Fukuyama: "Non è detto che perderemo la battaglia con la Cina"
di Laure MandevilleQuesto contenuto fa parte della newsletter Continental Breakfast, una selezione di articoli pubblicati dall'alleanza LENA (Leading European Newspaper Alliance). Per vedere un'anteprima potete cliccare qui / Per iscrivervi e riceverla ogni settimana sulla vostra casella di posta elettronica potete cliccare qui
Il 2020 è finito. Che insegnamenti dobbiamo trarre da questo anno così difficile, in balia del virus Covid-19?
"Le lezioni principali riguardano i fattori che hanno aiutato alcuni
Paesi a contrastare il virus meglio di altri. Abbiamo osservato
differenze considerevoli fra un Paese e l’altro. Secondo alcuni
commentatori, la linea di demarcazione è tra democrazie e regimi
autoritari, che avrebbero gestito meglio la situazione. Queste persone
richiamano l’attenzione in particolare sulle differenze fra gli Stati
Uniti e la Cina, e in effetti fra questi due Paesi il contrasto è
eclatante. Ma se si va a guardare un po’ più da vicino, l’efficacia non
dipende dal fatto di avere o non avere una democrazia, perché alcune
democrazie se la sono cavata piuttosto bene, per esempio la Corea del
Sud, il Giappone o Taiwan. Anche in Europa abbiamo osservato delle
differenze che dimostrano che il problema non è legato alla questione
democratica (anche se queste differenze sembra che si stiano
annullando). Ci sono altri fattori più importanti, in particolare la
capacità dello Stato di far fronte a emergenze sanitarie. Penso che il
fatto che l’Asia orientale abbia una tradizione burocratica forte e
antica, nel senso di una tradizione di pubblici funzionari con
conoscenze tecniche, competenti e capaci di lavorare senza eccessive
interferenze politiche, abbia giocato un ruolo. Certo, queste
interferenze inizialmente in Cina si sono fatte sentire, quando lo Stato
ha cercato di mascherare la pandemia, ma dopo che le autorità hanno
cambiato marcia i cinesi si sono dimostrati piuttosto efficaci.
Un altro fattore è legato alla fiducia della società. Nei Paesi come gli Stati Uniti o il Brasile, dove le società sono fortemente polarizzate, la risposta non è stata positiva. Se le persone non si fidano le une delle altre, e non si fidano del Governo, non adotteranno le misure raccomandate dalle autorità. Negli Stati Uniti è andata particolarmente male, perché qui negli ultimi quattro anni si è avuta una polarizzazione estrema. Indossare una mascherina è diventata una questione politica, molto più che in quasi tutti gli altri Paesi, dove la gente ha semplicemente deciso che si trattava di un obbligo che bisognava accettare.
Infine, è importante la capacità di dare l’esempio. Se si ha un presidente populista, che come Bolsonaro o Trump non vuole prendere misure impopolari, i risultati sono pessimi.
Capacità intrinseca dello Stato, livello di fiducia all’interno della società e qualità di leadership: ecco i tre elementi chiave. Sfortunatamente, il modo in cui ogni Paese li ha combinati in questo momento specifico è dipeso in parte da un caso della storia.
La Francia ha una tradizione statalista e burocratica, ma lo
Stato in questo caso si è rivelato inefficace, come se fosse in corso un
declassamento più generale, non legato alle circostanze politiche. Non
potrebbe essere che questo virus accelererà il declino dell’Occidente e
che il 2020 segnerà la fine del "secolo americano" e l’inizio di quello
che Sergeij Lavrov chiama "il mondo postoccidentale"? Insomma, il 2021
sarà un "secolo asiatico"?
"Questa pandemia accelererà lo spostamento del centro di gravità
dell’economia mondiale verso l’Asia orientale. È una cosa che non
riguarda solamente la Cina. Tutti gli altri Paesi asiatici hanno gestito
questa crisi in modo abbastanza efficace. Rispetto alla forza della
Cina, tuttavia, sono del parere che non disponiamo di informazioni
sufficientemente precise sulla realtà della loro ripresa. Stanno uscendo
molti rapporti, in particolare sul tasso di disoccupazione, che sarebbe
molto più elevato di quanto il Governo sia disposto ad ammettere. Negli
ultimi giorni è stato messo in atto un razionamento dell’energia
elettrica, a causa di blackout nelle grandi città. Sta succedendo
qualcosa, e non sappiamo bene cosa.
