Grazie ai Panama Papers rientrano più di un miliardo di dollari dai paradisi fiscali. E in Italia? Solo 65 milioni
Un vero e proprio tesoro recuperato grazie allo scoop giornalistico del consorzio Icij di cui fa parte L’Espresso. L’inchiesta di cinque anni fa scoprì gli uomini di Putin, il re saudita, il calciatore Messi e il presidente argentino Macrì. Nel nostro Paese, le carte hanno aiutato anche indagini penali
Più di un miliardo e 300 milioni di dollari, entrati nelle casse di almeno ventiquattro Stati. Sono soldi dei grandi evasori, recuperati dalle autorità nazionali grazie all’inchiesta giornalistica Panama Papers. Fino a cinque anni fa le cosiddette offshore, le società anonime con sede nei paradisi fiscali, sembravano fortezze inespugnabili: le indagini giudiziarie riuscivano a smascherarne i beneficiari solo in casi rari, per singoli individui accusati di reati gravi. Il muro è crollato nell’aprile 2016, quando oltre 370 giornalisti di più di cento testate di ottanta Paesi tra cui L’Espresso per L’Italia, hanno cominciato a pubblicare tutti, in simultanea, i risultati di un’inchiesta durata più di un anno: un lavoro collettivo (nome in codice: Prometheus) coordinato dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij), che ha svelato i segreti di oltre 214 mila società offshore. Tesorerie anonime create da uno studio legale di Panama, Mossack Fonseca, con filiali in altri paradisi esentasse come Isole Vergini Britanniche, Seychelles, Bahamas, Malta, Cipro, Singapore.
L’inchiesta Panama Papers è nata da una colossale fuga di notizie: oltre undici milioni di documenti ottenuti da due cronisti del quotidiano tedesco Suddeutsche Zeitung, che li ha condivisi con il network giornalistico di Washington. Lo scoop, che ha fruttato al consorzio Icij il prestigioso premio Pulitzer, ha rivelato i nomi dei beneficiari di una montagna di offshore: tra i clienti di Mossack Fonseca c’erano personaggi ricchi e potenti di oltre 200 nazioni. Gli articoli hanno innescato indagini giudiziarie e fiscali in tutti i continenti. Il risultato è il recupero di un bottino che finora ammonta a più di un miliardo e 364 milioni di dollari (per l’esattezza, 1.364.987.603): una cifra che si basa sui dati forniti da 24 Paesi, tra cui l’Italia. Il bilancio cresce ogni anno: solo nel 2021 gli evasori hanno dovuto sborsare 185 milioni. Ma l’incasso globale è molto più elevato: mancano all’appello, infatti, i soldi riscossi da oltre 50 nazioni, tra cui Stati Uniti, Canada, Brasile e Argentina, che per ora non rispondono alle richieste di pubblicare i dati.
Gli importi misurano, indirettamente, l’efficacia delle verifiche fiscali nei diversi Paesi. Chi ha recuperato di più? La palma spetta al Regno Unito, con 252,7 milioni di dollari. Seguono Germania (195,6), Spagna (166,5), Francia (142,2), Australia (137,6) e Colombia (88,8). L’Italia è in settima posizione, con 65,5 milioni di dollari, che corrispondono a 56 milioni e 600 mila euro. Soldi già incamerati dallo Stato, come conferma l’Agenzia delle Entrate, grazie alle indagini originate dai Panama Papers, a cui potranno aggiungersi altre istruttorie (penali o tributarie) non ancora concluse.
In Italia il consorzio Icij è rappresentato in esclusiva da L’Espresso. Tra
le carte di Panama il nostro settimanale aveva identificato, nel 2016,
più di 800 soggetti italiani: persone fisiche, o in qualche caso
società, titolari di offshore. In questi cinque anni la Guardia di
Finanza e l’Agenzia delle Entrate hanno chiesto spiegazioni a tutti gli
interessati, con domande molto semplici: ha dichiarato al fisco italiano
la sua società offshore? Ha pagato le tasse? Su 807 soggetti, ben 498
sono stati colti in flagrante: non avevano dichiarato niente. Quindi
hanno dovuto pagare le tasse evase, con sanzioni e interessi. Altri 309
hanno invece evitato le multe perché si erano già messi in regola con la
voluntary disclosure.
Tra i paradisi preferiti dagli evasori tricolore, secondo le indagini sui Panama Papers, spiccano le Seychelles,
dove c’erano 656 offshore registrate da italiani, per lo più su
consiglio di una banca d’investimenti di Montecarlo. Al secondo posto,
le Isole Vergini Britanniche, con 321, seguite dalle Bahamas (53) e
Panama (44). Nei casi più rilevanti, i presunti evasori sono stati
denunciati alla magistratura. Ci sono diverse Procure italiane che
continuano a indagare: si contano almeno 13 richieste di assistenza
internazionale, trasmesse a varie nazioni come Principato di Monaco,
Svizzera, Singapore, Regno Unito, Gibilterra, Guernsey, Lussemburgo,
Isola di Man, Jersey, Cina, Russia, Uruguay e naturalmente Panama.
A
livello mondiale, nelle oltre 200 mila società anonime, fondazioni e
trust registrate negli archivi di Mossack Fonseca, sono spuntati
centinaia di nomi eccellenti: 11 capi di Stato o di governo in
carica, decine di politici, stelle dello spettacolo, imprenditori,
campioni del calcio. Ma anche molti criminali: almeno 3.500, secondi i
dati raccolti dall’agenzia europea Europol.
