, ma chi ha un po’ di sale in zucca sa perfettamente che non è così, che è stata anche questa una scelta simbolica ben precisa. Una scelta con la quale si è detto: cari signori, un tempo avevate qualche modesto diritto; bene, sappiate che adesso quel tempo è finito. La (non) società del distanziamento (a)sociale è pronta ad accogliervi. In essa la contraddizione tra popolo e potere, tra piazza e palazzo è risolta: la piazza è stata infatti abolita, resta solo il palazzo, ma sappiate che si occupa tanto di voi…

  1. La cupola oligarchica gioca le sue carte

Ma se il “basso” (la società) è così ricettivo, se chi sta in mezzo (media, politica, scienza) è complice interessato, per quale motivo chi sta in alto – quella che abbiamo definito come cupola oligarchica – dovrebbe farsi troppi scrupoli a giocare le sue carte?

E difatti non se li fa proprio. La parola d’ordine chiave, quella per cui “nulla deve tornare come prima”, è stata diffusa a piene mani già nell’ora zero del Covid. Così abbiamo scritto a tal proposito in un nostro precedente articolo:

«“Nulla sarà come prima”. Questa apodittica sentenza apparve sulla stampa fin dai primi giorni dell’epidemia. Come poteva giustificarla un virus del quale si sapeva in fondo assai poco? Che forse era la prima pandemia influenzale affrontata dall’umanità? Che forse dopo quelle conosciute nel Novecento nulla è stato più come prima? Suvvia, siamo seri. Una simile affermazione, peraltro ripetuta all’unisono da tutti i media mainstream, ci parla piuttosto di un messaggio pesato e pensato dalla cupola oligarchica che ci vuole schiavi. E che con il Covid punta allo scacco matto nei confronti dell’Homo sapiens».

Certo, queste nostre conclusioni potranno sembrare estreme e discutibili, ma il “nulla sarà come prima” rimane un tema irrisolto quanto inquietante, un punto inaggirabile sul quale tutti dovrebbero riflettere almeno un po’, specie chi ancora crede all’edificante narrazione ufficiale. Vedremo se mai avverrà.

Ma davvero possono esserci ancora dei dubbi sul fatto che la cupola oligarchica abbia un suo preciso progetto? Questo disegno ha ormai preso il nome di Grande Reset, titolo del libro di Klaus Schwab e Thierry Malleret, ma pure del prossimo Forum economico mondiale di Davos e della copertina di ottobre di Time. Quel che è certo è che qui niente è segreto: “nulla deve tornare come prima”. Come volevasi dimostrare. Uomini e donne della cupola oligarchica, sempre spalleggiati dai media mainstream, ce lo ricordano di continuo. Solo i ciechi, e ancor di più chi ha deciso di esserlo per non rimettere in discussione i propri schemi mentali, possono non vederlo. Auguri!

Abbiamo ricordato chi ci sia dietro al Grande Reset, giusto perché sia chiara la dimensione globale di questo progetto. Ma per capire di cosa stiamo parlando basta concentrarsi su quel che si sta preparando nelle cucine brussellesi dell’Ue e più specificatamente in Italia.

A tale proposito è estremamente istruttiva la lettura del Recovery Plan, il documento (detto anche “Piano nazionale di ripresa e resilienza” – Pnrr) elaborato dal governo Conte. Adesso le beghe interne alla maggioranza parlamentare potrebbero portare alla parziale riscrittura di quel testo, ma nessuno tra i contendenti ne mette in discussione gli obiettivi di fondo. Anche perché la mitica “Europa” (più modestamente l’Ue) non lo consentirebbe.

Ma qual è il succo di questo piano? A fronte di una crisi catastrofica, che si è innestata su quella (mai risolta) iniziata nel 2008, quali sono le risposte chiave che dovrebbero appunto favorire la ripresa? Secondo gli autori di questo documento, necessariamente in linea con i loro controllori di stanza nella capitale belga, queste risposte viaggerebbero su quattro linee strategiche, la prima delle quali – quella più importante, cui tutte le altre in qualche modo si raccordano – sarebbe la cosiddetta “modernizzazione” del Paese.

