MORITURI TE SALUTANT

 

di Donato Speroni
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Il nuovo presidente dell’Istat Gian Carlo Blangiardo ha lanciato l’allarme sulla situazione demografica e sugli effetti che  deriveranno dalla riduzione della popolazione non solo sul piano previdenziale, ma più in generale sulla situazione economica del Paese. Per indurre la politica ad affrontare questi temi l’Istituto di statistica dovrebbe insistere con dati e analisi: sui possibili scenari al 2050, su opportunità e limiti di una diversa politica familiare, sugli esodi verso l’estero, ma soprattutto sulla quantità di nuovi immigrati di cui il Paese ha bisogno per rimanere in equilibrio. Un tema politicamente delicato, ma sul quale l’Istat non può essere reticente.

Nella sintesi del Rapporto annuale dell’Istat presentato alla Camera il 20 giugno, il presidente Gian Carlo Blangiardo ha dato spazio alle proiezioni demografiche. Una sua slide ha formulato la previsione che la popolazione italiana scenderà dagli attuali 60,4 milioni a 58,3 milioni nel 2050, senza nascondere nel suo discorso gli impatti negativi sulla economia e sul sistema previdenziale.

Le proiezioni Istat prevedono che nel 2050 la quota di ultra65enni sul totale della  popolazione  potrebbe  ulteriormente  aumentare  rispetto  al  livello  del  2018 (pari al 23 per cento) tra 9 e 14 punti percentuali, secondo ipotesi più o meno ottimistiche. Alla stessa data, la percentuale di popolazione di età 0-14 anni potrebbe mantenersi, nel migliore dei casi, attorno al livello attuale (13,5 per cento), ma anche scendere al 10,2 per cento nello scenario meno favorevole. In parallelo, la quota dei 15-64enni sembra verosimilmente destinata a ridursi al 54,2 per cento del totale, con un calo di circa dieci punti percentuali che equivale a oltre 6 milioni di persone in età da lavoro in meno rispetto a oggi. Questi cambiamenti, in assenza di significative misure di contrasto, potrebbero  determinare  ricadute  negative  sul  potenziale  di  crescita  economica,  con impatti rilevanti sull’organizzazione dei processi produttivi e sulla struttura e la qualità del capitale umano disponibile; non mancherebbero altresì di influenzare la consistenza e la composizione dei consumi delle famiglie, con il rischio di agire da freno alla domanda di beni e servizi. L’accentuarsi dell’invecchiamento demografico comporterebbe, inoltre, effetti significativi sul livello e sulla struttura della spesa per il welfare: con pensioni e sanità decisamente in prima linea, pur mettendo in conto che gli anziani di domani saranno in migliori condizioni di salute e di autonomia funzionale.

L’allarme è stato rafforzato dal bilancio demografico nazionale diffuso il 3 luglio:

Al 31 dicembre 2018 la popolazione ammonta a 60.359.546 residenti, oltre 124 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,2%) e oltre 400 mila in meno rispetto a quattro anni prima. Il calo è interamente attribuibile alla popolazione italiana, che scende al 31 dicembre 2018 a 55 milioni 104 mila unità, 235 mila in meno rispetto all’anno precedente (-0,4%). Rispetto alla stessa data del 2014 la perdita di cittadini italiani (residenti in Italia) è pari alla scomparsa di una città grande come Palermo (-677 mila).

Nel suo recentissimo rapporto “World population prospects 2019”, l’Ufficio demografico dell’Onu formula per l’Italia previsioni ancora più allarmanti. Secondo la medium variant, la previsione considerata più attendibile, la popolazione italiana al 2050 scenderebbe a 54,32 milioni, cioè con una perdita del 10% rispetto ai residenti attuali. È difficile immaginare un Paese in sviluppo con queste traiettorie di invecchiamento e di riduzione della popolazione.

Blangiardo è un demografo molto stimato anche a livello internazionale. Il suo ingresso all’Istat aveva suscitato molta apprensione, perché era stato designato dalla Lega e per certe sue posizioni vicine all’integralismo cattolico. Bisogna dire però che è entrato nell’istituto di Via Balbo con discrezione e ha già avviato, almeno dagli echi che ci arrivano, un processo di rasserenamento del clima interno, dopo gli anni turbinosi della presidenza di Giorgio Alleva. La stima che lo circonda si è rafforzata, ma a questo punto vorremmo sapere da lui qualcosa di più sulle prospettive demografiche, tema che egli stesso ha definito centrale per il futuro del Paese, tanto da affermare, con riferimento alla situazione demografica:

Acquisire  consapevolezza,  di  questo  come  di  ogni  altro  problema  emergente,  con  argomentazioni  rese  oggettive  da  appropriati  dati  statistici,  si  configura come irrinunciabile premessa per governare il cambiamento, garantendo elevati livelli di qualità della vita ai cittadini.