Inoltre, nelle nostre democrazie, a prescindere dai problemi che possiamo avere, abbiamo ancora il vantaggio di poterci sbarazzare dei nostri leader, quando non sono capaci. È quello che abbiamo appena fatto negli Stati Uniti! il nostro presidente non se ne è ancora andato, ma se ne andrà e fra poco avremo una nuova Amministrazione e un nuovo presidente! Nei regimi autoritari, questa cosa non è possibile. Sfortunatamente, in tutto il mondo vediamo moltiplicarsi i casi di presidenti che restano aggrappati al potere, come in Uganda, in Tanzania. Anche se prendono decisioni sbagliate, non si riesce a liberarsene. La Bielorussia è un altro di questi casi: Lukashenko ha preso delle decisioni sbagliatissime, ha negato la realtà del virus; eppure, nonostante tutte le manifestazioni coraggiose che invocano le sue dimissioni, è sempre lì".
La globalizzazione dell’informazione non è minimamente propedeutica al cambiamento politico. Lo abbiamo visto in Bielorussia. La globalizzazione dell’informazione non si traduce necessariamente in una leva di pressione.
"È un problema che non è legato unicamente alla globalizzazione. Internet ha indebolito concretamente tutti i vecchi canali di informazione, la stampa tradizionale, le televisioni. All’inizio, tutti pensavano che sarebbe stato fantastico, che ognuno avrebbe potuto scrivere quello che voleva, senza sottoporlo a un giornale o a un editore e senza dover sottostare ai paletti di un organismo pubblico. Ma la realtà è che questa libertà ha portato alla creazione di mondi paralleli, dove le persone non si misurano più con gli stessi fatti. Per esempio, c’è una valanga di informazioni sui vaccini, teorie complottiste di ogni sorta, una situazione senza precedenti. Non penso che si tratti di un problema insolubile. Ogni epoca ha dimostrato che i mutamenti tecnologici sono sempre accompagnati da rotture politiche, e penso che finiremo per trovare una risposta adeguata. Ma per il momento ci troviamo in una situazione molto strana, in cui i cittadini non hanno le stesse informazioni. La deliberazione e la scelta democratica, in questo modo, diventano una faccenda estremamente complicata".
La crisi della stampa, generata da questa rivoluzione, in
effetti è profonda. In un recente articolo pubblicato sulla nuova
rivista di idee American Purpose, lei scrive che l’elemento più
pericoloso della situazione è la comparsa di democrazie illiberali,
come l’Ungheria, la Polonia o anche Trump negli Stati Uniti, che mettono
sotto pressione la stampa per cercare di influenzarla. Ma la crisi non
comincia prima, con l’incapacità del sistema, e dei media consolidati,
di prendere in considerazione e descrivere una parte importante della
realtà? Se il populista Donald Trump è riuscito a prendere il timone
degli Stati Uniti è perché un segmento molto significativo della società
non si sentiva più preso in considerazione…
"È corretto. C’è una divisione sociale che è emersa nei Paesi sviluppati
tra le persone che vivono nelle grandi città, sono cosmopolite e
connesse al mondo, e tutti gli altri. Questa cosa vale in Ungheria, in
Polonia, in Turchia, in Russia, negli Stati Uniti, in Gran Bretagna. E
in Francia! Se si guarda al fenomeno dei gilet gialli, si vede che non
corrispondono alle vecchie divisioni ideologiche tradizionali, ma a
divisioni sociali. È una parte importante del problema. In molte
democrazie ricche, la sinistra ha perso totalmente il contatto con la
sua base popolare. Nel XX secolo difendeva i sindacati e il
proletariato. Ma negli ultimi quarant’anni la definizione di uguaglianza
ha cominciato a spostarsi. Sono le donne, i gay, le lesbiche e gli
immigrati che sono diventati le nuove categorie emarginate e il target
dei partiti socialisti, comunisti e socialdemocratici. Ma la conseguenza
è che questi partiti hanno perso il contatto con la classe operaia
bianca e le classi popolari in generale. In Francia, la maggior parte
degli elettori del Partito comunista si è spostata verso il Fronte
nazionale. È il sintomo della rivolta delle classi popolari bianche, ed è
visibile ovunque. Se si vuole risolvere questo problema, bisogna
ristabilire un contatto con queste persone".