Nei Panama Papers
ha fatto rumore soprattutto la cerchia degli intimi del presidente russo
Vladimir Putin. Amici da una vita, come i fratelli Arkady e Boris
Rotenberg, diventati miliardari acquisendo società privatizzate, avevano
almeno otto società alle Isole Vergini, intestatarie anche di proprietà
italiane. Un violoncellista legatissimo al presidente russo, Sergei
Roldugin, controllava altre tre offshore, che hanno gestito centinaia di
milioni. Esploso lo scandalo, Putin ha smentito che fosse un suo
tesoriere-prestanome, dichiarando alla tv russa che il musicista usava
quei soldi per «comprare strumenti musicali per il conservatorio di
Mosca». Un trust collocato in un paradiso fiscale ha tradito anche
l’allora premier inglese David Cameron, costretto ad ammettere di averne
ereditato una quota dal padre. Tra i clienti più ricchi di Mossack
Fonseca c’era il re dell’Arabia Saudita, Salman Bin Abdulaziz, padre del
principe ereditario Mohammed Bin Salman, attuale uomo forte del regime.
Il sovrano usava le offshore per comprare yacht e palazzi di lusso a
Londra senza fastidi fiscali. In Argentina i Panama Papers hanno
coinvolto le imprese dell’allora presidente Mauricio Macrì e l’asso del
calcio Lionel Messi. In Pakistan sono emerse proprietà estere
dell’allora primo ministro Nawaz Sharif, rimosso dalla carica nel 2017
dalla Corte suprema.
In Italia le carte di Panama hanno
aiutato anche indagini penali. Un personaggio chiave è Gianluca
Apolloni, romano, diventato nel 2008 responsabile della filiale italiana
di Mossack Fonseca. La sua attività è frenetica. Apre dozzine di
società tra Panama, Bahamas, Samoa, Anguilla, Cipro e Seychelles per
ignoti clienti. Nel 2013 viene incriminato in un blitz che porta anche
all’arresto di Massimo Ciancimino, figlio di Vito, il mafioso ex sindaco
di Palermo. Lui si proclama innocente, ma lo studio di Panama lo
licenzia. Quando L’Espresso pubblica il suo nome, la Guardia di Finanza
apre una nuova indagine e riesce per la prima volta a fotografare tutta
la galassia gestita da Apolloni: più di 200 offshore. L’indagine porta
al sequestro di edifici, terreni e conti correnti per oltre 35 milioni.
I Panama Papers aprono nuove piste anche nello scandalo del Mose di Venezia.
Dopo decine di condanne per corruzione, restava aperto un
interrogativo: dove sono finite le tangenti? I documenti pubblicati
dall’Espresso illuminano una offshore controllata dal
commercialista-prestanome di Giancarlo Galan: è la traccia che porta la
Finanza a identificare un tesoro estero dell’ex governatore veneto. A
cascata, l’indagine svela una rete più ampia di evasori: imprenditori
veneti che portavano soldi nei paradisi fiscali grazie al commercialista
di Galan e ai suoi soci di studio a Padova.
Da Panama passa anche la caccia al tesoro di Francesco Corallo, il figlio di un pregiudicato catanese che nel 2004 ha ottenuto la ricchissima concessione statale per le slot machine. Ora è sotto processo con l’accusa di aver frodato il fisco per oltre 250 milioni e corrotto politici di destra come Gianfranco Fini. Nel 2016 L’Espresso collega a Corallo una offshore creata pochi mesi prima a Dubai. Le indagini dei finanzieri dello Scico poi confermano che è una tesoreria no-tax da 40 milioni di euro, di cui la procura di Roma ha ordinato il sequestro.
Grazie ai Panama Papers, solo nel 2016 sono state aperte 150 indagini giudiziarie in 80 Paesi.
Una delle più scottanti riguarda Malta. Daphne Caruana Galizia, la
giornalista uccisa nel 2017 da un’autobomba, fu la prima a collegare due
offshore a un politico potente, l’allora capo di gabinetto Keith
Schembri, ora incriminato per frode fiscale e riciclaggio. Per
l’omicidio di Daphne è sotto accusa, come mandante, un uomo d’affari
legatissimo al governo maltese. All’inchiesta giornalistica, per il
consorzio, ha lavorato anche il figlio della vittima, Matthew Caruana
Galizia.
I Panama Papers hanno ispirato libri, studi
economici, perfino un film con Meryl Streep e Antonio Banderas (titolo
originale, “Laundromat”: lavatrice di soldi sporchi). Lo scandalo
globale dei ricchissimi che non pagano le tasse, e dei delinquenti che
riciclano, ha portato anche al varo di nuove leggi. Negli Stati Uniti,
dopo la vittoria dei democratici, in gennaio è stato approvato il
Corporate Transparency Act (prima bloccato da Trump), che obbliga a
dichiarare i titolari effettivi delle società. Lo stesso obiettivo è
previsto dall’ultima direttiva anti-riciclaggio dell’Unione Europea. Che
però necessita di leggi nazionali di attuazione, che l’Italia ha
approvato con tre anni di ritardo e gravi lacune: se il proprietario di
una offshore non vuole farsi identificare, può ancora nascondersi dietro
un «rappresentante legale».
Cavilli e scappatoie continuano ovunque a minare la lotta all’evasione e al riciclaggio. I
cronisti tedeschi dei Panama Papers, Bastian Obermayer e Frederick
Obermaier, chiesero a una collaboratrice di Mossack Fonseca, Leticia
Montoya, come poteva gestire migliaia di società offshore. La sua
risposta è sempre valida: «Non ho la più pallida idea di che società
siano, chi le controlli e cosa facciano». Per il virus della finanza
offshore, il vaccino è ancora lontano.
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