Coronavirus, i pm indagano sulla circolare del ministero della Salute che poteva fermare il contagio

 

Coronavirus, i pm indagano sulla circolare del ministero della Salute che poteva fermare il contagio

La direttiva del 22 gennaio prevedeva che si facesse un tampone per sospetto Covid a chiunque avesse "polmoniti non identificate", quella del 27 gennaio non più. La procura di Bergamo indaga sulla scelta che potrebbe aver ritardato di un mese la lotta al virus

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BERGAMO – Come si potevano riconoscere nella bergamasca i possibili casi Covid nel mese di febbraio? Quali erano i criteri per individuarli, possibilmente – ma non fu così – prima che l’epidemia diventasse ufficiale anche qui, con tutto il suo portato devastante, e cioè prima del maledetto 23 febbraio? Nell’inchiesta della procura di Bergamo – che indaga per epidemia colposa – fa breccia un caso che ha per ora i contorni del giallo, ma che, nei prossimi giorni, potrebbe trovare una soluzione e diventare uno degli snodi delle indagini.

Il giallo ruota intorno alle circolari (acquisite dai magistrati) emanata dal ministero della Salute sulle linee guida per riconoscere, appunto, il coronavirus. La prima circolare è datata 27 gennaio. In una versione, però, che escludeva il criterio riguardante le cosiddette “polmoniti non identificate”. Il criterio, o linea guida, era contenuto nella circolare precedente, datata 22 gennaio. Che è stata poi dunque rivista e superata. Un passaggio non di poco conto. Perché quel parametro sulle polmoniti, diciamo, generiche, se compreso nel protocollo definitivo avrebbe consentito di individuare il virus con quasi un mese di anticipo. Permettendo ai medici di trattare come sospetti casi Covid tutte le polmoniti di natura “non identificata”. Quelle che presumibilmente affliggevano i pazienti ricoverati all’ospedale Pesenti Fenaroli di Alzano Lombardo – in Val Seriana – già prima del fatidico 23 febbraio. Messa in altri termini: se i primi tamponi positivi fossero arrivati a fine gennaio, e non tre settimane dopo, molti contagi si sarebbero potuti evitare?

E’ una delle domande che si sono posti i magistrati bergamaschi quando la scorsa settimana sono scesi a Roma per interrogare il premier Giuseppe Conte e i ministri Luciana Lamorgese e Roberto Speranza sulla mancata istituzione della zona rossa in Val Seriana. Era venerdì 12 giugno. Ma la pm Maria Cristina Rota e i tre colleghi, nella Capitale, erano arrivati già mercoledì 10: due giorni prima. Perché? “Attività di indagine”, erano le uniche parole filtrate dall’entourage degli inquirenti. Che il viaggio a Roma avevano deciso di anticiparlo di 48 ore (sulle tre audizioni di Palazzo Chigi) per eseguire evidentemente alcuni approfondimenti. E acquisire delle carte. Qualcuno dei testimoni sentiti dai pm nei giorni precedenti al viaggio romano aveva rivelato la “discrepanza” tra le due circolari di cui sopra – quella del 22 e quella del 27 gennaio – come uno dei fattori che potrebbero aver determinato il grande numero di casi bergamaschi: in particolare in quel distretto compreso tra Alzano e Nembro, nel cuore del focolaio più letale del coronavirus in Europa.

Gli epidemiologi e i medici degli ospedali orobici nella quarta e ultima settimana di febbraio cercavano - per tagliarla con l’accetta - i cinesi o cittadini della provincia che erano entrati in contatto con questi ultimi. Perché procedevano in questo senso? Perché così prevedevano le linee guida emanate dal ministero della Salute. Riletto oggi, il viaggio anticipato a Roma dei pm è servito per acquisire documentazione. E in quella documentazione è contenuta anche la “prima bozza” (chiamiamola così, per semplificare). Quella del 22 gennaio. Nella quale, al punto “Definizione di caso provvisoria per la segnalazione”, è prevista anche la tipologia così descritta: “Persona che manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato, senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio, anche se è stata identificata un'altra eziologia che spiega pienamente la situazione clinica”. Un criterio di individuazione che nella bozza del 27 gennaio sparisce.

Perché il ministero della Salute l’ha stralciato? E ancora: è, questo, l’unico documento, inerente all’ “individuazione dei casi Covid”, finito sul tavolo dei pm? No. Ce n’è un altro. Stesso tema. Le linee guida per scovare i sospetti casi coronavirus. Ma firmato dalla Regione Lombardia. In una nota del 7 febbraio (anche questa in mano ai magistrati) Palazzo Lombardia invia alle Ats e alle Asst una circolare dove si precisa che per caso sospetto si indica anche chi non ha avuto contatti con la Cina. Infatti la Regione scrive: «Si chiede inoltre di porre attenzione al percorso di diagnosi differenziale tenendo in conto in particolare l’attuale stagione influenzale: si precisa come confermato dall'Istittuo superiore della Sanità nella riunione del 29 gennaio 2020, che anche in presenza di identificazione di altre diagnosi eziologiche (per esempio, influenza) è necessario testare egualmente per 2019-nCoV il caso sospetto». Insomma: sul tracciamento dei (primi) casi Covid, nelle linee guida emanate da Roma e da Milano, almeno all’inizio qualche incertezza ha ballato. Toccherà ai magistrati chiarire se sia stata una leggerezza ininfluente o qualcosa di più.

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