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BonapartismiConte vuole i Servizi segreti per farsi il partito e nascondere i pasticci del Russiagate

Il presidente del Consiglio non vuole cedere la delega sugli 007 perché deve costruirsi un futuro politico e non vuole far emergere i favori fatti a Trump. E ora Renzi e il Pd che faranno?

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Calcio nei denti di Giuseppe Conte a Matteo Renzi, Nicola Zingaretti e Andrea Orlando. Il presidente del Consiglio, in preda a una sindrome bonapartista da Grande Fratello, mercoledì ha detto a Bruno Vespa che non cederà la delega sui Servizi segreti, come richiesto in maniera ultimativa da Italia Viva e Partito Democratico, perché se lo facesse «comprometterebbe l’operatività dell’intero comparto» perché si costituirebbe una «struttura bicefala».

Affermazioni gravissime e del tutto ingiustificate, perché Conte le ha motivate col fatto che non disponendo di un partito non potrebbe dare la delega a un appartenente a tale partito, come è sempre stato nel passato. Dunque, si «costituirebbe una struttura bicefala anomala» con l’appartenenza del presidente del Consiglio e della Autorità Delegata a due partiti diversi.

Secondo la visione di Conte, l’appartenenza partitica prevale sulla possibilità che, all’interno di una coalizione di governo, vi sia un indirizzo politico e una direzione omogenei del comparto dei Servizi. Un sofisma provocatorio. Ancora più intollerabile dato che questa Autorità Delegata è rivendicata oggi dal partito democratico (candidato in pole position Emanuele Fiano), direttamente e implicitamente accusato da Conte di divergere dalla sua linea di direzione dei Servizi.

Un mix palese tra Azzeccagarbugli e isterie alla Louis Antoine de Saint Just che rivelano la ferrea volontà di Conte di rischiare la crisi di governo pur di non abbandonare ad altri quella plancia di controllo dei Servizi che gli è stata improvvidamente regalata da un ignavo Zingaretti nell’estate del 2019. Non si vede infatti come Renzi e tutto il Partito democratico possano chinare la testa e subire questo aut aut, per di più motivato in maniera così surrettizia. Tutto è possibile, naturalmente, ma ci vuole poco a prevedere che su questo scoglio la crisi di governo a gennaio rischi il naufragio.

La rigidità della posizione di Conte è tanto pretestuosa quanto ultimativa. Quando si evoca addirittura l’insorgere di una emergenza democratica che minaccerebbe la Repubblica – col mancato corretto funzionamento dei Servizi -, nel caso si costituisse oggi una Autorità Delegata assegnata al Partito democratico, è ben difficile poi fare marcia indietro e trovare una mediazione. Certo è che nel Partito democratico e in Italia Viva si registra lo stupore nei confronti di questa sortita di Conte e si sta calibrando la risposta.

Detto questo, è bene tornare al merito reale del contendere. A partire da due dati di fatto. Il primo è che Conte ha fatto un uso ai limiti dell’arbitrio di questo potere quando ha ordinato ai nostri Servizi di mettersi a disposizione piena dell’autorità giudiziaria degli Stati Uniti, nella persona del Procuratore Generale William Barr, nella intricata ma fantozziana vicenda Mifsud-Papadopoulos-Russiagate. Vicenda interna agli Stati Uniti che nulla aveva a che fare con gli interessi nazionali dell’Italia, men che meno col ruolo istituzionale dei nostri Servizi e le loro competenze.

Di fatto, i nostri Servizi sono stati obbligati da Conte a una attività del tutto impropria, al servizio di una autorità politica e giudiziaria straniera. Il fatto è che proprio grazie a questo favore Conte ha lucrato un vantaggio immenso: l’entusiasta e cruciale endorsement di Donald Trump «all’amico Giuseppi» nel momento in cui si doveva decidere chi sarebbe diventato presidente del Consiglio della nascente alleanza giallorossa.

Ma il pasticciaccio del Russiagate è ancora aperto (Mifsud è sempre dato per scomparso) e la prossima amministrazione Biden potrà scavare e rintracciarne risvolti scabrosi che, grazie all’operato di Conte, possono risultare più che spiacevoli. La prova è che Trump ha appena concesso la grazia presidenziale a George Papadopoulos, l’uomo chiave del lato italiano del Russiagate, per ogni sua eventuale responsabilità penale. Da qui la volontà, quasi la necessità, del premier italiano di mantenere un controllo ferreo e non condiviso sui Servizi. In chiaro: il Partito democratico non deve venire a conoscenza degli sconcertanti passaggi italiani del Russiagate.

Ma c’è altro. Ben altro. Negli ultimi anni infatti, i nostri Servizi hanno operato una sensibile modifica delle loro priorità di indagine e di informazione. Sempre attivi sul fronte della criminalità organizzata, del narcotraffico e del contrasto al terrorismo jihadista, così come del quadrante libico, da tempo si occupano sempre più del contesto economico e produttivo internazionale che coinvolge le nostre strutture industriali, economiche e finanziarie. La difesa degli interessi nazionali nell’era della globalizzazione ha dunque imposto una nuova, intensa, specializzazione delle attività di intelligence in ambito economico.

Controllare i Servizi oggi significa avere informazioni riservate sulla Cina e il 5G, su Leonardo e su tutta la rete di forniture di armi all’estero (vedi le fregate all’Egitto di al Sisi), su Fincantieri e la francese Stx Startmag, su Mediaset-Vivendi, sulle fusioni bancarie, eccetera. Una conoscenza di per sé preziosissima, fatta anche di rapporti riservati con un management piazzato in posizioni strategiche, che diventa indispensabile se si vuole fondare ex novo un movimento che si presenti alle elezioni.

Ed è esattamente questo il palese progetto di Conte: presentarsi al voto, quando sarà, a capo di un movimento che eroda consensi dal Partito democratico ai Cinquestelle, piazzato al centro dello spettro politico e innervato da un personale già collocato nei gangli decisionali del paese. In fondo, costruire un partito anche a cominciare dal controllo dei Servizi Segreti non è una novità, ha dei precedenti. Ma solo nei paesi autoritari. Vedremo se Zingaretti e Renzi riusciranno a fermare questo pericoloso progetto.

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