Come si può, dunque, “governare questo cambiamento”? Sappiamo che non è compito dell’Istat suggerire  politiche, ma Blangiardo, grazie anche alla sua competenza, potrebbe stimolare ulteriori approfondimenti per “rendere oggettive le argomentazioni con appropriati dati statistici”. Per esempio, sarebbe interessante che l’Istat collaborasse a costruire degli scenari al 2050, per far prendere coscienza ai dirigenti politici e ai media di che cosa potrebbe davvero significare una popolazione ridotta a 58 o addirittura (se dobbiamo guardare alla previsione dell’Onu) a 54 milioni.

C’è però un’altra risposta alla quale l’Istat dovrebbe contribuire. Riguarda la domanda: la curva demografica si può modificare? È possibile evitare il declino e mantenere la popolazione a 60 milioni, se si ritiene che questo sia il livello di popolazione considerato ottimale?

Sappiamo bene che le previsioni demografiche cambiano lentamente, ma ci sono almeno tre grandezze sulle quali si può cercare di intervenire.

1)   La natalità. Il tasso di fecondità in Italia è tra i più bassi del mondo e questo induce molti esponenti politici ad affermare che la risposta al declino demografico consiste in politiche per la famiglia tali da far aumentare sostanzialmente la natalità. Una recentissima proposta del ministro della Famiglia Lorenzo Fontana vorrebbe elargire un assegno da 100 a 300 euro per ogni bambino. Sarebbe certamente utile: molte famiglie italiane si concederebbero il “lusso” di fare più figli se potessero permetterselo e le politiche pubbliche in questo campo sono sempre state piuttosto inefficaci. Sarebbe importante però collocare la richiesta di nuove politiche per la famiglia in un contesto adeguato: valutare cioè di quanto potrebbero incidere, sulla base delle esperienze degli altri Paesi. Molto probabilmente questa elaborazione ci farebbe scoprire che queste misure sono sì necessarie ma tutt’altro che risolutive.

2)   L’emigrazione. In un decennio, le cancellazioni anagrafiche per l’estero sono passate da 80mila a 157mila all’anno. L’emigrazione italiana, soprattutto quando è composta da giovani laureati che rimangono all’estero, è certamente una perdita netta per il Paese che ha investito risorse per formarli. Ma anche il deflusso degli stranieri che dopo essersi integrati nel nostro Paese scelgono di lasciarlo è un impoverimento. L’Istat fa notare che nel 2018 ci sono stati 33mila casi di cittadini italiani di origine straniera emigrati all’estero. In pratica, si tratta di persone che sono rimaste nel nostro Paese abbastanza da acquisire la cittadinanza, ma che poi, forse per mancanza di prospettive, scelgono di riemigrare. La domanda, alla quale anche l’Istat potrebbe contribuire a rispondere con dati e analisi, è se si può fare qualcosa per ridurre questi deflussi che impoveriscono il Paese.

3)   L’immigrazione. Per quanto si possa intervenire sui punti precedenti, il nodo vero per evitare l’eccessivo invecchiamento e il declino della popolazione resta quello dell’immigrazione. Le iscrizioni in anagrafe dall’estero si sono ridotte da quasi 500 mila del 2008 a 332 mila del 2018. Il saldo migratorio con l’estero si è quindi ridotto a 175 mila unità nel 2018. La domanda, politicamente delicata, è dunque quanti immigrati dobbiamo accogliere in più ogni anno per mantenere l’equilibrio demografico. Un sondaggio effettuato da Numerus qualche anno fa presso alcuni qualificati demografi italiani collocava questa cifra tra 150mile e 200mila all’anno. Si intende che parliamo di una accoglienza e di una integrazione adeguata. Una politica dell’immigrazione deve affrontare ameno tre problemi difficili: quanti accogliere e chi accogliere; come far fronte alla pressione demografica dall’Africa, che certamente aumenterà e che non può certo essere risolta aprendo le porte a tutti; che cosa fare dei tanti irregolari che ci sono in Italia, cominciando a cercare di capire quanti sono: 90mila, come ha detto qualche settimana fa il Viminale, ridimensionando il problema dei rimpatri, o 500mila, come dicono altre stime. In ogni caso su questo punto la politica deve pronunciarsi senza reticenze. la mia personale opinione è che alla fine per gli irregolari si imporrà una sanatoria, ma nessuno dei maggiori partiti, neppure il Partito democratico, ha oggi il coraggio di esprimere questa tesi. Comunque servono cifre attendibili, sia sulla presenza degli irregolari, sia sul fabbisogno futuro di stranieri da integrare.

Tutti questi nodi non possono certo essere risolti dall’Istat. Ma  l’Istituto, sotto la guida di un demografo come Blangiardo, potrebbe fare dare un contributo importante per fare chiarezza su questi temi con dati e analisi; a costo, forse, di dare qualche dispiacere a chi ha designato l’attuale presidente.

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