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30/12/20

CENSURATO DA FACEBOOK DI MAJONESE E KUNTE DE LI KUNTI

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17 dicembre 2019 Beppe Grillo si presenta al Senato, a Roma, indossando una mascherina nera, ben prima che la Cina avesse informato il mondo sulla situazione che si stava consumando nell’Hubei – circa 2 settimane prima della censura dei medici cinesi che avevano fatto rapporto su una malattia sconosciuta. Il blocco della provincia avverrà solo il 23 di gennaio, mentre il 13 di febbraio la Cina faceva pressione per la riapertura dei voli. Ai giornalisti Grillo dichiara che la mascherina serve a proteggersi dai loro germi. Un comportamento che non desta particolare scalpore e passa in sordina. Adesso quel gesto potrebbe assumere un significato diverso, alla luce dei nuovi sviluppi dell’epidemia e delle visite del novembre 2019 che avevano portato Grillo a incontrare privatamente l’ambasciatore cinese.

Non è un segreto che il Bel Paese a guida pentastellata mostri una sintonia curiosa con il governo di Pechino, che negli ultimi tempi è arrivata a trascendere i rapporti commerciali – strettissimi con tutti i paesi europei – in una generale benevolenza nei confronti del Celeste Impero. Rapporti, quelli tra Roma e Pechino, che sono frutto dell’azione di esponenti del Movimento 5 stelle, che non ha mai abbandonato una tendenza “terzomondista” invero presente sin dai primi giorni del Movimento.

In una recente intervista rilasciata al FattoAlessandro di Battista ha dichiarato senza troppi fronzoli – forse un po’ “ingenuamente” diciamo noi – che: “Salvini e Meloni denigrano la Cina perché credono ancora che per sedersi a Palazzo Chigi sia necessario baciare pantofole a Washington ma il mondo sta cambiando e la geopolitica, nei prossimi mesi, subirà enormi mutamenti. La Cina vincerà la terza guerra mondiale senza sparare un colpo e l’Italia può mettere sul piatto delle contrattazioni europei tale relazione.” Il rapporto con la Cina per l’esponente grillino è la carta migliore che l’Italia ha da giocare sui tavoli europei, un “protettore” importante che di certo spaventa tutti i paesi dell’Eurozona. Di Battista, tuttavia, ignora in primis che per sedersi a Palazzo Chigi il placet da oltre oceano è ancora conditio sine qua non – come lo fu per il famoso endorsement al governo giallorosso di “Giuseppi” da parte di Donald Trump del settembre scorso. Sulla natura del rapporto che può intercorrere tra un gigante candidato all’egemonia globale e un paese da 60 milioni di abitanti, diremo in seguito.

La vicinanza del ministro di Maio a Pechino è cosa nota, a partire dall’entusiasmo con cui nel 2018 annunciava la sottoscrizione del memorandum sulle nuove vie della seta, che avrebbe fatto del Bel Paese uno dei canali preferenziali per irrorare l’Europa di merci cinesi. Accordo ribadito con la presenza del ministro a Shangai – dove fu annunciato nel 2016 il progetto della BRI – al China International Import Expo del 2019. Un avvicinamento che ha destato malumori – oltre che da parte americana – anche in casa PD. Coronamento del sodalizio italo-cinese, le aperture del Movimento in materia di 5G. Il flirt con la Cina inizia in realtà già nel 2013, quando Grillo e Casaleggio si recano in visita speciale dall’ambasciatore cinese Ding Wei. Incontri che sono tornati a dar notizia a fine dello scorso anno, quando l’ex comico visita nuovamente, in due incontri privati l’ambasciata cinese a brevissima distanza l’uno dall’altro, dichiarando ironicamente che il motivo della visita era quello di “portare del pesto” all’ambasciatore.  Un mese dopo, Grillo appare in pubblico con la mascherina.

