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di Fabio Massimo Parenti – Tra il 2009 e il 2013 la RPC è divenuta la prima potenza manifatturiera e commerciale al mondo, per poi superare il PIL dell’economia statunitense, a parità di potere d’acquisto, a partire dal 2014. Contestualmente, considerando anche l’accelerazione sul versante dell’innovazione tecnologica, l’aumento di produzioni a medio e alto valore aggiunto, la crescente integrazione finanziaria e il boom del potere d’acquisto della più grande classe media al mondo, possiamo asserire che la Cina rappresenti il più importante motore dell’economia globale. I dati sul suo contributo ad essa sono inequivocabili. Come se non bastasse, la classica Fortune Global 500 di quest’anno, come vedremo poco più avanti in dettaglio, è andata ad aggiungere un altro tassello a queste tendenze strutturali, col superamento del numero di aziende cinesi rispetto a quelle statunitensi. Per questo gli Usa hanno paura, sbagliando strategie e modalità di relazione con un mondo già profondamente cambiato.

Chi attacca ed aggredisce manifesta debolezza, perde credibilità ed annulla lo spazio per il dialogo. Se tale atteggiamento viene assunto da un paese come gli Usa, ciò deve preoccupare il mondo intero. Se gli Usa continueranno ad essere guidati dalla paura di essere soppiantati dalla Cina non avranno possibilità di definire strategie di adattamento adeguate ai tempi e vedranno assottigliarsi il proprio sostegno internazionale. L’idea di poter usare strategie del passato per il mondo di domani, parafrasando Kishore Mahbubani, rappresenta il più grande errore strategico compiuto dagli Usa in questa fase storica. L’origine di questo errore è da rinvenire nella paura percepita in funzione della percezione della minaccia al proprio status. Insomma, una doppia percezione che distorce la vista. L’esito di ciò vedrà gli Usa incapaci di confrontarsi responsabilmente con il resto del mondo. Le loro politiche economiche e strategie internazionali saranno sempre più figlie della paura ed in quanto tali pericolose per la comunità internazionale, che già sta subendo le manifestazioni della crescente debolezza di Washington. Se poi un esercito di sudditi impauriti nostrani continueranno ad andare dietro a quest’approccio fallimentare e improduttivo, come nel caso dei servizi a la Milena G, la frittata sarà fatta. Contro i nostri stessi interessi.

Tornando alla classifica di Fortune, possiamo sottolineare che, nonostante le numerose e ripetute tensioni commerciali avanzate dagli Stati Uniti per frenare l’avanzata di Pechino, il successo del modello cinese è confermato anche dai numeri contenuti nella Fortune Global 500 del 2020, il prestigioso ranking annuale che racchiude l’elenco delle più importanti aziende al mondo ordinate per fatturato. Leggendo l’ultima classifica, ci troviamo di fronte a un cambiamento rilevante al quale in Occidente è stata data poca importanza. Per la prima volta in assoluto all’interno del citato ranking compaiono più aziende con base in territorio cinese rispetto agli Stati uniti. Il tabellino parla chiaro: 124 a 121 in favore della Cina, un numero che sale a 133 includendo Taiwan. Il sorpasso cinese non è arrivato in modo casuale. Dando uno sguardo ai precedenti ranking, notiamo come il numero delle aziende Usa presenti nella classifica cali in maniera pressoché costante dal 2002, mentre quello delle aziende cinesi aumenti di anno in anno dal 2003.

Che cosa ci raccontano questi dati? Semplice: che il sistema economico cinese funziona e sta dando i suoi frutti, contrariamente al modello americano, sempre più incapace di adattarsi alle nuove sfide. Prendiamo Huawei, la società cinese di telecomunicazioni fondata a Shenzhen nel 1987 ed osteggiata in tutti i modi dall’amministrazione guidata da Donald Trump. Nel giro di un anno Huawei ha scalato il ranking della Global 500 passando dal 72esimo del 2019 al 49esimo posto del 2020. La sua rapida crescita riflette l’ascesa delle altre imprese cinesi, nonostante le sfide interne ed esterne con le quali deve quotidianamente confrontarsi la Cina.

In generale, Fortune ha attribuito l’enorme successo dell’economia cinese alle graduali e pianificate riforme iniziate nel 1978. Da lì in poi le cosiddette SOEs (State-Owned Enterprises, cioè le imprese statali) hanno messo in pratica fusioni e acquisizioni che non solo hanno migliorato l’allocazione delle risorse, ma anche guidato la loro rapida espansione internazionale.

Tornando alla classifica stilata da Fortune, la top 10 include tre aziende cinesi e due americane. Alle spalle della statunitense Walmart, troviamo le cinesi SinopecState Grid e China National Petroleum Corp. Basti pensare che quando Global 500 fu lanciata nel 1995, nel ranking c’era appena una compagnia cinese (Bank of China). La crescita è stata tuttavia progressiva. Il numero di aziende cinesi è cresciuto gradualmente, in linea con il successo dell’economia della Cina. Nel 1997 c’erano quattro aziende cinesi, nel 2001 (anno dell’ingresso di Pechino nella World Trade Organization) 12, mentre nel 2008 è avvenuto il sorpasso ai danni di Germania, Francia, Regno Unito e Giappone.

È infine interessante notare un altro aspetto: la distribuzione geografica dei gioielli cinesi sul territorio nazionale. La capitale, Pechino, accoglie 55 aziende, seguita dalla Greater Bay Area (21) e Shanghai (9). Il fatto che le aziende cinesi stiano superando quelle americane indica che la Cina, o meglio l’economia cinese, ha sviluppato una traiettoria economica più efficiente rispetto a quella adottata dagli Stati Uniti.

Da qui ai prossimi anni, continuando a puntare su programmazione-sperimentazione-apertura graduale, non è da escludere che Pechino possa accelerare ancora, lasciandosi ulteriormente alle spalle i “colossi” di Washington.

L’AUTORE

Fabio Massimo Parenti è attualmente Foreign Associate Professor di Politica Economica Internazionale alla CFAU, Dipartimento di diplomazia. In Italia insegna all’Istituto Internazionale Lorenzo de’ Medici a Firenze, è membro del think tank CCERRI, Zhengzhou, e membro di EURISPES, Laboratorio BRICS, Roma. Il suo ultimo libro è Geofinance and Geopolitics, Egea. Su twitter @fabiomassimos