È un elemento fondamentale, perché se non riesce a risolvere questo problema, la democrazia americana non potrà ritrovare la sua forza. Perderà la sua preminenza sulla scena internazionale, e il mondo intero risentirà di questo indebolimento. Lei vede una presa di coscienza di questo fatto? Dall’esterno, la sensazione è piuttosto che l’America continui a essere attraversata da due correnti rivoluzionarie: da un lato, la rivolta trumpiana, sempre molto forte, come hanno dimostrato le elezioni di novembre; dall’altro, una rivoluzione identitaria portata avanti dalla sinistra radicale, che sta uscendo dai campus universitari e si sta propagando nei media e sulla stampa. E in mezzo Biden, che non cavalca nessuno di questi due movimenti. Che cosa può fare?
"Ci sarà una guerra in seno al Partito democratico, fra l’ala progressista e le persone come Biden. Donald Trump è andato molto meglio del 2016 fra le minoranze, gli ispanici ma anche gli afroamericani, perché molti, fra loro, sono realmente ostili all’ala sinistra del Partito democratico. Fino a questo momento, il partito era saldamente unito dalla comune opposizione a Trump. Ma quando Biden si insedierà alla Casa Bianca, queste grandi fratture si apriranno. Lui cercherà di tenere insieme tutti, ma non sarà possibile e inizierà una battaglia.
Si potrebbe immaginare uno scenario simile all’interno del Partito repubblicano, fra i sostenitori del libero scambio in versione reaganiana e i trumpisti. Negli Stati Uniti, sfortunatamente, non abbiamo un sistema di rappresentanza elettorale proporzionale. Il nostro sistema incoraggia un oligopolio di due partiti, quando in realtà c’è un forte consenso per il centro. Se avessimo un sistema all’australiana, che permette di votare per un terzo partito, potremmo immaginare di veder emergere un blocco centrista che potrebbe diventare dominante. Purtroppo, però, nessuno dei due partiti ha interesse a farlo".
Il Partito repubblicano non potrebbe invece usare i progressi
di Trump fra le minoranze per tornare con forza nel 2024? A mio parere
non è un movimento nazionalista bianco, ma un movimento nazionalista e
operaio.
"Il Partito repubblicano parla da tempo della necessità di
adottare una retorica più inclusiva. Ma Trump ha sfruttato la leva
razziale. Basti pensare alla battaglia sulle statue dei generali
sudisti: ha spiegato che voleva continuare a onorare la memoria di
schiavisti e che non intendeva cambiare punto di vista, quando invece
bisognava riuscire a trovare una soluzione, tenendo conto della
complessità delle situazioni. Ci sono tanti repubblicani che non
vogliono aprire il partito. E invece farebbero bene a farlo, perché le
elezioni hanno dimostrato che molti membri delle minoranze sono
ricettivi ai valori conservatori. Le cose potrebbero cambiare con
l’uscita di scena di Trump".
Lei non pensa che Trump rimarrà una forza politica importante?
"Rimarrà una forza importante. Ma la presidenza ti offre un
palcoscenico eccezionale, che non avrà più. Quando alla Casa Bianca ci
sarà Biden, l’attenzione si sposterà su di lui. La fortuna di Biden è
che i vaccini saranno ben presto sotto controllo. L’economia si
riprenderà. Non sarà per merito di Biden, ma forse avrà fortuna".
Lei ha accennato all’incertezza che sussiste riguardo alle
dinamiche interne della Cina. Sostiene che forse è prematuro dire che
sarà la prossima superpotenza. Ma molti esperti, come David Goldman nel
suo ultimo libro, You Will Be Assimilated ("Sarete
assimilati"), ammoniscono che la Cina sta vincendo molte battaglie
tecnologiche fondamentali, nel 5G, nell’intelligenza artificiale… Se la
Cina, che è uno Stato totalitario, controllerà una tecnologia dalle
potenzialità "totalitarie" evidenti, non è destinata a diventare una
sfida anche più grande di quella che fu rappresentata dall'Urss?
"Che la Cina rappresenti una sfida molto più grande dell’Unione
Sovietica è fuori di dubbio. Nessuno dovrebbe essere compiacente
riguardo alla Cina. Dobbiamo prevedere il peggio e puntare sul fatto che
continuerà a ingrandirsi. Ma è importante tenere a mente che questi
vantaggi apparenti potrebbero non essere duraturi. La Cina potrebbe
trovarsi di fronte a numerose sfide. È fortemente indebitata, ha una
popolazione che non ha mai dovuto confrontarsi con una disoccupazione di
massa e crisi economiche importanti. Se ciò dovesse accadere, e penso
che sia inevitabile, non sappiamo fino a che punto il sistema politico
potrà rimanere stabile.