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Spada di Damocle sul destino dell’egemonia cinese, l’emergenza coronavirus ha rivelato la reale intensità del filo rosso che corre da Roma a Pechino. Nell’ottica di ribaltare l’immagine dell’untore mondiale, il governo cinese ha provveduto a inviare in Italia ingenti carichi di aiuti, sfruttando il temporaneo ritardo delle misure di solidarietà europee. Carichi di materiale sanitario che sono stati per la maggior parte acquistati dalle strutture italiane e solo in parte donati. Interessante come le donazioni, con l’eccezione degli aiuti della Croce rossa cinese – siano provenuti in larga parte da società del settore tecnologico che partecipano più o meno attivamente alla costruzione delle infrastrutture 5g: Huawei, Zte, Alibaba e Xiaomi in primis. Huawei ha recentemente proposto di sviluppare una rete cloud condivisa che possa mettere in contatto i centri italiani con gli ospedali cinesi dell’Hubei, con l’utilizzo di nuove tecnologie in campo cyber come Big Data e Intelligenza artificiale.

Thomas Miao, portavoce del colosso tecnologico in Italia, ha dichiarato che “a Wuhan l’efficace scambio di dati è stato un fattore cruciale per controllare l’epidemia poiché ha supportato le funzioni ordinarie, nonché servizi come la raccolta di dati, la diagnosi e il monitoraggio da remoto, la trasmissione di immagini ad alta risoluzione”. Che il 5g sia uno degli strumenti di softpower cinese in Italia, sembra averlo capito bene l’amministrazione Trump, che dopo la “guerra dei dazi” degli scorsi mesi si è impegnata zelantemente per fare in modo che i partner europei non procedessero nel progetto. La posta in gioco di questa via della seta tecnologica sono i dati dei pazienti e il rischio che centri sanitari italiani finiscano per appaltare le infrastrutture tecnologiche al gigante asiatico, fornendogli un nuovo strumento di pressione. Sapore d’oriente hanno anche le dichiarazioni sullo sviluppo in Italia di un’app di contact tracing – la famigerata Immuni – che appare ricalcata sugli omologhi cinesi e coreani.  Una via della seta tecnologica e sanitaria, che appare molto più difficile da sabotare rispetto a quella che corre(rà) sui binari che tagliano l’Eurasia.

Ennesima consonanza tra Italia e Cina, lo sviluppo di una narrativa comune sulla gestione del Covid 19, portata avanti sia da figure istituzionali che da diversi quotidiani nazionali. La volontà di far passare tutto ciò che arrivava da Pechino come aiuto umanitario disinteressato, come indicano abbastanza chiaramente alcuni titoli di Ansa, TPI e del Corriere fa il paio con le dichiarazioni del Ministro pentastellato Sideri, che in un’intervista rilasciata al Global Times (quotidiano del Partito Comunista cinese), aveva pubblicamente lodato il modello cinese nella lotta al Covid. Precedente importante di questa vicinanza narrativa, il silenzio assordante del governo italiano sulla dura repressione delle proteste di Hong Kong – l’unico dei governi del G7 a non aver preso posizione sulla vicenda. Silenzio ancor più rumoroso, quello sulla censura dei medici dell’Hubei da parte di Pechino, che ha determinato gravi ritardi nell’arginare il contagio della malattia in tutto il mondo. La vicenda dell’oftalmologo Li Wenlinag – che già il 30 dicembre aveva segnalato alle autorità cinesi una polmonite resistente ai farmaci, insieme alla dottoressa Ai Fen, ed era stato per questo censurato, per il governo giallorosso non è stato abbastanza per mettere in discussione il “modello Wuhan”. E’ bene ricordate che il controllo dell’informazione per una migliore immagine internazionale è fondamentale nella c.d. guerra asimmetrica, dottrina che a Pechino è di casa dal ’99, con la pubblicazione del saggio Guerra Senza Limiti, uno dei pilastri del political warfare del Celeste Impero.