Non è questa la sede per un esame approfondito di quel corposo documento, ma quel che è importante cogliere è che laddove si parla di “modernizzazione” ciò che si deve intendere è in realtà “digitalizzazione”. Ora, siccome la digitalizzazione è in atto da decenni e non è dunque una novità dell’oggi, è chiaro come qui si lavori ad un salto di qualità accelerato e senza precedenti verso la “nuova società” tanto agognata dai dominanti. Sta di fatto che le parole “digitale/digitalizzazione” appaiono nel testo ben 175 volte, un’ossessione che si commenta da sola, specie se consideriamo che la parola “innovazione”, con la quale si intende sostanzialmente la stessa cosa, compare 112 volte.

Ma, ovviamente, oltre alle parole bisogna contare pure i soldi del Piano. Bene, su un totale di 196 miliardi di euro, ben 48,7 (pari al 24,8%) sono destinati alla digitalizzazione/innovazione, secondo capitolo di spesa dopo la cosiddetta “Rivoluzione verde e transizione ecologica”. Ma, attenzione, queste cifre sono in realtà ingannevoli, perché il tema ossessivo della digitalizzazione (o se preferite della “quarta rivoluzione industriale”) riappare in tutti gli altri capitoli. Dall’istruzione (19,2 miliardi), dove evidentemente non si intende certo mollare l’obbrobrio della didattica a distanza, alla pittoresca “manutenzione stradale 4.0”!

Ma il caso più illuminante è quello della sanità, la cui modesta dotazione (9 miliardi) è tutta destinata a due precisi campi di intervento: 1) assistenza di prossimità e telemedicina (4,8 miliardi) e 2) innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria (4,2 miliardi). Insomma, come nella scuola, come per lo smart working, anche per la sanità il modello è quello che punta ad istituzionalizzare quel che grazie al Covid già si sta facendo adesso: la “cura” a distanza.

Come ci dicono questi pochi dati, la cupola oligarchica non produce solo parole, ma anche fatti. E sono fatti che si collocano tutti sulla linea del sig. Schawb e del mondo di paperoni che rappresenta. Chi, come noi, si batte da anni per l’uscita dalla gabbia europea non può limitarsi oggi al significato economico e finanziario del Recovery Fund. Assieme alla denuncia di questi aspetti, e di quelli relativi all’ulteriore restrizione della nostra sovranità – azione che conduciamo fin da quando questo progetto ha visto la luce (leggi qui, qui e qui) -,  occorre oggi un’opposizione altrettanto forte ai contenuti del Pnrr, al mondo distopico verso cui vuol contribuire a condurci.

Per realizzarlo, lorsignori sono disponibili anche a veder crollare pesantemente il Pil per un certo periodo di tempo. Intanto, il nucleo forte (la cosca vincente) dell’oligarchia dominante sta guadagnando alla grande con l’epidemia ed a dispetto del tracollo dell’economia reale. In secondo luogo, i loro obiettivi strategici, che attengono al potere e non solo al denaro, guardano più avanti, al medio e al lungo periodo. Insomma, la “distruzione creativa” tipica del capitalismo è in atto, ma ha bisogno di tempo. E stavolta ha bisogno di distruggere ben più del solito. Ecco spiegato così il costante riferimento alla guerra dei portavoce della cupola oligarchica.

Per costoro (così è scritto nel loro libro-Bibbia) il Covid è un’opportunità da non lasciarsi sfuggire. Da qui il loro augurio (mascherato da previsione) che il peggio debba ancora venire. A loro va bene così. Mentre il pesce grosso mangerà quelli piccoli, milioni di aziende scompariranno con i loro lavoratori, ma se lo saranno meritato perché incapaci di adattarsi al Grande Reset!