Inoltre, noi democratici siamo del parere che la permanenza al potere di
leader che non devono rendere conto a nessuno non va mai a finire bene.
È un elemento che non dobbiamo dimenticare: i sistemi autoritari fanno
fatica ad adattarsi ai cambiamenti. In sostanza, dobbiamo essere molto
inquieti e vigilanti nel breve termine, ma senza perdere fiducia nel
lungo termine, perché alla fin fine un sistema democratico, dove i
politici devono rendere conto del loro operato, è un sistema migliore".
Lei non pensa che la nostra profonda crisi apra una finestra
di opportunità per questi Paesi? Mentre noi siamo occupati a domandarci
se sia opportuno "assegnare un sesso" ai bambini e altri dibattiti
sociali che loro percepiscono come una forma di decadenza
dell’Occidente, i cinesi non potrebbero approfittare delle nostre
divisioni e imporre una forma di dominio? La tecnologia 5G fa venire le
vertigini per la sua capacità di controllare le attività umane…
"Lo faranno nel loro Paese. Ma saranno in grado di espandere questo
controllo all’esterno? È un grande interrogativo. Su alcuni aspetti
della politica da portare avanti nei confronti della Cina, Trump ha
avuto ragione. Ha avuto ragione a opporsi alla Huawei e agli
investimenti cinesi in queste infrastrutture digitali fondamentali. Ma
ha avuto torto a non formare una coalizione occidentale più forte per
contrapporsi a Pechino. Le sue battaglie contro gli alleati democratici
degli Stati Uniti hanno indebolito i suoi sforzi per mettere un freno
alla penetrazione cinese. Penso che Biden invertirà questa situazione e
cercherà di creare una maggiore solidarietà fra alleati, per bloccare
l’avanzata cinese. Ma sarà una lunga battaglia. E non sono affatto certo
che la perderemo".
Le università americane oggi hanno gli strumenti per portare
avanti questa battaglia? I cinesi producono ogni anno migliaia di
ingegneri nei campi tecnologici del futuro, mentre l’America, senza gli
studenti asiatici e in particolare cinesi, ormai fatica a riempire le
facoltà…
"La mia opinione è che il sistema universitario americano non se la
passa così male. I media conservatori hanno la tendenza a concentrarsi
sulle crisi dei campus universitari legate all’ideologia identitarista,
ed è verissimo che stanno accadendo delle cose assolutamente folli, ma
questo non vuol dire che le nostre università non continuino a offrire
un’ottima formazione e a produrre innovazione tecnologica. Io penso che
l’America conserverà il suo vantaggio in questo campo. Se uno va a
guardare le università cinesi, vede che il Partito comunista ha esteso
il suo controllo e tutti gli studenti devono passare il tempo a studiare
il pensiero di Xi Jinping e il marxismo-leninismo. Studiano tanto,
certo, ma passano molto tempo a imparare l’inglese! Ci sono dei limiti a
quello che può produrre uno Stato autoritario quando si tratta di
formare spiriti capaci di contestare l’autorità e la verità costituite
per innovare".
Uno degli insegnamenti del 2020 è che ci siamo resi conto di
quanto la tecnologia sia diventata centrale nelle nostre vite. Molti di
noi hanno passato la loro vita su Zoom, negli ultimi tempi. Ma la
democrazie fanno le scelte giuste in materia tecnologica? Non abbiamo
messo troppo l’accento sul software, a scapito delle infrastrutture? E
visto il carattere monopolistico delle piattaforme, non è arrivato il
momento di indebolirle per preservare le nostre libertà?
"Ho presieduto una commissione sulla questione delle dimensioni delle
piattaforme tecnologiche (Google, Facebook, Twitter, Amazon…) a
novembre. La nostra conclusione è stata che ci sono diversi problemi
economici e politici legati alla grandezza di queste piattaforme.
L’elemento economico è un problema di monopolio classico, perché questi
colossi impediscono alla concorrenza di emergere.
Ma il problema più acuto è il ruolo che queste piattaforme si sono messe a giocare come attori politici. Hanno una capacità enorme di amplificare certe voci e sopprimerne altre. E dato che noi, contrariamente all’Europa, non regolamentiamo questo settore della tecnologia, facciamo affidamento sul fatto che queste stesse aziende si regolamentino da sole. Durante le elezioni sono state prese misure attive per sopprimere certe dichiarazioni o teorie del complotto, alcuni tweet del presidente sono stati accompagnati da didascalie che avvertivano che erano da prendere con le molle, e via discorrendo. Ma non penso che questa possa essere una risposta al problema nel lungo periodo".
