Mario Monti: «Recovery e riforme il sistema dei partiti non si nasconda»
di Federico Fubini01 feb 2021
Senatore Monti, quando i partiti
faticano a trovare un consenso sulle cose da fare, rispunta sempre
l’idea di affidare il governo a figure istituzionali. Segno di
incompiutezza o di flessibilità del sistema?
«L’idea rispunta
spesso, è vero. Ma è molto raro che venga attuata — risponde Mario
Monti, commissario europeo fra il 1995 e 2004 e premier fra 2011 e il
2013 —. Se per governo istituzionale o tecnico si intende un governo
guidato da un presidente del Consiglio che non appartenga a nessuno
schieramento politico, come sarebbero Mario Draghi o Marta Cartabia tra i
nomi che oggi ricorrono, e con vocazione ad essere sostenuti da tutte
le forze parlamentari, se non sbaglio c’è un solo precedente nei 75 anni
della Repubblica?».
E cioè lei. Non ci fu anche il governo di Lamberto Dini?
«Sì
e no. Quello fu un governo di personalità istituzionali o tecniche.
Però Dini era stato ministro del Tesoro nel precedente governo di Silvio
Berlusconi. E fu quest’ultimo a chiedere al presidente della
Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, che a succedergli fosse il suo
ministro Dini. E solo il centrodestra gli concesse la fiducia. Quindi,
come lei diceva, l’idea rispunta spesso, ma si realizza molto
raramente».
Perché, secondo lei?
«Forse
influenzato dalla mia esperienza, credo che possano esserci due varianti
di governo istituzionale o tecnico. E ora non mi soffermo su questo
secondo termine, che secondo me rivela il senso di superiorità e di
inferiorità che molti politici provano simultaneamente, dovuto alla,
diciamo, sempre meno alta considerazione in cui il resto del Paese li
tiene, qualche volta erroneamente».
Dunque quali sono le due varianti?
«Una
bassa, che non aspira ad essere di grande coalizione o unità nazionale,
nella quale i leader dei partiti di maggioranza affidano a un “tecnico”
la posizione di guida perché non riescono a mettersi d’accordo su chi
di loro debba ricoprirla (come nel governo Conte I), salvo poi
recriminare in silenzio se quel “tecnico” si rivela un politico più fine
di loro. Poi c’è una variante alta, che aspira alla grande coalizione o
unità nazionale. Questa, secondo me, è la sola variante che giustifica
la temporanea abdicazione da parte dei politici; ma non certo della
Politica, che anzi può allora avvicinarsi un po’ di più all’interesse
nazionale. Forse per questo, per mantenere le distanze, i politici li
chiamano “tecnici”…»
Ma perché questa secondo variante ricorre così di rado?
«Per
un motivo molto concreto. A questa abdicazione la politica arriva
quando si accorge, tardivamente, che il Paese è arrivato alla canna del
gas. Allora, scatta un allarme. Occorrono decisioni, non promesse per
assecondare gli interessi di questi o di quelli. Quelle decisioni sono
in sé difficili da prendere, può darsi che tanti politici non ne siano
capaci. E sono impopolari, perché se fossero popolari sarebbero già
state prese. Meglio chiamare qualcuno che possa mettere un po’ d’ordine e
di chiarezza. E fargli prendere le decisioni impopolari. Certo, queste
avranno bisogno di essere approvate in Parlamento. Ma è più facile
nascondere la mano e dire alle successive elezioni: ma chi vi ha imposto
questi sacrifici? Meno facile sarebbe nascondere la faccia, se fossero
stati al governo».
Ritiene ancora possibile un accordo fra Giuseppe Conte e Matteo Renzi che possa produrre risultati concreti per il Paese?
«Auguro
al presidente Fico di riuscire a guidare la formulazione di un
programma sul quale tutti i partiti della maggioranza uscente si
ritrovino. E, dimenticavo, che sia abbastanza preciso, non fonte di
nuovi litigi tra un mese. Ma se Fico riuscirà in questa impresa, molti
si chiederanno: perché non viene messo lui alla prova, di formare e
guidare il nuovo governo? Intendiamoci, il presidente Conte ha
dimostrato dimestichezza con i problemi del governare, sul piano interno
e internazionale, che sarebbero nuovi per Fico. D’altra parte, se sarà
Conte a fare il governo, speriamo che senta una forte “ownership”, che
senta come suo il programma che Fico gli passerà. Conte ha già provato
una volta, nel 2018, a dirigere un governo del quale di fatto non aveva
scelto né il programma né i ministri. Penso che se incontrasse oggi
qualcosa di simile, non dovrebbe accettare».
La politica sforna di continuo soluzioni
creative con nomi di fantasia: responsabili, costruttori, ora anche
europeisti. Da dove nasce tutta questa inventiva?
«In effetti
è la prima volta che mi preoccupo vedendo aumentare il numero degli
“europeisti”. Comunque circa queste definizioni roboanti, ho molto
apprezzato quel che ha scritto ieri Luciano Fontana: “Quasi sempre
servono a coprire un vuoto di capacità di governo e di efficacia
dell’azione parlamentare”».
Next Generation EU implica riforme sulla giustizia, l’amministrazione e la concorrenza. La classe politica è pronta ad affrontarle? E gli italiani? «Per la classe politica vale quanto dicevo prima. Queste riforme non richiedono sacrifici come quelli che il “tecnico” di turno allora dovette, con i suoi colleghi di governo, chiedere agli italiani nel 2011-2012 per evitare il fallimento dello Stato. Ma anche le riforme oggi necessarie per Next Generation Eu toccheranno forti e consolidati interessi corporativi. Non è tanto probabile che un Paese che non cresce, ma che annega nella liquidità (grazie anche agli interventi della Bce che anestetizzano i politici e in genere gli italiani rispetto all’andamento del disavanzo e del debito pubblico) senta l’urgenza delle riforme e che i politici siano pronti a pagarne il conto in termini di consenso».
L’opinione pubblica comprende che, senza il sostegno europeo, l’Italia perderebbe l’accesso ai mercati in pochi giorni?
«No,
non credo che lo comprenda veramente. Gli italiani vedono uno spread
alto rispetto agli altri Paesi, ma che sembra basso. L’hanno visto
qualche anno fa a quasi 600. Soprattutto dal 2015, con il Quantitative
Easing, la Bce ha certo tolto molti affanni finanziari all’economia
europea. Ma, alterando il termometro dei tassi di interesse e degli
spread, ha permesso ai governi europei e alle opinioni pubbliche di non
proseguire sulla scomoda strada delle riforme strutturali e di una
politica di bilancio più corretta. Quel termometro aveva una funzione
simile a quella delle oche del Campidoglio, che starnazzando svegliarono
i Romani che così riuscirono a respingere l’assedio dei Galli. Per
ricordare quell’episodio i Romani costruirono lì accanto il Tempio di
Giunone Moneta (sì, proprio «moneta», che significava «che avverte»,
«che ammonisce»). In fondo, è in questo spirito che Ciampi e Andreatta
si mossero, con il divorzio del 1981 tra il Tesoro e la Banca d’Italia:
evitare che il disavanzo e il debito aumentassero a dismisura nella
disattenzione generale; evitare che la politica monetaria facesse
perdere alla “moneta” quella capacità segnaletica».
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