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Il presidente del Copasir, Raffaele Volpi, già a marzo aveva messo in guardia sulla vulnerabilità degli asset italiani, dichiarando in una nota che c’è bisogno di “strumenti finanziari e legislativi che consentano l’inderogabile difesa degli interessi economici e strategici del paese; valutando opzioni che possano comprendere l’intervento di capitalizzazione, investimenti azionari, fino a giungere a capacità di controllo diretto”, sulla scia di quanto Bruno le Maire, ministro dell’economia francese, aveva già realizzato oltralpe. Con una contrazione del Pil che oscilla tra 5% e 12%, l’Eurozona sarà la regione del mondo più colpita dagli effetti economici del coronavirus; recessione che per quel che riguarda l’Italia si dovrebbe aggirare intorno al 10%, peggio solamente la Grecia. Una vulnerabilità inedita dell’economia italiana, che potrebbe facilitare investimenti aggressivi da parte di Pechino, i cui interessi sul suolo europeo sono passati dagli 1,6 miliardi del 2012 alla cifra di 35 miliardi del 2018. I crateri lasciati aperti nei mercati e nelle reti economiche europee – Italia in primis – potrebbero facilmente essere riempiti da nuovi investimenti del Dragone – che si stima avrà una crescita del PIL  tra 0 e 1%. Come afferma Sun Tzu: “chi voglia attaccare in modo irresistibile lo faccia infilandosi nei vuoti” e proprio il Presidente Xi, che è un ammiratore del filosofo del V secolo, potrebbe fare propria questa massima per un salto di qualità nel softpower cinese in in Italia (e in Europa)

Particolare attenzione per quelle che sono le infrastrutture portuali, tramite compagnie pilota del governo cinese come la China Ocean Shipping Company, che detiene il 100% delle quote del porto del Pireo per 35 anni. Investimenti simili hanno interessato altri porti europei: Rotterdam (35%), Anversa (25%), Bilbao (51%) e Marsiglia (49%); nel campo delle ferrovie sono invece gli scali spagnoli di Madrid e Saragozza a registrare gli investimenti più corposi, entrambi sotto il controllo cinese per il 51%. Il Bel Paese, unico dei paesi del G7 firmatari del memorandum Bri, non fa eccezione, con i 55 milioni investiti nello scalo di Vado Ligure, mentre si preannunciano 600 milioni di euro per il porto di Trieste e 1,3 miliardi per le infrastrutture della laguna veneta. E’ evidente che di fronte a una mole di investimenti simile misure convenzionali come il golden power potrebbero non bastare a mettere al sicuro gli asset strategici nazionali.

La Cina rappresenta ad oggi una minaccia all’ordine internazionale a guida americana, che ha in Europa la “perla” del suo impero. L’amministrazione Trump sa che l’ultima frontiera dello scontro con Pechino si gioca nei diversi campi lasciati aperti dalla pandemia, dalla narrativa ai nuovi orizzonti economici. Per gli USA è necessario che la Cina passi come il responsabile della situazione attuale e che al contempo non riesca a radicarsi nella rete economica europea. In questo senso, sono da leggersi le recenti dichiarazioni del presidente sulle prove che il virus sarebbe nato nel famigerato laboratorio di Wuhan e soprattutto sul fatto che Pechino interverrà nelle elezioni per fare in modo che il Tycoon perda la corsa alla Casa Bianca. La frontiera geografica di questa nuova guerra fredda è l’Europa, l’epicentro l’Italia. Il fatto che in una situazione di tensione il governo di Roma continui ad ammiccare a oriente, senza mettere un freno agli investimenti economici della Repubblica Popolare, è benzina sul fuoco di un conflitto che potrebbe presto riscaldarsi – si veda l’ipotesi vagheggiata da Trump sullo scalare un “risarcimento” per l’epidemia dalla quota di debito pubblico americano.

L’azione di Roma rischia di sfilacciare i rapporti con l’America, che ha ancora le possibilità di reagire in maniera consistente – come ha fatto velatamente intendere l’ambasciatore Eisenberg – e al contempo consegnare buona parte degli asset del paese al governo Cinese. L’Italia sa già che cosa significa essere provincia frontaliera di una guerra fredda, vale a dire trovarsi a svolgere il ruolo di teatro dell’azione di attori ben più potenti, limitando ancora di più una sovranità già ridotta all’osso. Per chi auspica che un’eventuale vittoria di Pechino nella “terza guerra mondiale” possa emancipare il Bel Paese da Nato e UE è bene ricordate che il Celeste Impero, quando tratta con le sue province ribelli, conosce molto il bastone e poco la carota, per informazioni citofonare a Hong Kong e Taiwan.

Di Francesco Dalmazio Casini

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