Non è pericoloso? Dopo tutto, chi sono questi oligarchi per decidere che cosa è vero e che cosa non lo è?
"Non hanno la legittimità. Peraltro, non sono molto contenti di dover
gestire questa regolamentazione, che li mette in una situazione
difficile nei confronti dei loro clienti. Noi abbiamo fatto una proposta
che punta a istituire un gruppo di aziende a cui i colossi dell’high-tech
potrebbero delegare la regolamentazione dei contenuti delle
piattaforme, società più piccole che introdurrebbero delle opzioni di
filtri per riflettere più precisamente le preferenze degli utilizzatori e
permettere di fornire delle opzioni di selezione dei contenuti molto
più variegate. In questo modo, potreste scegliere che cosa volete
vedere. Delle risposte future potenzialmente esistono, ma non abbiamo
ancora trovato una soluzione soddisfacente".
I responsabili politici potrebbero adottare delle regolamentazioni, come in Europa?
"Non penso che una cosa del genere sia all’ordine del giorno, perché non
esiste un consenso politico ampio al riguardo. Ma in questi ultimi mesi
ci sono stati dei grossi cambiamenti sulla questione dell’introduzione
di una normativa antitrust. Sono stati presentati numerosi esposti
antitrust contro Facebook e Google, si profila una situazione analoga
per Amazon. La maggior parte delle persone pensa che siamo stati troppo
lassisti nei confronti di queste aziende, che abbiamo lasciato che si
ingrandissero troppo. È un problema che non riguarda soltanto il settore
tecnologico. Gli economisti della scuola di Chicago per anni hanno
sostenuto che la dimensione delle aziende non rappresentava un problema.
Ma l’economista Thomas Philippon, dell’Università di New York, ha
dimostrato che i prezzi negli Stati Uniti ormai sono più alti che in
Europa, perché gli europei hanno introdotto delle leggi molto stringenti
sulla concorrenza".
Nel 1989 il suo celebre libro evocava la vittoria
dell’Occidente e della democrazia, e il sogno di una società mondiale
armoniosa. A distanza di trentun anni, le cose assomigliano piuttosto a
un incubo mondiale.
"Nel mio ultimo libro (Identità. La ricerca della dignità e i nuovi populismi) parlo di questo argomento. Ma se la gente avesse letto il mio libro La fine della storia
fino in fondo, avrebbe capito che evocavo già allora l’«ultimo uomo» di
Nietzsche per sottolineare che alla fine della storia la gente non
sarebbe stata felice, perché quella conclusione non le avrebbe dato un
sentimento di identità sufficiente. Scrivevo che le persone vogliono
qualcosa di più che essere cittadini con uguali diritti e avere un
sistema politico liberale. Vogliono essere catalani o scozzesi. Vogliono
che sia riconosciuta la loro identità di transgender o di lesbica.
Vogliono che lo Stato li sostenga. Avevo previsto molte delle cose che
stanno succedendo oggi. Nella società liberale ci sono molte cose che
alla gente non piacciono".
L'assenza di trascendenza?
"Sì, c’è un vuoto spirituale. Le persone non hanno la sensazione di
appartenere a una comunità, non si sentono mossi da valori superiori,
qualcosa che possa spingerli ad andare oltre se stesse. A destra come a
sinistra, percepiscono una mancanza che le nostre società liberali non
sono in grado di colmare. Il liberalismo esiste perché è necessario in
una società caratterizzata da diversità. Se si basa il consenso sulla
razza, la religione o l’etnia, in una società dove convivono razze,
religioni ed etnie diverse, si va verso il conflitto. È esattamente
quello che sta succedendo in India. L’India è stata costruita come una
repubblica liberale. Ma il primo ministro Modi e il suo partito
nazionalista indù stanno cambiando l’identità nazionale per fondarla
sull’induismo, cosa che equivale a escludere quasi duecento milioni di
cittadini. C’è una buona ragione se l’Europa adottò i principi del
liberalismo dopo le guerre di religione del XVI e del XVII secolo: lo
fece perché era un modo realmente efficace per governare delle società
divise. Ma questo argomento è destinato a tornare di grande attualità.
Le società illiberali non daranno buoni risultati. Servirà del tempo
prima che le persone se ne rendano conto".
(Copyright Le Figaro/Lena-Leading European Newspaper Alliance. Traduzione di Fabio Galimberti)
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