La cupola oligarchica sta dunque giocando le sue carte in maniera scoperta. Può farlo proprio perché il terreno era pronto. Lo era per le concrete modalità di funzionamento dei media, per l’estrema debolezza della politica, per l’asservimento interessato della scienza. Lo era perché la società era pronta a rinnegare se stessa divenendo “asociale”.

Chiudiamo sul punto ad essa dedicato, chiarendo la ragione per cui abbiamo scelto di parlare di “cupola oligarchica”, anziché di semplice “oligarchia finanziaria” come abbiamo fatto in tutti questi anni ragionando sulla crisi e sul vertice assoluto che presiedeva alla sua gestione. La ragione è semplice: il mondo dell’alta finanza mantiene ovviamente la sua centralità anche in questo decisivo frangente, ma il disegno del Grande Reset non è semplicemente di tipo finanziario. Esso va oltre. E proprio per questo la cupola che sta conducendo il gioco include anche i grandi opinion maker, molti dirigenti politici (non tutti sono semplici marionette), tanti scienziati in cerca di soldi e di gloria. E’ dunque una cupola potentissima. Guai a sottovalutarla.

Alcune conclusioni

Giunti a questo punto si sarà capito per quale ragione consideriamo quel che sta avvenendo come assai peggiore di un complotto. Il complotto non c’è semplicemente perché la cupola dominante si sente così forte da poter giocare a carte scoperte, presentando il suo disumano disegno come buono, caritatevole, attento alla salute, ambientalista e ovviamente femminista.

Da questo punto di vista la lettura del Recovery Plan è illuminante, ma ricordiamo ancora una volta che il documento del governo italiano prende le mosse dalle direttive europee contenute nell’accordo definito a luglio. In esso si contano 69 volte le parole sostenibile/sostenibilità (crescita sostenibile, trasporto sostenibile, eccetera). La parola “verde” (enfatizzata addirittura come “rivoluzione verde”) la troviamo 34 volte in italiano e 23 nell’immancabile lingua inglese, accompagnata da “ecologia” (21), “clima” (33), “ambiente” (37), “economia circolare” (25). Ma anche la parola “genere” (parità e disuguaglianza di) fa la sua figura, comparendo nel testo ben 60 volte.

Questi numeri, l’uso sfrenato della terminologia del politicamente corretto di “sinistra”, ci dicono quanto avesse ragione il già citato Costanzo Preve quando ci ricordava come il capitalismo reale dei nostri giorni sia economicamente di destra, politicamente di centro, culturalmente di sinistra.

Questo mostro a tre teste, non più in grado di andare avanti senza una fase di violenta shock economy alla Milton Friedman, sta oggi tentando la mossa del cavallo. A tale scopo l’epidemia gli è venuta a fagiolo. Ma la strategia era già pronta. Ed essa confidava e confida tuttora sulla speculare impreparazione di chi a tutto ciò dovrebbe opporsi.

Ma siamo solo all’inizio. La prima battaglia – quella dell’imposizione di un generalizzato clima di terrore – l’hanno vinta loro. E vista la situazione generale non poteva andare altrimenti. Ma la guerra sarà lunga, e la violenza estrema che viene esercitata sulla stessa natura umana potrebbe ritorcersi contro a chi oggi sembra invincibile. Mille contraddizioni scoppieranno. Il dramma sociale che adesso nascondono dietro il virus verrà alla luce, così pure le verità su un’epidemia strumentalizzata à gogo.

Non bisogna dunque spaventarsi. Loro hanno l’arma della paura; la nostra lotta contro l’oppressione dovrà usare quelle della ragione, della verità, dell’umanità.

Certo, le tante manifestazioni di questi mesi sono ancora poca cosa rispetto alle dimensioni dell’attacco che viene portato. Poca cosa, sia in termini quantitativi che qualitativi. Ma il merito di chi ha iniziato a ribellarsi, nelle forme in cui oggi è possibile, è immenso. Non è che l’inizio, continuiamo a combattere.

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